images (5)Nota a sentenza Corte Costituzionale138/98

A cura del dott. Mario Sessa

Ogni circostanza costituisce, all’interno della tipicità del fatto, un importante strumento che permette al giudice di adeguare la concreta gravità del fatto al quantum di pena da irrogare in concreto. La sua opera di chirurgia interpretativa ha bisogno, per forza di cose, della fissazione di una serie di principi che in materia di circostanze non si presentano così rigidi, a differenza del fatto di reato[1]. L’art.25 Cost sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene, esigendo che ogni imputazione soggettiva e oggettiva trovi il suo riscontro in una determinata fattispecie incriminatrice. Con ciò si vuole porre un argine alla tendenza, oggi sempre più marcata nel panorama giurisprudenziale, di ricorrere all’analogia estensiva per colmare eventuali lacune nella potestà punitiva[2]. In materia di circostanze, viceversa, il principio di legalità è costretto a fare i conti con la necessaria attenuazione del rigido criterio di predeterminazione della fattispecie, in quanto gli accidentalia delicta devono riassumere le tante sfumature che in concreto assume l’azione del reo[3]. Si è spesso affermato che la tassatività cede il passo alla discrezionalità giudiziale, laddove le circostanze possono essere applicate e ponderate liberamente in sede di commisurazione giudiziale concreta. Ciò trova una rilevante conferma negli art. 69 e 133 cp, che non pongono alcun paletto al sindacato del giuice per quanto concerne il numero, l’entità, il peso e l’equivalenza di una circostanza sull’altra. Nondimeno, il legislatore non si esime dal predeterminare in via astratta i casi in cui una circostanza è sottratta al giudizio di pre-subvalenza, tenendo presente che vi è una suddivisione delle circostanze in oggettive e soggettive. Prima della riforma, per certi versi erronea, che investì le circostanze nel 1974 in questa materia vigeva il principio di tassatività. A ciò si aggiungevano i principi di obbligatorietà del bilanciamento e del favor rei. Il primo di questi postulati imponeva che il giudice si sottoponesse al principio di proporzionalità, in modo tale da parificare le attenuanti e le aggravanti che fossero omogenee per quanto riguarda il bene giuridico e le modalità di aggressione. Il favor rei dal canto suo permetteva di estendere le circostanze attenuanti oltre l’ambito di applicazione riconosciuto dalla legge, in modo da attribuire ad esse una rilevanza oggettiva a prescindere dall’elemento psicologico del reo. Prima della riforma del ’90, infatti, è noto che le circostanze aggravanti ed attenuanti potevano applicarsi anche in maniera oggettiva, pur se ignorate dall’agente o da questi ritenute inesistenti per errore determinato da colpa. Alcuni di questi “adminicula criminis” già erano dotati, per scelta del codice Rocco, di una rilevanza e di un’imputazione sicuramente soggettiva, in quanto la loro commissione richiedeva un certo motivo personale(61 n.1 cp; 62 n.1 cp); una modalità della condotta che poteva essere supportata solo da un coefficiente doloso o colposo (62 n.3); ovvero si faceva riferimento a presupposti e conseguenti dell’evento che non potevano non essere conosciuti dal reo. La rilevanza, specialmente se di tipo soggettivo, implicava che tali circostanze potessero essere applicate solo alla persona cui si riferivano, sempre che questa le avesse perpetrate con piena coscienza e volontà. La dottrina dominante mise in risalto che la rilevanza è cosa diversa dall’imputazione di ogni accidente delittuale. La l.19/90, senza alcun dubbio, ha reso soggettive tutte le circostanze. Ciò nonostante gli art.70 e 118 cp conservano ancora una loro pregnanza laddove riconoscono che le circostanze soggettive sono solo quelle espressamente previste in tali disposizioni. Più nel dettaglio, le circostanze possono attenere al fatto, inteso nelle sue componenti materiali e naturalistiche. Ed in questo caso sono oggettive, con tutto ciò che ne consegue in termini di disciplina. Alcune di queste, viceversa, possono attenere ad uno status personae, e ciò inibisce qualsiasi estensione ai concorrenti nel medesimo reato. A questo punto il discorso sulle aggravanti deve separarsi da quello sulle circostanze attenuanti. Le prime infatti sono espressione di una maggiore gravità del fatto di reato e pertanto sono assoggettate ad una disciplina restrittiva da parte