BANCAROTTA FRAUDOLENTA: LE PRECISAZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE SULLA NOZIONE DI OPERAZIONI DOLOSE

Cassazione Penale, Sezione V, sentenza 3 aprile 2014 – 23 settembre 2014 n. 38728

(a cura dell’Avv. Tiziana Caboni)

Massima

Nella nozione di operazioni dolose causative del fallimento di un persona giuridica devono rientrare anche gli abusi e le infedeltà delle funzioni e la violazione dei doveri che cagionino lo stato di decozione della società.

Sintesi del caso

In data 31.10.2012  la Corte d’appello di Lecce aveva confermato la sentenza pronunciata il 18.9.2009 dal Tribunale della stessa città con la quale l’(OMISSIS), nella qualità di amministratore, prima formale e, poi, di fatto, della società fallita ” (OMISSIS) S.r.l.”, era stato dichiarato colpevole del reato previsto e punito dall’art. 223, comma 2, n. 2, L.F. e, concesse attenuanti generiche, era stato condannato alla pena, sospesa condizionalmente, di anni due di reclusione, oltre alle consequenziali statuizioni.

Pertanto, avverso tale pronuncia l’imputato aveva proposto ricorso per cassazione, lamentando in particolare l’assoluto difetto di motivazione e l’erronea valutazione delle risultanze processuali, nonché la mancanza dei presupposti della contestata fattispecie delittuosa e del rapporto di causalità, assenza peraltro ribadita con successiva proposizione di memoria difensiva.

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Materia del contendere

La pronuncia della Sezione V della Corte di Cassazione affronta la tematica della corretta individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie di bancarotta impropria fraudolenta di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, L.F. consistente nel “cagionare per effetto di operazioni dolose il fallimento della società”, e nello specifico l’esatta accezione da attribuire alla nozione di operazioni dolose.

Quaestio iuris

Quando, ai fini della configurabilità della fattispecie delittuosa prevista e punita dall’art. 223, comma 2, n. 2. L.F., deve ritenersi integrato l’elemento costitutivo delle operazioni dolose?

Nota esplicativa

Il delitto di bancarotta, trattato nella sue differenti tipologie, nel titolo IV della Legge Fallimentare (r.d. 267/1942), rappresenta la principale fattispecie incriminatrice prevista dal diritto penale fallimentare.

In via generale, può affermarsi che per bancarotta si intendono i fatti posti in essere dall’imprenditore commerciale o da soggetti a lui legati da una relazione particolarmente qualificata e tali da comportare un pregiudizio, potenziale o attuale, degli interessi della massa dei creditori dell’impresa e destinato ad assumere rilevanza penale a seguito dell’apertura della procedura giudiziale fallimentare.

Come è noto, infatti, essa costituisce la principale forma di esecuzione collettiva a tutela della massa dei creditori di un’impresa  e avente ad oggetto l’intero patrimonio dell’imprenditore commerciale nell’ipotesi in cui quest’ultimo non sia in grado obiettivamente di soddisfare regolarmente i propri impegni debitori in quanto versi in uno stato di insolvenza.

Dalla lettura delle norme che costituiscono la disciplina penale del fallimento, si evince che il legislatore ha individuato diverse tipologie di fatti di bancarotta, le quali, in conseguenza della loro diversità, si connotano per caratteri e modalità di verificazione differenti.

Il primo criterio di classificazione viene correttamente individuato nella tipologia del soggetto attivo che pone in essere i fatti di bancarotta, dovendosi infatti distinguere tra la bancarotta propria di cui agli artt. 216 e 217 L.F., posta in essere dall’imprenditore commerciale dichiarato fallito, e quella impropria disciplinata dagli artt. 223 e 224 L.F., in cui il soggetto agente è diverso rispetto a quello dichiarato fallito.

Ulteriore distinzione è poi rappresentata dalla particolare connotazione soggettiva della bancarotta, la quale, peraltro, deve riflettersi anche sulla struttura del fatto tipico. A tal proposito, si parla di bancarotta fraudolenta (artt. 216 e 223 L.F.)  qualora ricorra l’intento fraudolento nel soggetto attivo; diversamente, qualora il suo comportamento si risolva in un mero atteggiamento incauto e quindi connotato da pura colposità, la Legge Fallimentare prevede e punisce l’ipotesi della bancarotta semplice (artt. 217 e 224 L.F.).

Quanto all’oggetto materiale del reato, la bancarotta può essere patrimoniale, consistente  in fatti di distrazione o comunque di dispersione del patrimonio dell’impresa, quando ha ad oggetto il patrimonio oppure documentale qualora l’oggetto consista nei libri o nelle altre scritture contabili, sottoposti ad operazioni di sottrazione, distruzione o falsificazione, siano esse totali o parziali.

