A cura dell’avv. Domenico Di Leo

Il comitato promotore delle c.d. tre leggi (si veda il sito www.treleggi.it) ha lanciato in Italia una campagna di sensibilizzazione su tre macro argomenti di rilevanza nel panorama giudiziario italiano. Lungi dall’essere di matrice squisitamente culturale, l’iniziativa si connota per il suo carattere operativo perché pone l’accento su tre aspetti della legislazione criminale italiana fortemente correlati fra essi.
Dando per scontata in questa sede la premessa breve fatta nella PARTE PRIMA del mese di aprile, occorre rilevare che l’ultima sanzione, in ordine di tempo, comminata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) di cui l’Italia è stata destinataria risale al mede di gennaio 2013 (c.d. affaire TORREGGIANI et autres).
La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante di 7 carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza. In particolare, la Corte ha evidenziato che la violazione dei diritti dei detenuti è constata nel fatto che i 7 reclusi sono stati tenuti, durante la detenzione, in condizioni al limite della sopportabilità in quanto le celle che li ospitavano (solo uno dei 7 è ancora detenuto) misurano circa 9 metri quadrati ciascuna. La Corte ha inoltre condannato l’Italia a pagare ai sette detenuti un ammontare totale di 100 mila euro per danni morali.
Nella sentenza di condanna emessa l’8 gennaio 2013, i giudici della Corte europea dei diritti umani hanno constatato che il problema del sovraffollamento carcerario in Italia è di natura strutturale, e che dunque esso riguarda non solo i 7 ricorrenti, come evidenziato dalla circostanza resa nota dalla stessa Corte per cui essa ha già ricevuto più di 550 ricorsi da altri detenuti che sostengono di essere tenuti in celle all’interno delle quali avrebbero non più di 3 metri quadrati a disposizione. Questa è la seconda condanna per l’Italia, dopo quella del luglio del 2009, per aver tenuto i detenuti in celle inadeguate.
La Corte di Strasburgo ha più volte ribadito che l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo impone allo Stato di assicurare che tutti i prigionieri siano detenuti in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione del provvedimento non provochino all’interessato una condizione di sconforto o di malessere tale da esasperare l’inevitabile livello di sofferenza legato alla detenzione. Non va dimenticato che nelle comunità totalizzanti, quale è la comunità carceraria, occorre tener conto, da un lato, delle necessità pratiche della reclusione e, dall’altro lato, non vanno dimenticate o trascurate le esigenze personali dei detenuti collegate a interessi costituzionalmente presidiati, quali la salute e, più in generale, il benessere del detenuto, per quanto possibile all’interno di una casa circondariale. Tanto premesso, il problema del sovraffollamento non è solo un problema di spazio vitale individuale, ma ha effetti negativi sul processo di reintegrazione e di conseguenza sulla recidiva e sulla sicurezza della comunità esterna. Le pesanti condizioni di vita all’interno del carcere provocano o acutizzano patologie psicofisiche; è facile che si ingenerino patologie legate all’insonnia, i casi di depressione sono molto diffusi, i disturbi alimentari – quali l’anoressia – sono in forte crescita: queste condizioni di vita al limite inducono alcuni fra i detenuti a forme di reazione estreme, come lo sciopero della fame e della sete o, addirittura, il suicidio. Il crescente numero di suicidi all’interno degli istituti di pena italiani, oltre a rappresentare un episodio altamente drammatico sotto il profilo umano, costituisce un dato allarmante, sintomatico proprio della gravissima condizione di sovraffollamento delle carceri. L’art. 27, co. 3, della Costituzione, disponendo che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», basterebbe da sé, essendo norma costituzionale immediatamente precettiva, ad assicurare condizioni di detenzione dignitose e degne di un Paese che fu la culla della civiltà giuridica: condizioni compatibili con la finalità punitiva dello Stato e con la finalità rieducativa, avente la medesima paternità. Tale obiettivo è raggiungibile soltanto attraverso il rispetto della vita e dell’integrità psico-fisica del condannato. Conseguentemente la garanzia della tutela della salute psico-fisica e sociale diventa basilare, costituendo la condizione imprescindibile per qualsiasi attività di recupero e reinserimento sociale delle persone in stato di detenzione.
Risolvere il problema del sovraffollamento nelle carceri appare fondamentale per tutelare la salute dei detenuti e degli operatori penitenziari: non basta un’analisi organica del problema perché occorre intervenire con scelte di politica criminale coraggiose e capaci di risolvere, almeno in parte, il grave problema. I problemi legati alla convivenza sono molteplici: spesso, nelle strutture carcerarie la convivenza forzata avviene fra soggetti portatori di disturbi psichici, di problemi legate alla dipendenza da alcool o da sostanze stupefacenti, seri problemi di salute – come i portatori conclamati di AIDS – in una condizione di vita affatto agevole e resa ancor più complicata dalla condivisione di spazi ristretti fra un numero elevato di persone, in rapporto ai metri quadri perché di questo, alla fine si tratta: guadagnarsi uno spazio vitale, nel difficile rispetto reciproco.
