Riceviamo dalla Fondazione Lelio Basso e con piacere pubblichiamo il seguente contributo dell’ultimo numero monografico
del bollettino periodico del Laboratorio sui Diritti Fondamentali (www.labdf.eu), prodotto in collaborazione con
l’Osservatorio sui diritti fondamentali in Europa (www.europeanrights.eu) e pubblicato nel
citato sito labdf.

 

LABORATORIO DIRITTI FONDAMENTALI

In   collaborazione con l’Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali   in Europa

REDDITO   MINIMO GARANTITO:

IL DIRITTO AD   UNA VITA LIBERA E DIGNITOSA

Il Reddito   Minimo Garantito ha già una lunga storia non solo in Europa e ha assunto
diverse forme. Nell’ambito dell’Unione Europea gli Stati sono obbligati a   introdurlo per
assicurare a tutti una vita libera e dignitosa. Le forme possono essere   diverse, ma devono
riguardare le persone e non solo le famiglie e devono essere efficaci   rispetto allo scopo
cui tendono. Solo l’Italia e la Grecia, nell’ambito dell’Unione Europea,   ancora non
prevedono una forma di Reddito Minimo Garantito che risponda a quanto   richiede la
normativa europea.

Sommario:   Premesse definitorie – La “costituzionalizzazione” del RMG nell’Unione   europea – Il RMG come policy europea. I caratteri del diritto – L’Italia nel   contesto europeo.

 

Premesse definitorie

Con reddito minimo   garantito (nel lessico dei documenti ufficiali dell’Unione europea) si   intende l’attribuzione ad un cittadino di uno Stato (e, a certe condizioni,   anche al residente stabile in quel paese), che non disponga di redditi   adeguati, di risorse monetarie sufficienti per condurre un’esistenza libera e   dignitosa. Hanno funzioni e presupposti analoghi istituti variamente   denominati come reddito minimo di inserimento, reddito di solidarietà attiva,   reddito di sussistenza, l’RMI (revenu minimum d’insertion), ecc. Tutte queste   forme di sostegno a persone in difficoltà condividono la caratteristica di   non essere universali, in quanto presuppongono una situazione di concreto   bisogno e, in genere, sono condizionate in vario modo, dall’obbligo di   seguire corsi di formazione o di stipulare patti di reinserimento con i   servizi sociali o con quelli di collocamento, sino al dovere di accettare   offerte di lavoro disponibili. Per queste ragioni tali istituti si   differenziano dall’idea del reddito di cittadinanza o reddito di base (basic   income) che prevede, più radicalmente, l’attribuzione di risorse (adeguate   per una vita libera e dignitosa) ai cittadini che compongono una determinata   comunità politica (e ai residenti stabili in tale comunità),   indipendentemente dalla loro condizione economica sociale ed occupazionale:   pertanto il “ reddito di base” è per definizione universale (anche se nei   limiti di una entità politica data, entità che potrebbe anche essere   identificata in strutture sovra-nazionali come l’Unione europea) e   incondizionato. Un vero e proprio reddito di cittadinanza – RDC- (anche se   dall’importo piuttosto modesto di 2.000 dollari annui) è riconosciuto nel   solo stato Usa dell’Alaska finanziato dai profitti petroliferi e vanta il   solo altro precedente trentennale della città di Berlino (in Svizzera si   svolgerà a breve un referendum propositivo sul tema). La diversa misura del   reddito minimo garantito- RMG- costituisce una significativa istituzione   molto diffusa a livello europeo (come si dirà in parte ormai “costituzionalizzata”   a livello dell’Ue) e tendenzialmente assunta nel mondo da un numero crescente   di Stati, tra cui – soprattutto – alcuni dei cosiddetti Brics, come India,   Sudafrica e Brasile. Nel dibattito politico, soprattutto italiano, che ignora   entrambe le misure, normalmente le due prospettive sono tra loro confuse e si   parla di reddito di cittadinanza anche per intendere misure per contrastare   l’esclusione sociale e la diffusione della povertà, rivolte a coloro che   versano in stato di bisogno. Tuttavia questa confusione di termini è in parte   giustificata in quanto anche quest’ultimi provvedimenti mirano, comunque, a   rafforzare la coesione e la solidarietà sociale e quindi a rafforzare il   legame tra cittadini, impendendo che, con la creazione di una sottoclasse di   disoccupati stabili e/o di emarginati, vengano alterati il gioco democratico   e l’effettiva partecipazione alla sfera pubblica. In quest’ottica, pur   essendo il RMG generalmente connesso – soprattutto in Europa – alle politiche   di occupazione e crescita, si richiama a quella tradizione di pensiero, di   natura eminentemente filosofica o di teoria politica, che ha cercato di   definire i presupposti, anche di ordine sociale, di una società giusta e   partecipativa. E’ però importante, a parte la questione definitoria, chiarire   che attualmente nell’agenda politica globale è iscritta (ed in parte già   realizzata) la garanzia dell’accesso al soddisfacimento dei bisogni primari   per coloro che sono a rischio di esclusione sociale, tema sul quale sembra   essersi raggiunto un consenso internazionale piuttosto ampio. L’espressione   ius existentiae, spesso usata nella letteratura sull’argomento, riassume in   senso atecnico, la prospettiva di un diritto originario di ogni partecipante   a una società di poter contribuire al benessere generale, senza essere   emarginato e privato dei mezzi elementari di sussistenza, prospettiva che il   Presidente Rooselvelt condensava nello slogan “ freedom from want”.