dell’interprete[4]. Come tali, esse non possono essere applicate se il reo non le ha conosciute, o almeno avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria di diligenza. Chiaro in questo senso è il combinato disposto degli art.5-59 cp. Le attenuanti, in contrario, descrivono gli eventi che possono alleviare la pericolosità del reo nella misura in cui essa si è manifestata in relazione al singolo fatto commesso. Vero è che il novellato art.59 cp non differenzia il regime di imputazione delle circostanze. Ciò non significa che le attenuanti possono essere applicate con maggiore libertà di ciò che può dirsi per le circostanze aggravanti. Si pensi, ad esempio, che la giurisprudenza applica le attenuanti anche in via putativa ovvero in via analogica. Da ciò ne consegue una attenuazione del principio di tassatività. Questa linea interpretativa non deve stupire, in quanto il medesimo principio di legalità in materia penale spesso delega il giudice o la Pubblica Amministrazione a completare certe fattispecie incriminatrici proprio perchè il legislatore non è in grado, eo solo, di far fronte a certi aspetti tecnico-specialistici presenti nelle norme penali. In materia di circostanze questa flessione di legalità sembra quasi presumere che il giudice deve sforzarsi di applicare le attenuanti in modo da privilegiare la presunzione di non colpevolezza, anche se ciò vuol dire forzare il dato legislativo a tutto vantaggio della presunzione di innocenza e della funzione rieducativa della pena, tutelata dall’art.27 Cost[5]. Certamente ogni circostanza ha una sua struttura che non può essere obliterata in via interpretativa. Nondimeno, alcuni requisiti strutturali possono essere applicati più liberamente, purchè si raggiunga un risultato positivo per il reo. Le stesse attenuanti generiche, ad esempio, sembrano favorire l’analogia iuris. Si tratta di “quasi circostanze”, semi scriminanti o esimenti, che vengono salvate dalla disapplicazione e considerate come un’unica circostanza da inserire nel giudizio di equivalenza. Il legislatore, dopo un travagliato iter legislativo, ha deciso dapprima di reintrodurre queste attenuanti, e poi di mantenerle con alcune modifiche, anziché privarsi di uno strumento che potrebbe dare buona prova di sé. Per le attenuanti comuni il discorso è in parte analogo: esse si applicano anche in via oggettiva ed estensiva. Espressione di questo favor personae et reparandi, da taluni trattato in maniera un po’ frettolosa, è rivestito dall’attenuante della cd. riparazione. Si tratta di una circostanza prevista dal legislatore per incentivare una collaborazione del reo al delitto, al fine di mitigarne o eliminarne le conseguenze lesive. A tal fine si promette uno sconto di pena nel caso in cui costui si attivi in maniera celere ed efficace sanando il reato precedentemente commesso. L’art.62 n.6 cp richiede che il reo agisce al fine di reintegrare i danni patrimoniali e personali cagionati dal comportamento lesivo o pericoloso da lui perpetrato. La disposizione sottolinea che costui <<abbia agito>>. Si è discusso se questa locuzione esprime l’intentio legis secondo cui il colpevole deve riparare il danno con volontarietà e spontaneità, in modo da ripristinare integralmente le ricadute negative del reato. La giurisprudenza ha chiarito che la riparazione  deve essere il prodotto della condotta consapevole del reo, che sia animata da una seria e consistente intenzione di riparare il torto commesso. A ciò si aggiunge la necessità che il risarcimento sia spontaneo, nel senso che esso deve essere privo di qualsiasi calcolo utilitaristico e non deve essere effettuato per ottenere alcun tornaconto personale o premiale[6]. A lungo la giurisprudenza ha discusso se  questa spontaneità di azioni e di valori non richieda da parte dell’agente una riparazione effettiva e reale. In caso contrario sarebbe sufficiente una mera offerta o promessa di risarcimento. La giurisprudenza risolve la questione affermando che l’effettività della riparazione attenuativa và valutata in relazione alla possibilità che ha il danneggiato di soddisfarsi pienamente sulla base dell’offerta del “criminale”. In questo modo si spiegherebbe la preferenza che il legislatore e la prassi accordano ad un risarcimento in forma specifica, anziché per equivalente. Tutto ciò che è stato detto sin qui conferma quindi che l’attenuante in esame richiede un’applicazione soggettiva della