Nota a cura dell’avv. Domenico Di Leo

Cassazione penale, sez. VI, sentenza 10.09.2012 n° 34492

 

Costituisce abuso punibile, a norma dell’art. 571 c. p., anche il comportamento doloso che umilia, svaluta, denigra o violenta psicologicamente un bambino, causandogli pericoli per la salute, anche se è compiuto con soggettiva intenzione educativa o di disciplina. (Caso in cui una professoressa aveva costretto un alunno a scrivere per 100 volte sul quaderno la frase “sono un deficiente”, e per avere adoperato nei suoi confronti un comportamento palesemente vessatorio, rivolgendogli espressioni che ne mortificavano la dignità, rimproverandolo e minacciandolo di sottrarlo alla tutela dei genitori, così causandogli un disagio psicologico per il quale fu necessario sottoporlo a cure mediche e a un percorso di psicoterapia.)

            Con la pronuncia del 10 settembre u.s., la S.C. ha condannato un’insegnante per aver imposto ad un alunno di anni 11 di scrivere una frase, ritenuta offensiva della dignità del medesimo, per reagire ad un atto di bullismo perpetrato dall’alunno nei confronti di un compagno di classe.

Il caso vedeva un’insegnante reagire ad episodi di bullismo, costringendo un alunno a scrivere per 100 volte sul proprio quaderno la frase “sono un deficiente” e rivolgendogli espressioni in grado di mortificarlo, minacciandolo, altresì, di sottrarlo alla tutela genitoriale causandogli, in tal modo, un forte disagio psicologico che necessitava di cure mediche e a un corso di psicoterapia.

In primo grado, il Tribunale di Palermo aveva assolto l’insegnante in quanto, come si legge nella sentenza, le risultanze offerte dagli atti utilizzabili, contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, non consentono di addivenire al giudizio di penale responsabilità dell’imputata in ordine ai reati a lei ascritti per insussistenza dei fatti[1]. Infatti, in ordine all’ipotesi di reati risultante dal combinato disposto degli artt. 81 cpv., 571 e 582 c.p., il Tribunale di Palermo ha ritenuto non provati i fatti giustificativi dell’impianto accusatorio formulato dal P.M. e, pertanto, ha assolto l’imputata

Ritenne il giudicante che il singolare “compito” assegnato dalla professoressa all’alunno fosse stato motivato dall’intento dell’insegnante di interrompere, con un intervento tempestivo ed energico, una condotta “bullistica” del C., che aveva tenuto un atteggiamento derisorio ed emarginante nei confronti di un compagno di classe.

L’imposizione dell’insegnante, «di per sé potenzialmente anche suscettibile di integrare gli estremi del mezzo educativo sproporzionato e come tale abusivo», fu ritenuta adeguata rispetto alla finalità pedagogica “concretamente” da perseguire, tenuto conto della necessità di un tempestivo intervento «per la realizzazione di plurimi obiettivi pedagogico-disciplinari, delle caratteristiche della persona a cui il mezzo di disciplina e correzione si rivolgeva, del modo in cui l’iniziativa dell’imputata veniva percepita dall’intera classe».

In conclusione, il giudicante valutò che non sussistesse l’abuso di mezzi di correzione suscettibile di ingenerare un pericolo concreto di malattia nel corpo o nella mente, in relazione alla dinamica dell’intervento educativo, al contesto in cui l’azione della docente si era inserita, alle finalità della condotta dell’insegnante, al modo in cui essa era stata percepita dall’allievo e dai compagni di classe[2].

La sentenza di primo grado fu oggetto di impugnazione da parte del P.M. e, in secondo grado, la Corte territoriale addivenne ad un risultato di segno contrario rispetto a quello che aveva invece chiuso il giudizio in primo grado. Le motivazioni che hanno sorretto la sentenza emessa in appello si fondano leva sul fatto che la condotta tenuta dall’insegnante integrò gli estremi dell’ipotesi delittuosa p. e p. dall’art. 571, comma 1 e 2, c.p., e ritenendo assorbito nell’aggravante di cui al comma 2 il reato p. e p. dell’art. 582 c.p.; con la concessione delle attenuanti generiche, ritenute prevalenti sull’aggravante anzidetta, l’insegnante fu condannata alla pena di un mese di reclusione e al risarcimento del danno in favore della parte civile.