La “costituzionalizzazione” del RMG nell’Unione europea

Prescindendo   dalle esperienze storiche di “sostegno” sociale ai cittadini, conosciute sin   dall’antichità (i riti dei pranzi sociali a Sparta e Atene o le distribuzioni   di grano nella Roma repubblicana), rinnovate dalle città libere medioevali e   in epoca moderna dalla Comune di Parigi, la letteratura è concorde nel   rintracciare il primo riconoscimento del diritto (dopo gli accenni nella   Costituzione giacobina del 1793 al “sacro diritto ai soccorsi” o in quelle   della Repubblica Cisalpina e Cispadana sul “ dovere di alimentare i bisognosi”)   nell’art. 151 della Costituzione di Weimar che stabiliva che “l’ordinamento   della vita economica deve garantire a tutti un’esistenza degna”. Importanti   sono alcune disposizioni della Dichiarazione universale del 1948: l’art. 22   prevede che “ogni individuo, in quanto membro della società ha diritto alla   sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale   e la cooperazione internazionale e in rapporto con l’organizzazione di ogni   Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua   dignità ed al libero sviluppo della sua personalità”; l’art. 25 sancisce a   sua volta che “ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a   garantire la salute e il benessere proprio e della propria famiglia, con particolare   riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche   e ai servizi sociali necessari; ha diritto alla sicurezza in caso di   disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di   perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua   volontà”. Ancora l’art. 11 del Patto ONU sui diritti economico-sociali del   1966 stabilisce che “gli Stati parti del presente Patto riconoscono il   diritto di ogni individuo a un livello di vita adeguato per sé e per la   propria famiglia”. In Europa con il diffondersi di Costituzioni che assegnano   alla tutela della dignità della persona il ruolo di architrave dell’intero   impianto costituzionale (anche la Dichiarazione del 1948 rispecchia questa   tendenza), il tema della garanzia di un “minimo vitale” per tutti i cittadini   viene progressivamente individuato come necessaria conseguenza di una società   che non può tollerare situazioni permanenti di emarginazione e esclusione   sociale. Alcuni paesi sperimentano quindi già nel dopoguerra (ad esempio la   Svizzera o i paesi scandinavi) forme di reddito minimo garantito sulla base   del principio costituzionale di “pari dignità sociale” di ciascun cittadino,   saldandolo alla più generale rete di protezione connessa all’erogazione di   servizi sociali essenziali, come l’istruzione o la salute ed alle altre   provvidenze del welfare state. Tuttavia questo beneficio, all’epoca e sino   agli anni 80, appariva come una misura eccezionale, posto che le politiche   keynesiane del pieno impiego ed anche le caratteristiche della produzione   fordista assicuravano una vastissima partecipazione al mondo del lavoro,   condivisa dalla forza lavoro femminile, connotata anche da stabilità   d’impiego. In questo contesto il RMG sembrava dover riguardare solo eccezionali   fenomeni di marginalità sociale (in genere radicati solo in settori di   sottosviluppo localizzati) o situazioni di crisi economica contingenti,   destinate ad essere superate nel tempo. Solo negli anni ‘90 il RMG diverrà,   soprattutto in Europa, anche una componente delle “politiche di crescita e   sviluppo” e si individuerà con maggiore precisione il rapporto tra   disoccupazione e sostegno al reddito.