Ultimo criterio classificatorio è infine individuato nel momento temporale di commissione del reato e, in particolare, della relazione di quest’ultimo con la sentenza dichiarativa di fallimento. Si distingue, dunque, tra bancarotta pre-fallimentare, comprensiva dei soli fatti che si pongono al di qua della sentenza citata, sebbene ai fini della sottoposizione a pena il legislatore richieda l’apertura della procedura concorsuale, e ammissibile per la sola ipotesi di bancarotta semplice e non anche per quella fraudolenta, e bancarotta post-fallimentare, la quale, diversamente, comprende i fatti che si verificano in epoca posteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento.

Ciò premesso, l’imputato era stato ritenuto, sia in primo sia in secondo grado, alla luce delle risultanze processuali, responsabile di bancarotta fraudolenta di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, L.F. per aver cagionato il fallimento della società attraverso il compimento di operazioni dolose.

La fattispecie in esame costituisce un’ipotesi di bancarotta impropria in quanto posta in essere da un soggetto differente dall’imprenditore commerciale dichiarato fallito, ma anche da eventuali soggetti che svolgano compiti gestori, amministrativi e di controllo, all’interno della società, trattandosi quest’ultima di cosiddetta bancarotta societaria, disciplinata dal primo comma della stessa norma.

A fini di completezza e maggiore precisione, pare opportuno sottolineare che l’art. 223, comma 2, L.F. prevede poi al suo interno due fatti di bancarotta impropria: da un lato, il n. 1, oggetto di riforma da parte della novella del 2002 (d.lgs. 61/2002) e consistente nell’aver cagionato o concorso a cagionare  con dolo generico, anche nella forma eventuale, l’evento del dissesto della società attraverso il compimento di specifici reati societari elencati dal legislatore, e, dall’altro, il n. 2, fattispecie esaminata dalla Corte di Cassazione nella sentenza 38728/2014, caratterizzata dal cagionare con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.

Il legislatore, in quest’ultima fattispecie incriminatrice, ne prevede la realizzazione attraverso due condotte tra loro alternative: la prima, assolutamente libera e quindi realizzabile anche in forma omissiva, caratterizzata quanto alla determinazione al fallimento dal dolo generico, anche in forma eventuale e la seconda di individuazione certamente più complessa in quanto il carattere doloso deve investire anche le operazioni che cagionano il fallimento, dovendo ricorrere una connotazione finalisticamente orientata sotto il profilo soggettivo ma anche in riferimento a quello oggettivo.

Proprio sul concetto di operazioni dolose si è espressa la pronuncia in esame richiamando e confermando quanto delineato in precedenza dalla stessa giurisprudenza di legittimità.

Nella nozione di operazioni dolose, infatti, occorre ricomprendere  “qualsiasi comportamento del soggetto agente (tra quelli espressamente indicati dallo stesso L.F., articolo 223), che, concretandosi in un abuso od in un’infedeltà delle funzioni e nella violazione dei doveri derivanti dalla relativa qualità, cagioni lo stato di decozione della società, con pregiudizio della stessa, dei soci, dei creditori e di terzi interessati”.

Quanto poi al profilo soggettivo, l’orientamento costante sostiene che, ai fini della configurabilità della fattispecie, deve sussistere la volontà del soggetto agente diretta all’operazione stessa, dalla quale consegua, sul piano della mera causalità materiale, e dunque conseguenza prevedibile e accettata nel rischio del suo verificarsi (ammesso anche il dolo eventuale), il fallimento della società.

Ciò ribadito, la Sezione V formula alcune precisazioni di particolare pregio, le quali vanno a delineare con maggiore chiarezza i contorni della nozione di operazioni dolose, accolta nella sua più lata accezione.

In, particolare, tale nozione presuppone una modalità di pregiudizio al patrimonio della società discendente da un fatto maggiormente complesso sotto il profilo strutturale rispetto all’azione dannosa del soggetto attivo connotante la bancarotta patrimoniale impropria in via generale (distrazione, dissipazione, occultamento e distruzione): essa, infatti, deve consistere in una qualsiasi iniziativa societaria che implichi un procedimento o una pluralità di atti coordinati all’esito avuto di mira (sul punto, Cass. pen., 18 febbraio 2010, n. 17690).

Viene poi sottolineato dai giudici di legittimità che, stante l’assenza di una definizione normativa in termini di operazioni dolose e la conseguente necessità di individuare l’essenza della norma per esclusione rispetto ad altre ipotesi maggiormente precisate o più immediatamente percepibili, il vero tratto distintivo tra le due condotte alternative dell’art. 223, comma 2, n, 2, L.F. risieda nella componente soggettiva, in quanto sotto il profilo oggettivo può parlarsi di una sostanziale identità o sovrapponibilità.