Nel caso oggetto del giudizio di appello, i giudici hanno ritenuto che l’atteggiamento dell’insegnante fu particolarmente severo e connotato da speciale afflizione, inducendo nel minore destinatario di quella esemplare punizione un sentimento di umiliazione – avvenuto coram populo, al cospetto dell’intera classe – che andava ben aldilà della finalità educativa connessa al ruolo di educatore proprio della professoressa[3].

Dinanzi alla Corte di Cassazione, il difensore dell’insegnante ha prospettato un triplice ordine di motivi di censura nei confronti della sentenza emessa dalla Corte territoriale: di questi, la S.C. ha preso in considerazione ed esaminato soltanto quello relativo al profilo attinente la configurabilità dell’aggravante di cui al comma 2 dell’art. 571c.p., rigettando i profili riguardanti l’elemento soggettivo e la responsabilità dell’imputata per il delitto di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.

La sentenza in commento permette di sfiorare alcuni temi di attualità, sia giuridica che giornalistica, quali i limiti insiti nello jus corrigendi dei precettori ed educatori e il fenomeno del bullismo.

Sia la sentenza di assoluzione che quella di condanna espressa dalla Corte di Appello, prendono le mosse dalle medesime premesse, pur giungendo a esiti diametralmente opposti.

Nonostante la formulazione del reato di “abuso dei mezzi di correzione e disciplina” (art 571 c.p.) risalga all’ormai lontano 1930, ossia ad un momento storico pervaso da una ideologia improntata all’autoritarismo e al principio gerarchico, la norma deve essere reinterpretata alla luce dei principi costituzionali, del diritto di famiglia, come riformato dalla l.151/75 e s.m.i. e della Convenzione delle nazioni unite sui diritti del bambino (New York, 1989)[4].

L’interpretazione che assegna al fine educativo la capacità di annullare o, nella maggior parte dei casi, di diminuire il disvalore di condotte violente (dal momento che le pene previste dall’art 571 c.p., anche in ipotesi di morte o lesioni, risultano essere attenuate rispetto a quelle minacciate in caso di maltrattamenti) sembra contrastare con il primato nel nostro ordinamento riconosciuto al principio personalistico, in quanto subordina la dignità e l’integrità psicofisica della persona a una male intesa finalità di educazione[5].

E tale contrasto è tanto più evidente ove si ponga mente al fatto che l’ambito soggettivo privilegiato di applicabilità del reato di cui all’art 571 c.p. risulta, a ben vedere, quello dei rapporti tra minori ed educatori.

Da un lato, infatti, le acquisizioni della moderna pedagogia escludono che umiliazioni o sofferenze, fisiche o psicologiche, inflitte ad un soggetto minore possano sortire qualche effetto positivo, dall’altro lato il riconoscimento, sul piano nazionale ed internazionale, del minore come soggetto di diritti e la cui peculiare condizione di vulnerabilità impone l’effettiva tutela della sua personalità ancora in fieri, rappresenta un ostacolo difficilmente superabile rispetto alla legittimazione di uno jus corrigendi dai contenuti afflittivi.

In questo senso anche dalle fonti internazionali più qualificate, quali la convenzione di New York a tutela dei minori del 1989, si evince che gli attuali standard di civiltà che governano le relazioni interpersonali comprese quelle tra subordinati per qualsivoglia ragione ‑ rifiutano il ricorso a metodi violenti e ritengono più correttamente che lo sviluppo della personalità e l’adesione ai valori vigenti in un dato momento storico debbano essere perseguiti con la cultura, la persuasione, il convincimento e il dialogo.

Il riconoscimento della violenza quale mezzo correttivo o disciplinare, sia pure contenuto entro limiti fissati dalla legge, costituisce un anacronismo morale e sociale.