Andando per   ordine, misure di RMG si diffondono rapidamente soprattutto nel Nord Europa,   ivi comprese Gran Bretagna e Irlanda, più tardi si aggiunge la Francia con il   governo di Mitterand diventando quindi la “norma” dei paesi della Comunità   europea.

Una prima   sanzione a livello continentale, ancora piuttosto imperfetta, si ha con la   Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali del 1989, che all’art. 10   dispone “le persone escluse dal mercato del lavoro o perché non hanno potuto   accedervi o perché non hanno potuto reinserirvisi e che sono prive di mezzi   di sostentamento, devono poter beneficiare di prestazioni e di risorse   sufficienti adeguate alla loro condizione personale”; la Carta sociale   europea (revisionata a Torino nel 1996) all’art. 30 invece recita “Diritto   alla protezione contro la povertà e l’emarginazione sociale. Per assicurare   l’effettivo esercizio del diritto alla protezione contro la povertà e   l’emarginazione sociale, le parti si impegnano; a) a prendere misure   nell’ambito di un approccio globale e coordinato per promuovere l’effettivo   accesso al lavoro, all’abitazione, alla formazione professionale,   all’insegnamento, alla cultura, all’assistenza sociale e medica delle persone   che si trovano o rischiano di trovarsi in situazione di emergenza sociale o   di povertà e delle loro famiglie”. Queste norme sono state a loro volta le   fonti della successiva, assai più importante, formalizzazione della misura   come “diritto fondamentale” nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione   europea, proclamata a Nizza nel 2000 e resa vincolante con il Trattato di   Lisbona, entrato in vigore il 1.12.2009. La Carta Ue all’art. 34, terzo   comma, dispone che “al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la   povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale ed   abitativa volto a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano   di risorse sufficienti”. Si tratta di una disposizione molto più chiara e   felice sul piano espressivo rispetto alle sue fonti: è reso evidente il nesso   strettissimo tra la garanzia di un’esistenza dignitosa per tutti e   l’attribuzione di risorse a chi ne è privo, che devono essere comunque “   sufficienti” in relazione al fine perseguito. Proprio la Carta si apre con il   principio dell’inviolabilità della dignità umana e le “Spiegazioni ufficiali”   alla Carta specificano che “ la dignità della persona umana non è soltanto un   diritto fondamentale in sé, ma costituisce la base stessa dei diritti   fondamentali”. In questa chiave il RMG non è un sussidio di povertà, ma un   sostegno adeguato per un cittadino che vanta il diritto di partecipare   pienamente alla vita della comunità cui appartiene: il destinatario è il   singolo in quanto tale (e non la sua famiglia) che viene in considerazione   come individuo di per sé e non solo (come nella Carta comunitaria) come   lavoratore escluso dal mercato. La Carta dei diritti fondamentali dell’UE   riconosce la misura come un diritto, giustiziabile in linea di principio   avanti i giudici ordinari e la Corte di giustizia, mentre sulle disposizioni   della Carta sociale europea vi è solo un monitoraggio affidato al Comitato   economico-sociale del Consiglio d’Europa e – sino ad oggi – sul piano   giurisdizionale sono state poco significative le norme della Carta   comunitaria del 1989. Tuttavia la Carta dei diritti Ue presuppone (cfr. art.   51), per l’applicabilità delle sue norme, che il caso esaminato presenti una   qualche connessione con il diritto dell’Unione, situazione questa, per quanto   riguarda il RMG, difficile da verificarsi posto che- allo stato- non hanno   avuto successo i tentativi di adottare una direttiva in materia. La Corte di   giustizia ha, ad esempio, richiamato più volte questo diritto sociale   fondamentale (anche con riferimento all’art. 34 della Carta nella sentenza   Kamberay del 14.4.2012), ma solo per stabilire la legittimità delle   condizioni di accesso stabilite dagli Stati, precisando- ad esempio- quando   si può affermare che un lavoratore comunitario migrante in altro Stato perda   il diritto a godere del beneficio o se sia legittimo stabilire requisiti di   anzianità di residenza troppo severi che potrebbero discriminare lavoratori   che hanno esercitato il loro diritto alla libertà di circolazione. Pertanto   il controllo della Corte di giustizia è limitato al profilo della non   discriminazione da parte di uno Stato di soggetti che legittimamente lavorano   sul suo territorio; in difetto di una direttiva un cittadino europeo non può   chiedere che uno Stato inadempiente (come oggi sono solo la Grecia e   l’Italia) assicuri questa misura, né può sindacare le scelte nazionali   assumendo che non sono coerenti con la Carta dei diritti Ue.