Nel caso di fallimento conseguente ad operazioni dolose, che in questa sede rileva e la quale si pone come ipotesi eccezionale di fattispecie preterintenzionale, ai fini della sua configurabilità sul lato soggettivo occorre la rappresentazione da parte del soggetto attivo dell’azione nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i doveri propri, in quanto soggetto societario, rispetto agli interessi dei creditori.

In altri termini, colui che pone in essere questa particolare ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria per essere ritenuto responsabile della fattispecie delittuosa deve essere consapevole e volere la natura dolosa dell’operazione da cui deriva il dissesto, oltre ad aver astrattamente previsto l’evento fallimentare come effetto dell’azione antidoverosa, non essendo necessarie, al contrario, la rappresentazione e la volontà del fallimento (Cass. pen., 18 febbraio 2010, n. 17690).

Pertanto, la Corte di Cassazione ha ritenuto di dover rigettare il ricorso data la correttezza della qualificazione giuridica della fattispecie ascritta all’imputato ai sensi dell’art. 223, comma 2, n. 2, L.F. essendo la nozione di operazioni dolose integrata nel caso in esame dalla abusività dei doveri inerenti alla qualità di amministratore dell’imputato e desunti da numerose risultanze processuali, quali l’accensione di un ingente mutuo, al fine di consolidare la posizione debitoria nei confronti di due istituti di credito, i quali, singolarmente, prestavano onerose fideiussioni bancarie a garanzia dello stesso finanziamento, il pagamento delle sole due prime rate del piano di ammortamento, nonostante  la liquidità della società, nonché la custodia, imprudente e irragionevole di tali liquidità nella cassaforte della sede sociale ed il successivo furto delle stesse ad opera di ignoti.

 

Sentenze precedenti conformi e difformi

In senso conforme, Cass. pen., sez. V, 18 febbraio 2010, n. 17690, rv. 247315.

Bibliografia

Roberto Garofoli, Diritto penale (Parte Speciale), Nel Diritto Editore, 2014

Testo a sentenza

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 23 settembre 2014, n. 38728

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRUA Giuliana – Presidente

Dott. FUMO Maurizio – rel. Consigliere

Dott. BRUNO Paolo Antonio – Consigliere

Dott. VESSICHELLI Maria – Consigliere

Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Lecce del 31 ottobre 2012;

visti gli atti, la sentenza impugnata ed il ricorso;

letta la memoria difensiva contenente motivi nuovi, depositata dall’avv. (OMISSIS) in favore del ricorrente;

udita la relazione del consigliere dr. Paolo Antonio BRUNO;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VOLPE Giuseppe, che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso;

sentito, infine, l’avv. (OMISSIS), che si e’ riportato al ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Lecce confermava la sentenza del 18 dicembre 2009 con la quale il Tribunale di quella stessa città aveva dichiarato (OMISSIS) – nella qualità di amministratore, prima formale e, poi, di fatto, della società fallita ” (OMISSIS) S.r.l.” – colpevole del reato di cui alla L.F., articolo 223, comma 2, n. 2, e, concesse attenuanti generiche, l’aveva condannato alla pena condizionalmente sospesa di anni due di reclusione, oltre consequenziali statuizioni.2. Avverso l’anzidetta pronuncia l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando violazione dell’articolo 606, lettera b) c) ed e), in relazione agli articoli 125, 127, 191, 197 e 192 c.p.p.. Si duole, al riguardo, dell’assoluto difetto di motivazione e dell’erronea valutazione delle risultanze processuali. Sostiene, inoltre, la mancanza dei presupposti della contestata fattispecie delittuosa e del rapporto di causalità.

Con la memoria in epigrafe indicata, l’avv. (OMISSIS) ha proposto motivi nuovi, con i quali ha eccepito violazione dell’articolo 606 c.p.p., lettera b) ed e), in relazione alla L.F., articolo 223, comma 2, n. 2, ribadendo la mancanza degli elementi costitutivi della stessa fattispecie delittuosa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Le censure del ricorrente sono destituite di fondamento. Ed invero, la sentenza impugnata non può, di certo, ritenersi priva di compiuta motivazione a sostegno del ribadito il giudizio di colpevolezza a carico dell’imputato. Non può neppure dirsi che la stessa sia affetta da errori di diritto o da distorta valutazione delle risultanze di causa. E’, invece, ineccepibile il percorso giustificativo che ha portato all’individuazione, nella fattispecie in esame, dei presupposti necessari ai fini della relativa riconducibilità al paradigma del reato di cui all’articolo 223, comma 2, sub specie dell’aver cagionato il fallimento della società “per effetto di operazioni dolose”. Le premesse metodologiche di tale sviluppo argomentativo sono del tutto corrette, posto che il giudice di appello ha preso le mosse da ineccepibile puntualizzazione in diritto degli elementi strutturali e soggettivi dell’ipotesi di reato in questione, sulla base di indiscussa lezione giurisprudenziale di questa Corte di legittimita’; per poi condividere la corretta sussumibilità della fattispecie concreta nell’alveo dell’ipotizzata norma incriminatrice.