Alla stregua di tale premessa deve essere individuato il contenuto degli elementi costitutivi della fattispecie in questione, nella sua applicazione concreta.

Entrambe partono dalla constatazione che il minore è soggetto titolare di diritti con una personalità in fieri; tale condizione, non soltanto biologica ma anche psicologica, merita un’attenzione particolare da parte dell’ordinamento giuridico – non soltanto nazionale, come già visto – la quale si è tradotta[6] in un corpus normativo ad hoc per il caso in cui il minore abbia commesso un reato, cercando di affrontare la delicata problematica con l’istituzione del Tribunale per i minorenni e con l’utilizzazione di istituti, ora premiali ora alternativi rispetto a quelli previsti per l’adulto, che evitino, finchè possibile, il contatto fra il minore e l’istituzione carceraria, onde evitare danni più gravi di quelli che si vogliono affrontare. In questa nuova prospettiva, il minore non è più visto, come avveniva in passato, un soggetto meritevole soltanto di protezione ma egli ha una propria dignità ed una sua identità degna di rispetto da parte di tutti: se ciò è vero, un percorso educativo che consti di strumenti e modalità violente e costrittive si pone in antitesi con l’obiettivo di uno sviluppo armonioso della personalità del minore, che sia sensibile ai più alti valori indicati dalla Grundnorm italiana e, più in generale, dalle Carte internazionali cui si è fatto breve cenno.

L’abuso ha per presupposto logico e necessario l’esistenza di un uso lecito: l’abuso del mezzo si pone come abuso di un potere di cui alcuni soggetti sono titolari nell’ambito di determinati rapporti (ad esempio di educazione, istruzione, cura), potere che deve essere esercitato nell’interesse altrui, cioè di coloro che possono diventare soggetti passivi della condotta.

In ambito scolastico, dunque, il concetto di abuso presuppone l’esistenza in capo al soggetto di un potere educativo o disciplinare che deve essere esercitato con mezzi consentiti e in presenza delle condizioni che ne legittimano l’esercizio per le finalità ad esso proprie, e senza superare i limiti tipicamente previsti dall’ordinamento. La necessità dell’esistenza del diritto esclude in radice che possa essere considerato mezzo di correzione e di disciplina ogni e qualsiasi strumento che venga adoperato per questo obiettivo. In altre parole: non può essere il fine disciplinare o pedagogico, in ambito scolastico, a giustificare qualsiasi mezzo adoperato. E’ necessario che il mezzo sia tale per natura e per normale destinazione. In molti casi i mezzi di correzione e di disciplina sono espressamente previsti da norme giuridiche di natura extrapenale (es. circolari ministero istruzione) ma anche in usi sociali che per consuetudine vengono considerati socialmente adeguati.

Ne consegue che, da un lato, non ogni intervento correttivo o disciplinare può ritenersi lecito sol perché soggettivamente finalizzato a scopi educativi o disciplinari; e, d’altro lato, va ritenuta abusiva la condotta, di per sé non illecita, quando il mezzo è usato per un fine diverso da quello per cui è stato conferito (quando cioè lo scopo è la vessazione dell’individuo, la punizione esemplare, per umiliare la dignità della persona sottoposta, per mero esercizio d’autorità o di prestigio dell’agente etc).
L’abuso può verificarsi anche in considerazione delle modalità non adeguate di intervento, tenuto conto del contesto culturale e della situazione concreta su cui si innesta la condotta dell’agente, quali la gravità del comportamento del soggetto a cui si rivolge l’intervento disciplinare o pedagogico, i pericoli presenti e futuri per altri minori in contatto con quest’ultimo e vittime della sua azione, le risorse a disposizione dell’agente nel momento in cui interviene. Sotto altra profilo, la nozione giuridica di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina non può ignorare l’evoluzione del concetto di “abuso sul minore”, che si è andato evolvendo e specificando nel tempo.