Il RMG potrebbe,   forse, essere oggetto in futuro di un’interpretazione “evolutiva” del diritto   alla vita contemplato all’art. 2 della Carta dei diritti Ue e all’art. 2   della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte interamericana dei   diritti dell’uomo ( nata su imitazione di quella di Strasburgo e che agisce   sulla base di una Convenzione simile a quella europea del 1950) è giunta a   stabilire in alcune decisioni che oggi il diritto alla vita contempla anche   l’accesso alla soddisfazione di bisogni primari e che gli Stati hanno una   obbligazione “positiva” in questo senso, non essendo ammissibile che i   cittadini siano lasciati in situazioni di totale indigenza. La Corte di   Strasburgo non è giunta a dare una interpretazione simile della norma, ma si   è da tempo orientata ad affermare che il diritto alla vita, che gli Stati   sono tenuti a garantire, può essere messo in pericolo da condizioni di   estrema indigenza.

Va poi   osservato che il diffondersi dell’istituto non è fenomeno europeo, ma   globale. L’esperienza più significativa è la “bolsa social” brasiliana, una   sorta di reddito di sussistenza corrisposto a circa 34 milioni di brasiliani   e condizionato al solo obbligo, per i beneficiari che siano anche genitori,   di mandare i figli alla scuola dell’obbligo (la bolsa ha così comportato una   drastica riduzione del tasso di dispersione scolastica). Ma il diritto a un   “reddito di esistenza” è stato riconosciuto anche da Corti sudafricane e da   varie Corti sudamericane; forme di RMG sono contemplate anche da numerosi Stati   dell’India. Sono proprio questi paesi, che si stanno imponendo come   protagonisti new-comers nella scena economica planetaria, che mostrano di non   poter rinunciare ad uno strumento, difficilmente sostituibile, di   mantenimento della coesione e della solidarietà sociale.

Il RMG come policy europea. I caratteri del diritto

Pur non   avendo mai esercitato una competenza normativa in materia, l’Unione ha da   tempo individuato il RMG come una propria policy da connettersi strettamente   alle altre politiche occupazionali e di crescita che i Trattati contemplano   da decenni e, molto più chiaramente, da quanto il Trattato di Amsterdam ha   introdotto un capitolo sociale ad hoc. Gli strumenti adottati per realizzare   queste politiche sono, però, in genere quelli propri del metodo di   coordinamento aperto e cioè atti di indirizzo, raccomandazioni, scambio di   informazioni e promozione di best practices per raggiungere gli obiettivi   comunemente stabiliti.

Poco prima   dell’inizio dei negoziati che portarono all’approvazione del Trattato di   Maastricht, l’allora Presidente della Commissione europea Jacques Delors   tentò di far approvare una Direttiva che obbligasse tutti gli Stati ad   adottare schemi di RMG, ma senza riuscirvi. L’idea dell’insigne politico   socialista era quella di coniugare l’intensificazione dei legami economici   tra i paesi membri con l’approntamento di standards minimi di trattamento di   natura sociale, sì da impedire il pericolo di un social dumping tra paesi   membri, cioè una concorrenza sleale nell’abbassare le tutele sociali al fine   di attirare gli investimenti.