Così e’ del tutto corretto il richiamo alla nozione di “operazioni dolose”; tratteggiata dalla giurisprudenza di legittimita’, in termini di ampia accezione, che prescinde da qualsivoglia riferimento a fatti costituenti reato o comunque illeciti, in chiave civilistica, per ricomprendere in essa qualsiasi comportamento del soggetto agente (tra quelli espressamente indicati dallo stesso L.F., articolo 223), che, concretandosi in un abuso od in un’infedeltà delle funzioni e nella violazione dei doveri derivanti dalla relativa qualità, cagioni lo stato di decozione della societa’, con pregiudizio della stessa, dei soci, dei creditori e di terzi interessati. Alla corretta individuazione della componente obiettiva, ha fatto poi riscontro l’esatta focalizzazione del requisito soggettivo, consistente nella volontà diretta non già al fallimento (a differenza della diversa ipotesi, prevista dalla stessa norma, della causazione dolosa del fallimento), bensì alla stessa “operazione” dalla quale poi consegua, sul piano della mera causalità materiale, il dissesto fallimentare, che si ponga, dunque, come conseguenza prevedibile e persino accettata nel rischio del suo verificarsi.

All’indubbia giustezza di siffatte affermazioni, possono solo aggiungersi i seguenti rilievi.

Nel ribadire l’accezione lata della locuzione “operazioni dolose” va precisato che a differenza delle ipotesi generali di bancarotta fraudolenta patrimoniale c.d. impropria, nella specifica fattispecie in esame la nozione di “operazioni” postula una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già, direttamente, dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato (così Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Rv. 247314).

Non e’, del resto, revocabile in dubbio che, in mancanza di puntualizzazione normativa del relativo concetto, l’individuazione dell’essenza precipua della norma incriminatrice vada effettuata per esclusione rispetto ad altre ipotesi incriminatrici meglio definite o di più immediata percezione. Così rispetto all’analoga, diversa, fattispecie prevista nello stesso capoverso dell’articolo 223, al n. 2, ossia la causazione volontaria del fallimento, balza evidente che alla sostanziale identità, o possibile sovrapponibilità sul piano oggettivo, fa riscontro una netta divaricazione della componente soggettiva. Infatti, in tema di fallimento determinato da operazioni dolose, configurabile come eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l’elemento soggettivo risiede nella mera dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura “dolosa” dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonché dell’astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare. Deve, infatti, reputarsi sufficiente, per la configurabilità del reato in questione la rappresentazione dell’azione nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i doveri propri del soggetto societario a fronte degli interessi della societa’ (Sez. 5, n. 17690 del 18.2.2010, rv. 247315).

2. Così delineata la corretta cornice giuridica di riferimento, non v’e’ dubbio che l’inquadramento in essa della concreta fattispecie non appare ne’ erroneo ne’ implausibile. Ed infatti, con insindacabile apprezzamento di merito, tale in quanto congruamente motivato, il giudice di appello ha ritenuto che l’accensione di un ingente mutuo, al fine dichiarato del consolidamento di posizione debitoria nei confronti di due istituti di credito, che, singolarmente, prestavano onerose fideiussioni bancarie a garanzia dello stesso finanziamento; il pagamento delle sole due prime rate del piano di ammortamento, nonostante la societa’ avesse liquidità per farvi fronte; la custodia, assolutamente imprudente ed irragionevole di tali liquidità non già in banca, bensì nella cassaforte della sede sociale ed il successivo furto delle stesse ad opera di ignoti, sono state ritenute integranti la nozione di operazioni dolose, caratterizzate da abusività degli elementari doveri inerenti alla qualità di amministratore. Con apprezzamento, parimenti, insindacabile e’ stato ritenuto che tali dolose condotte abbiano causato il dissesto della societa’, le cui condizioni economiche, peraltro, erano tutt’altro che floride, avendo presentato, nelle ultime annualità, bilanci sempre in perdita.

In piena coerenza con quanto in precedenza affermato, in ordine all’irrilevanza delle illiceità delle dette condotte sotto il profilo civilistico, e’ stato correttamente ritenuto irrilevante l’esito positivo del giudizio civile di responsabilità a carico dell’odierno ricorrente, posto che la prospettiva penalistica risponde a logiche diverse, nei termini sopra puntualizzati.

3. Per quanto precede, il ricorso – globalmente considerato – deve essere rigettato, con le consequenziali statuizioni dettate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

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