Da una sorpassata e limitativa nozione di abuso, inteso come comportamento attivo dannoso sul piano fisico per il bambino, l’attuale cultura giuridica e quella medica e psicologica qualificano come abuso anche quello psicologico, correlato allo sviluppo di numerosi e diversi disturbi psichiatrici.

 Il delitto in esame si consuma col realizzarsi del fatto che costituisce l’abuso nel senso indicato, sempre che ne derivi il pericolo (probabilità e non semplice possibilità) di una malattia nel corpo e nella mente.

 

Alla stregua dei suddetti parametri di valutazione della condotta sul piano oggettivo, la giurisprudenza del Supremo collegio, nel tempo, ha ritenuto come leciti i mezzi di correzione tradizionali tali da non porre in pericolo la incolumità del soggetto passivo (Cass.1982/1451) e quindi quelli adeguati al fine da perseguire.

Più precisamente il Supremo Collegio si è limitato a rilevare non sono consentiti ad esempio l’uso della cinghia o gli atti di violenza fisica dell’insegnante, vietati anche dai regolamenti scolastici (Cass.19 gennaio 1972, in Giust. pen. 74, 11, 498), non fornendo tuttavia indicazioni specifiche sulle condotte che pur non integrando gli estremi di una aggressione fisica al corpo sono tuttavia suscettibili di determinare il “pericolo di malattia della mente” per la loro inadeguatezza rispetto alla finalità educativa perseguita.

Inoltre, costituisce abuso punibile a norma dell’art 571 c.p. (e che, nella ricorrenza dell’abitualità e del necessario elemento soggettivo, può integrare anche il delitto di maltrattamenti) anche il comportamento doloso che umilia, svaluta, denigra o violenta psicologicamente un bambino, causandogli pericoli per la salute, anche se è compiuto con soggettiva intenzione educativa o di disciplina (Cass. pen., sent. n. 16491/2005).

Il Tribunale di Palermo aveva tuttavia posto l’attenzione su un punto di snodo rilevante, ad avviso del sottoscritto, nel momento in cui poneva l’accento sull’intima relazione esistente fra il mezzo impiegato e l’interesse perseguito, affermandone il condizionamento e l’integrazione reciproca, in relazione alla sussistenza del comportamento vietato. Il che significa, pure, verificare se il mezzo educativo praticato nel caso di specie sia stato proporzionato rispetto allo scopo pedagogico perseguito, tenuto conto della situazione concreta in cui l’insegnante si trovava ad operare e alle caratteristiche dei suoi interlocutori; e se quella condotta abbia comportato anche solo il pericolo concreto di un danno fisico o morale al menzionato minore.

Come riferito in motivazione, il giudice di primo grado ha ritenuto di escludere la sussistenza dell’evento di danno lamentato dalla parte civile, dovendo, comunque, accertare l’eventuale presenza di un abuso dei mezzi di correzione suscettibile di ingenerare un “pericolo concreto” di malattia per il corpo o per la mente del menzionato minore derivante dall’azione dell’insegnante.

Anche tale circostanza può dirsi insussistente ciò desumendosi dalla dinamica dell’intervento educativo, dal contesto in cui l’azione dell’insegnante è andata ad inserirsi, dalle finalità di quella condotta, dal modo in cui è stata percepita dal diretto interessato e dai compagni di classe di quest’ultimo.

Tali verifiche, nella vicenda in esame, devono necessariamente muovere dall’antefatto relativo a quanto accaduto alla vittima e compagno di classe dell’autore, nei giorni che hanno preceduto l’iniziativa disciplinare della professoressa, oggetto della contestazione penale.

Si tratta della sistematica derisione e del tentativo di emarginazione della giovane  vittima ad opera di due coetanei, avvenute colpendo il ragazzo di undici anni con frasi aventi ad oggetto le “tendenza sessuali”, come risulta non solo dalle dichiarazioni della stessa professoressa e della preside ma anche da alcune “testimonianze” (in senso atecnico) dei compagni di classe dei protagonisti della vicenda contenute in biglietti scritti con i quali commenta la dinamica dell’accaduto (documentazione, questa, presente nel fascicolo)[7]. La suddetta ricostruzione dei fatti  non venne smentita dagli elementi forniti dall’accusa.