Si riuscì,   tuttavia, a emanare una storica raccomandazione, la n. 441/92, che ancora   rappresenta un punto di riferimento essenziale in materia. La Raccomandazione   (reiterata sostanzialmente nel 2008 in piena crisi economica, valorizzando il   RMG anche come mezzo per tenere alti i consumi in funzione anticiclica)   invita tutti gli Stati ad introdurre questo istituto ed offre precisi   paradigmi di ordine quantitativo e qualitativo per determinarne i contorni   precisi. Il RMG non può essere inferiore al 60% del reddito mediano da lavoro   dipendente valutato per ciascuno Stato; oltre all’erogazione monetaria il   beneficiario deve essere eventualmente sostenuto nelle spese per l’affitto e   aiutato con forme di tariffazione agevolata nell’accesso ai servizi pubblici   essenziali (luce, gas ecc.); infine anche per le spese impreviste ed   eccezionali serve un aiuto pubblico in quanto il soggetto povero o a rischio   di esclusione sociale si troverebbe nell’impossibilità di coprirle. Servizi   sociali e servizi per l’impiego devono accompagnare le persone assistite in   un percorso di reinserimento. Nel 2000 viene poi inaugurata la Lisbon   Strategy diretta ad integrare le politiche di crescita e sviluppo con quelle   sociali e di contrasto dell’esclusione sociale; nasce il metodo aperto di   coordinamento (MAC) con il quale si intende indirizzare gli Stati, con   strumenti legali a carattere non vincolante, verso il perseguimento di fini   ritenuti comuni, valorizzando le esperienze nazionali ritenute più efficaci.   Da quel momento, sui temi dell’assistenza sociale il MAC promuove come best   practices proprio le esperienze dell’Europa del Nord nelle quali (dopo i   grandi negoziati sociali degli anni ‘90 in Svezia, Danimarca, Olanda, Belgio,   ecc.) il reddito minimo garantito è diventato il fulcro di politiche   cosiddette di flexicurity, che tendono ad assicurare al singolo una   continuità di reddito e di protezione sociali nel mutato contesto del mercato   del lavoro, connotato ormai da una crescente flessibilità, accompagnata da   un’alta disoccupazione strutturale. Il RMG diventa così appannaggio del   cittadino lavoratore che alle classiche tutele “nel contratto” può aggiungere   quelle “nel mercato”, nelle transizioni da un posto di lavoro a un altro o   nei periodi di disoccupazione. L’RMG viene visto anche come base di una certa   autodeterminazione lavorativa in quanto consente al soggetto di rifiutare   sub-lavori degradanti e mal pagati, “indecenti”.

Nel dicembre   del 2007 il Consiglio dei Ministri dell’occupazione dell’Unione europea vara   gli 8 principi di flexicurity che racchiudono in sintesi l’elaborazione dei   vari MAC in materia sociale e che dovrebbero da quel momento ispirare le   politiche interne, consentendo monitoraggi più precisi e, eventualmente,   anche interventi della Commissione. In questo storico Documento il RMG è più   volte richiamato come uno dei tre pilastri della flexicurity europea (insieme   alla formazione permanente e continua ed al libero accesso a gratuiti ed   efficienti servizi dell’impiego, previsti come autonomi diritti anche nella   Carta dei diritti Ue). Nel 2010 la Lisbon Strategy è stata sostituita con la   “Strategia 20-20” che introduce uno specifico obiettivo di ordine sociale e   cioè la riduzione del tasso di povertà di almeno 20% in dieci anni: una vasta   letteratura ed anche Documenti della Commissione sottolineano che lo   strumento giuridico per perseguire questo obiettivo è il RMG, senza il quale   appare difficile se non impossibile raggiungere l’area del disagio sociale   acuto e permanente.

Assai   importante nel precisare i contorni del RMG è la Risoluzione del Parlamento   europeo del 21.10.2010 approvata con 540 voti a favore e 19 contro, che ha   riaffermato la centralità di questo strumento per la coesione continentale e   per fronteggiare la crisi economica internazionale. Il Parlamento ha invitato   tutti gli Stati che ne sono ancora privi, ad introdurre con urgenza tale   diritto e tutti gli altri a mantenersi nei parametri quantitativi e   qualitativi già indicati dalle due raccomandazioni del 1992 e del 2008 della   Commissione. Inoltre si è ricordato che il RMG è un diritto sociale   fondamentale, diretto a tutelare la dignità di ogni persona residente in via   stabile nel territorio dell’Unione e che le modalità con cui tale diritto   viene assicurato devono essere coerenti con tale finalità: sono pertanto   inammissibili forme di erogazione che stigmatizzano l’individuo   sottoponendolo a costrizioni e controlli irrazionali, che possono distruggere   l’autostima e l’autodeterminazione del soggetto “ in carico” facendolo   apparire come un parassita, inutile per il benessere della collettività.