I giudici di Strasburgo chiamano le autorità italiane a risolvere immediatamente il problema del sovraffollamento, anche prevedendo pene alternative al carcere, anche se questa non è l’unica via né la migliore perché, come si è accennato e come si vedrà tra poco, il sovraffollamento non è sistemico ma strutturale. I giudici chiedono inoltre all’Italia: ‘que_l’État défendeur_devra_dans_un délai_d’un_an_à compter_de la_date_à laquelle_le présent_arrêt_sera_devenu_définitif en_vertu_ de_l’article 44§2_de_la Convention, mettre en_place_un_recours_ou_un_ensemble_de_recours__ internes_effectifs_aptes_à offrir_un redressement_adèquat_et suffisant_dans_les cas de_surpeuplement_carcéral_et_ce_conforment_aux_principes de_la_Convention tels_qu’établis_dans_la_jurisprudence_de la_Cour’; cioè di prevedere uno ricorso interno, entro un anno da quando diverrà definitiva la presente sentenza, che dia modo ai detenuti di rivolgersi ai Tribunali italiani per denunciare le proprie condizioni di vita nelle prigioni e poter ottenere un risarcimento per la violazione dei loro diritti.
Per chiarire i termini del problema, segue un’intervista realizzata dall’avv. Domenico Di Leo al chiar.mo prof. avv. Armando SAPONARO del foro di Bari nonché docente di Criminologia presso la Cattedra omonima della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Ateneo di Bari. L’intervista rende l’idea della complessità del problema e degli strumenti che possono aiutare a fronteggiare l’emergenza carceraria in Italia.
Prof. SAPONARO, quali sono i termini e le cause del sovraffollamento carcerario in Italia?
In Italia, da oltre un decennio si registra un indice di sovraffollamento che si aggira attorno a 140; ciò vuol dire che, a fronte di una capienza regolamentare di 100 detenuti, ne sono presenti 140, quasi la metà in più rispetto a quelli teoricamente previsti in base alla struttura. Va notato che la situazione varia da istituto ad istituto e da regione a regione per cui esistono istituti di pena in cui la capacità regolamentare è superata di poco, altri in cui vi è fino al doppio dei detenuti previsti. Se osserviamo la situazione al 31 dicembre 2012 – dati del Ministero della Giustizia – i detenuti presenti sono circa 66.000 a fronte di una capienza regolamentare ipotetica di 47.000; il coefficiente di carcerizzazione risultante è di 140 circa. Come si accennava, se questo è il dato nazionale, occorre evidenziare come la situazione tende a variare regione per regione: dall’analisi delle statistiche, si nota che la Basilicata ha 454 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 441, con un indice di sovraffollamento di 103, mentre la Puglia, a fronte di una capienza regolamentare di 2459 detenuti, ne ospita 4145, con un indice di sovraffollamento pari a 108. Questo ci fa capire l’estrema variabilità da regione a regione e, mutatis mutandis, la situazione è variabile da istituto a istituto.
In una situazione di enorme variabilità, occorre ‘sperare’ di essere reclusi in un istituto piuttosto che in un altro: non è così?
In realtà, non ci sono istituti che sono al di sopra della media: di sicuro ci sono situazioni detentive più tollerabili ma e condizioni di vita sono al di sotto della media e, in molti istituti, è precaria. In questo contesto, la condanna della CEDU nei confronti dell’Italia è questione di ‘quando’ non di ‘se’, nel senso che una detenzione fatta di non vivibilità, di spazi ridotti, di servizi scarsi, di assistenza sanitaria a singhiozzo non può che portare alle censure di cui l’Italia è spesso destinataria.
Quali sono le cause di tale condizione di sovraffollamento?
Le cause sono strutturali e non sistemiche: vuol dire che non è il sistema di giustizia penale che produce troppi detenuti per unità di popolazione ma è mancata, nel corso degli anni, un’adeguata politica e un’idonea programmazione di edilizia carceraria. Per cui, nelle regioni e nelle aree territoriali in cui era necessario, si sarebbero dovute costruire nuove strutture o predisporre l’ampliamento o la modernizzazione di quelle esistenti, in modo mirato. È noto purtroppo come alcuni istituti di nuova costruzione non sono mai entrati in funzione e altri, dopo pochi anni di funzionamento, hanno cessato di funzionare. Un esempio in Puglia è fornito dal carcere di Spinazzola: per evitarne la chiusura, a pochi anni dalla sua apertura, si pensava di istituire presso di esso la sezione dei sex offenders e, nonostante le potenzialità insite e la necessità di una sezione specializzata per il trattamento di reati particolarissimi, è mancato ogni utile apporto in tal senso, fino a giungere alla chiusura dell’istituto.
Secondo lei, le cause sono soltanto strutturali?