circostanza di cui all’art. 62 n.6 cp. La volontarietà e l’effettività vanno valutati esclusivamente in riferimento alla persona del reo escludendo qualsiasi validità al risarcimento effettuato da parte di terzi, anche se legati all’agente da rapporti familiari e sociali. L’attenuante, si è detto, dovrebbe applicarsi in senso oggettivo, per cui dovrebbe riconoscersi l’ammissibilità di forme di ristoro che non provengono direttamente dall’autore del reato principale. Ciò nonostante, non si ammette che terzi intervengano in qualità di “agenti solutori”, in quanto la resipiscenza deve attribuirsi tout court al colpevole. La Corte Costituzionale ha più volte disconosciuto che taluno possa stipulare transazioni o assicurazioni, al fine di mettersi al riparo in via anticipata dal rischio futuro derivante dalla commissione di un reato. In primo luogo ciò non sarebbe ammissibile in quanto si traduce in una sorta di “patente”per il crimine. In secondo luogo, il delitto non è negoziabile o transigibile, al punto che ogni contratto che possiede una tale causa è illecito per contrarietà all’ordine pubblico o a norme imperative. In terza istanza, un’assicurazione di questo tipo autorizza l’assuntore a corrispondere al danneggiato una certa somma a titolo di ristoro del crimine, negando il carattere spontaneo e volontario dell’attenuante di cui all’art.62 n.6 cp. La spontaneità, infatti, descrive una controcondotta priva di qualsiasi vincolo giuridico, e tale non sarebbe il contratto preventivo al crimine penale. La giurisprudenza costituzionale ha sostenuto che può distinguersi un meccanismo di assicurazione obbligatoria, come è prevista in taluni settori di attività pericolose in materia di infortuni sul lavoro o circolazione veicolare. E questa situazione è differente dall’assicurazione facoltativa. Solo in quest’ultimo caso il reo stipula ex sua sponte un contratto con cui mettersi al riparo dalle conseguenze negative derivanti da un reato. In tal senso la riparazione del danno non si pone in contrasto con la presenza di un meccanismo preventivo di liquidazione del medesimo. In definitiva rimane da analizzare l’ultima (ma forse la principale) contraddizione che anima l’attenuante della riparazione del danno. Il legislatore circoscrive le condotte idonee ad elidere le conseguenze del reato a quelle sole di elisione e ristoro integrale. Tuttavia il lettore critico non può non notare che il risarcimento del danno è ispirato dal solo principio di integralità, e non di parzialità. Anche nel diritto civile, infatti, la funzione dell’art. 2043 cc è soltanto quella di rimettere il danneggiato nella posizione giuridica precedente all’inadempimento o al danno. Non oltre. E ciò si traduce nella necessità di risarcire tutte le conseguenze più o meno dirette che siano scaturite dall’inosservanza del puntuale adempimento. Se ciò è vero, non stupisce che il risarcimento non lascia residuare alcuna pretesa creditoria, una volta corrisposto. Nel diritto penale, invece, l’art. 62 n.6 cp stabilisce che il risarcimento integrale attenua il crimine, anziché escluderlo. Stupisce   che l’integralità della riparazione lascia intatta la lesività di un fatto oramai completamente cancellato. Che si tratti del gatto del Chechire[7]? Alla giurisprudenza l’ardua risposta.

 



[1]Questa esigenza di maggiore flessibilità dei principi fondamentali del diritto penale è spesso motivata dalla Corte Costituzionale sulla base della ragionevolezza e non discriminazione delle previsioni legislative che modificano le circostanze o ne introducono di nuove.

[2]In questo senso lascia deporre l’art.12-14 disp.prel.c.c.

[3]In tal senso Ronco-Romano, in commentario sistematico al codice penale, sub. Art.59, Cedam, 2012

[4]Così in Vassalli, giurisprudenza costituzionale sistematica, IV ed., Giuffrè, 1999

[5]Sull’importanza di un’interpretazione costituzionalmente orientata del diritto penale si ricordi, inter alios, la dottrina napoletana.Così in A.Cavaliere, l’errore sulle scriminanti, Napoli, 2000.Nella dottrina tedesca ampia è la bibliografia e gli autori(Roxin, Jakobs, Stratenhwerth).

[6]La strategia differenziata di molti interventi legislativi premiali si rileva in Cass.Pen. Sez. I 15745/2014

 

[7]La metafora citata, adattata ad un altro argomento, è tratta da Rescigno, Trattato di diritto civile, in Tomo II La famiglia, Giuffrè, 2011

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