Da ultimo va   ricordata la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco del 9.2.2010,   molto limpida nel tracciare le caratteristiche del RMG chiamato “reddito   minimo adeguato a una vita dignitosa”, che ha dichiarato parzialmente   incostituzionale il cosiddetto sistema Hartz IV , introdotto nel 2005, che   raggruppa gli aiuti sociali e gli assegni di disoccupazione. Secondo il   Giudice delle leggi tedesco quel sistema non soddisfa pienamente gli artt. 1   (“la dignità dell’uomo è intangibile”) e 20 (“La Repubblica federale tedesca   è uno stato federale democratico e sociale”) della Costituzione tedesca,   letti in connessione tra loro. Il diritto a un RMG (o reddito di esistenza) –   spiega la Corte -“garantisce ad ogni persona bisognosa le condizioni   materiali indispensabili per la sua esistenza e un minimo di partecipazione   alla vita sociale, culturale e politica. Oltre al diritto che deriva   dall’art. 1.1. della Legge fondamentale di rispettare la dignità di ogni   individuo, che ha effetto assoluto, questo diritto fondamentale ha, in   relazione all’art. 20, un significato autonomo quale diritto di garanzia.   Tale diritto non è soggetto a quanto dispone il parlamento e deve essere   onorato: tuttavia gli si deve dare forma concreta e inoltre deve essere   regolarmente aggiornato”. Pertanto la Corte ha ritenuto non affidabili i   parametri seguiti per dimostrare l’idoneità dei “minimi vitali” stabiliti per   legge, a salvaguardare la dignità dei cittadini protetti ed ha stigmatizzato   l’assenza di misure per coprire le spese impreviste ed eccezionali delle   persone assistite.

Per   concludere, l’intenso dibattito europeo e l’insieme delle iniziative adottate   da organi dell’Unione e dagli Stati per assicurare un RMG a persone a rischio   di esclusione sociale rendono oggi più chiaro anche dal punto di vista   sociologico chi siano i beneficiari del diritti: a) disoccupati che non   riescono a rientrare nel mercato del lavoro; b) persone in difficoltà nelle   cosiddette transizioni lavorative; c) giovani in cerca di prima occupazione;   d) soggetti emarginati, da tempo esclusi dalla attività produttive per   problemi familiari, psicologici o anche connessi all’estrema povertà   dell’ambiente in cui vivono. A questi oggi si devono aggiungere anche e) i   precari ed i sottooccupati (mini-jobs) che non riescono a ricavare   dall’attività un reddito “decente” che in moltissimi paesi viene “integrato”   dal RMG sino al raggiungimento di una soglia adeguata (anzi, in molti paesi   si consente che tale soglia sia di poco superata attraverso il sussidio   statale, per incentivare i soggetti a mantenere la propria occupazione).

L’Italia nel contesto europeo

Il quadro   europeo mostra una varietà notevole di schemi di RMG sia nelle entità (che comunque   devono essere parametrate sui livelli di reddito di ciascun paese), sia   riguardo le condizioni di erogabilità. In genere vi è l’obbligo di accettare   offerte di lavoro, anche se i paesi più avanzati a livello sociale   dell’Europa del Nord prescrivono che tali offerte siano coerenti con il   bagaglio professionale acquisito e con il livello di reddito precedentemente   garantito, anche in ossequio al diritto internazionale e cioè alla   Convenzione OIL n. 168/1988, applicabile per analogia, che impedisce di condizionare   l’indennità di disoccupazione al dovere di accettare offerte di lavoro che   non abbiano le caratteristiche prima indicate. E’ altresì diffuso l’obbligo   per il sussidiato di seguire corsi di formazione professionali o percorsi di   reinserimento concordati con gli uffici pubblici competenti; nei paesi più   avanzati si consente ai soggetti un’ampia scelta anche tra istruzione   superiore e/o universitaria, attività volontaria, di cura etc. in modo da   consentire alla persona di trovare il “ proprio” modo di partecipare al   benessere generale.

Nei paesi che   hanno inventato e praticato per primi il modello di “flexicurity” (paesi   scandinavi, Olanda, nei quali l’entità del RMG può essere anche di una certa   rilevanza, sino oltre 1.500 euro mensili in caso di famiglie con figli   minori), il RMG è agganciato al sistema di protezione contro la   disoccupazione in generale. Chi si trova a perdere il lavoro percepisce – a   carico dei medesimi servizi per l’impiego -che sono in genere cogestiti dalle   parti sociali- una indennità di disoccupazione che può durare alcuni anni   (Danimarca o Svezia; in Danimarca 4 anni ora ridotti a 3, con una indennità   pari al 90% dell’ultima retribuzione, ora ridotta all’80%); se il soggetto   non ritrova occupazione (ipotesi assai rara) in tale periodo, percepisce poi   il RMG (che in quasi tutti i paesi europei non ha scadenza e dura sino a   quando persiste la situazione di rischio di esclusione sociale). Coloro   invece che non sono tecnicamente disoccupati, se hanno un reddito non   sufficiente, godono immediatamente del RMG. Oggi anche Belgio, Germania ed   Austria hanno un sistema simile in quanto unico è il sistema che protegge   dalla disoccupazione e dall’emarginazione. In Francia vige invece il Revenu   de solidarieté active (RSA) (circa 1200-1300 euro mensili), piuttosto   generoso, anche se condizionato strettamente alla formazione ed al   reinserimento dei soggetti presi in carico dall’amministrazione pubblica.