Si. Il fatto che le cause sono di tipo strutturale e non sistemico emerge dal confronto con gli USA: ivi, a parità di popolazione, assumendo come parametro 100 mila abitanti, il numero dei detenuti è fino a 6 volte superiore a quello italiano. Ad esempio, comparando i dati ICPS – International Centre for Prison Studies – a novembre 2012, il tasso di carcerizzazione italiano è di 109 mentre quello statunitense è di 716. Ciò vuol dire che, a parità di popolazione, è proprio il sistema di giustizia penale a ‘produrre’ il numero crescente dei detenuti. Se si guarda l’indice di sovraffollamento degli USA, si rileva che il tasso è basso e cioè è prossimo a 100. Comparando i dati ICPS sul sovraffollamento, emerge che il tasso italiano è intorno a 140 mentre quello statunitense è di poco superiore a 100: questo vuol dire che i detenuti presenti negli istituti di pena sono di poco superiori alla capacità nominale.
Sembra paradossale: gli USA hanno una popolazione di gran lunga superiore a quella italiana e non hanno un problema di sovraffollamento come l’Italia. Perché?
Il paradosso che emerge dal confronto Italia – USA, è il seguente: gli USA hanno un elevatissimo tasso di carcerizzazione ma un bassissimo tasso di sovraffollamento; viceversa l’Italia ha un modesto o comunque equilibrato tasso di carcerizzazione (circa 109 detenuti ogni 100 mila abitanti a fronte dei circa 700, negli USA) ma un elevato tasso di sovraffollamento, poiché nelle strutture carcerarie sono presenti una volta e mezzo il numero dei detenuti ivi accoglibili, in base alla capacità nominale delle strutture. Questi dati dimostrano che il problema non è sistemico ma strutturale: quindi, occorre creare nuovi spazi per assicurare adeguate condizioni di vivibilità ai detenuti presenti attualmente negli istituti di pena. Non ci sono altre soluzioni altrettanto efficaci.
Ultimamente, si è parlato del decreto c.d.‘svuota carceri’: non crede che uno strumento simile possa ‘decongestionare’ i ristretti spazi degli istituti di pena?
Questa è una delle tante soluzioni sistemiche che, per quanto detto sinora, non servirebbe a molto e di sicuro non risolverebbe il problema dalla radice. L’indulto, l’allargamento delle maglie di accesso alle misure alternative alla detenzione in carcere e similari sono misure di tipo sistemico la cui efficacia è temporanea ed è misurabile nel breve periodo. Il vantaggio è che tali misure sono ‘a costo zero’ per lo Stato a differenza di altre misure (come quelle alternative) che invece implicano un notevole potenziamento di alcune parti strutturali organizzative preposte alla supervisione, come gli UEPE (Uffici dell’Esecuzione Penale Esterni). In assenza di seri investimenti e finanziamenti – quali l’allocazione di risorse per i programmi individualizzati che dovrebbero essere alla base delle misure alternative – l’ampliamento di queste finirebbe per snaturare la nobile finalità di esse, e cioè il reinserimento del reo nella società e la prevenzione della recidiva, riducendoli a meri strumenti deflattivi della detenzione e portandoli ad essere sostanzialmente un indulto mascherato ovvero una indiscriminata liberazione anticipata, senza alcun effettivo supporto trattamentale di supervisione.
Se è vero, dati alla mano, che in Italia il problema è strutturale e non sistemico, è altrettanto vero che, negli ultimi anni, sia per i fenomeni migratori che hanno interessato la penisola che per le modifiche introdotte in tema di recidiva, il numero dei detenuti è andato aumentando. Lei che ne pensa?
Occorre fare subito una precisazione di ordine metodologico. L’immigrazione di per sé è criminogenetica, nel senso che se c’è immigrazione aumenta la popolazione e, se aumenta la popolazione, aumenta statisticamente la il numero dei reati commessi. Tuttavia, non avremmo detto ancora nulla perché, per capire se gli immigrati commettono più reati della popolazione autoctona occorrerebbe individuare due campioni ampi e rappresentativi, l’uno fra la popolazione residente e l’altro fra la popolazione immigrata, fare un’indagine quantitativa – descrittiva e, nel lungo periodo, elaborare i tassi di criminalità – c.d. ratei – dei due gruppi e poi compararli. Detto questo, sicuramente l’inasprimento delle pene e i fenomeni migratori hanno seppur di poco aumentato il numero dei detenuti ma il segmento sistemico resta pur sempre di gran lunga inferiore alle carenze strutturali dell’edilizia carceraria in Italia.
Se le venisse chiesto un parere tecnico per risolvere il problema del sovraffollamento o quantomeno attenuarne gli aspetti più drammatici, lei cosa suggerirebbe di fare?
I problemi non hanno quasi mai una sola causa e perciò suggerirei una soluzione bivalente: da un lato, nei limiti del possibile e delle disponibilità finanziarie, occorre modificare la capienza degli istituti di pena, ampliando quelli esistenti e costruendone di nuovi, sempre in modo mirato, a seconda delle reali esigenze che, come si è detto, variano da regione a regione; inoltre, sarebbe opportuno che il detenuto venisse recluso, nei limiti del possibile, vicino agli affetti familiari che svolgono un ruolo di riferimento per il congiunto in vinculis. Dall’altro lato, occorre potenziare le misure alternative.
Si ringrazia il ch.mo prof. avv. Armando SAPONARO per la gentile collaborazione.

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