L’Italia e   Grecia sono gli unici paesi dell’Ue a essere privi di una misura del genere;   qualche tentativo è stato fatto nel nostro paese, ma senza successo. Il primo   Governo Prodi varò in via sperimentale il Reddito minimo d’inserimento (RMI)   in alcune zone particolarmente disagiate del paese (soprattutto del   Sud-Italia): l’RMI era pari a lire 390.000 dell’epoca. Tuttavia l’esperimento   non è stato proseguito. Nel 2003 la Corte costituzionale, con la sentenza n.   10/2003, ha bocciato l’ipotesi di istituzione di un reddito di ultima istanza   per violazione delle competenze regionali in materia di assistenza sociale.   Da quel momento “in vista della riforma organica degli ammortizzatori   sociali” alcune Regioni hanno attuato forme di sperimentazione locale, prima   la Campania (che ha chiamato Reddito di cittadinanza la misura introdotta),   poi la Regione Friuli Venezia Giulia, quindi il Lazio e la Provincia di   Trento. Le prime due sperimentazioni sono cessate, la legge del Lazio è stata   de-finanziata anche se è ancora formalmente in vigore, l’ultima è ancora   operativa. La letteratura sull’argomento concorda sul fatto che un   provvedimento nazionale dovrebbe, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione,   definire i livelli essenziali della prestazione (previo accordo con le   Regioni), lasciando a quest’ultime ed anche agli altri Enti locali il compito   di erogare servizi e benefici ulteriori.

Pertanto,   salvo i residenti in Trento e Provincia, i cittadini italiani privi dei mezzi   elementari di sussistenza, nonostante i molteplici richiami della Commissione   europea e del Comitato economico sociale del Consiglio d’Europa, sono privi   di un sostegno che assicuri il loro diritto ad una esistenza libera e   dignitosa. Gli ultimi Governi hanno solo elaborato varie forme di social card   e cioè forniture sostanzialmente a carattere alimentare (alcune gestite   direttamente da “enti caritativi”) a persone in situazione di assoluta   indigenza; una recentissima forma di social card in via sperimentale eroga   anche qualche briciola in più, ma solo in determinate zone e a persone che   versano in situazioni di straordinaria deprivazione materiale e familiare   (basterà pensare che per questa social card sono stati stanziati 350 milioni   di euro, mentre alla Francia il Revenu de solidarité active costa circa 14   miliardi l’anno, pur non essendo tale paese tra coloro che investono di più   sul “capitale umano”).

La situazione   appare ancor più grave se consideriamo il grado di scarsa copertura del   sistema interno di ammortizzatori sociali che non arriva a coprire   idoneamente –persino per una indennità prevista costituzionalmente come   quella di disoccupazione- lavoratori precari, lavoratori autonomi   “etero-diretti” e varie forme di lavoro flessibile .

Una   Commissione di esperti recentemente riunitasi sotto l’impulso del Ministro   per il welfare Giovannini ha elaborato una proposta di SIA (sostegno per   l’inclusione attiva) che, stante la modestia dei fondi previsti, certamente   non potrebbe essere coerente con i parametri europei che -come abbiamo visto   – sono molto precisi, almeno dal punto di vista quantitativo. Peraltro il   SIA, contrariamente a quanto previsto dalla Carta dei diritti UE, ha come   punto di riferimento la famiglia e i suoi redditi e non la persona ed i suoi   bisogni.

In   conclusione va ricordato che le ultime statistiche sovranazionali indicano   che l’Italia, sui 28 Stati dell’Unione, ha il più forte tasso di incremento   di persone a rischio di esclusione sociale, che possono contare, cioè, su un   reddito inferiore alla soglia del 60% del reddito mediano da lavoro   dipendente ( nel nostro paese meno di 600 euro mensili).

 

 

 

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