Come notoriamente segnalano i più significativi contributi psicopedagogici, le conseguenze per la vittima di certi atti, consumati in contesti scolastici caratterizzati da minori in età adolescenziale, sono la tendenza a chiudersi in atteggiamenti ansiosi e insicuri e il calo progressivo del senso di autostima suscettibile di produrre una immagine negativa di sé in quanto persona di poco valore e inetta. Poiché la vita in classe viene resa loro molto difficile, le vittime di atti di questo tipo, definibili come atti di bullismo, possono provare il desiderio di non andare più a scuola, colpevolizzandosi per il fatto di attirare le prepotenze e l’aggressività dei loro compagni. Altri possono persino manifestare la paura ricorrente di rifiutarsi di uscire soprattutto per andare a scuola. Addirittura, in un numero ristretto di casi, subire comportamenti prepotenti e intimidatori può mettere in serio pericolo di vita, portando a gesti gravi di autolesionismo e anche a tentativi di suicidio, come attestano recenti fatti di cronaca. A lungo andare, da adulti, coloro che sono stati insistentemente vittime di comportamenti persecutori hanno più possibilità di soffrire di episodi depressivi. Nel comportamento adottato dalla professoressa, sembra, dunque, riscontrarsi la necessità di interrompere, con un intervento tempestivo ed energico sul ragazzo autore di questi episodi, una condotta che avrebbe potuto produrre gravissimi danni alla vittima (vedi tentativi di suicidio).

Nel caso di specie, l’azione della professoressa non si limita ad esprimere, come si dirà, una mera finalità educativa verso l’autore ma sembra muoversi anche in una prospettiva di solidale protezione del soggetto più debole.

Come spiegato dalla stessa imputata, costei, anziché affidarsi agli inefficaci strumenti della nota disciplinare, adotta un intervento di tipo diverso per stigmatizzare a tal punto la condotta dello stesso autore da bloccarne gli effetti nocivi sul compagno di classe aggredito e ciò avviene attraverso il dialogo aperto su quanto accaduto come confermano i biglietti scritti dagli alunni.

Dai commenti dei ragazzi, riportati nei biglietti a corredo della documentazione del giudice, si comprende che l’intervento sembra finalizzato anche ad evitare che altri alunni potessero imparare che comportarsi da prevaricatori (nel caso di specie irridendo altri ragazzi sulle tendenze sessuali) è un modo per ottenere efficacemente e rapidamente ciò che si vuole (ad esempio l’attenzione dei compagni di classe), senza mai rispondere delle conseguenze del proprio agire. Proprio su tale ultimo punto recenti ricerche psicopedagogiche, ampiamente condivise dalla comunità degli studiosi, sostengono che la prepotenza, se non tempestivamente stigmatizzata e contrastata, può arrivare sino al punto di pervadere le relazioni tra compagni di classe e di essere accettata come condizione normale dei rapporti interpersonali e sociali. Come emerso dalle dichiarazioni dell’imputata e dai foglietti in cui sono contenuti i pensieri dei giovani alunni, che non vengono smentite da alcuna risultanza processuale, nel caso in esame la professoressa doveva gestire, di fronte ai suoi alunni, anche i differenti comportamenti dei due ragazzi protagonisti delle offese.

Uno dei due, resosi conto della gratuita aggressione verbale ai danni del compagno di classe, aveva chiesto scusa alla vittima dell’episodio per le espressioni usate nei suoi confronti, davanti a tutta la classe; invece l’altro non si era minimamente preoccupato della sensibilità del coetaneo che aveva apostrofato ed a cui aveva impedito l’ingresso nella toilette degli uomini.

Il non intervenire in presenza dello spavaldo atteggiamento di questi, a fronte delle scuse del “complice”, avrebbe finito per accreditare, tra le fila dei compagni di classe, l’idea che condotte vessatorie a danno dei più deboli sarebbero state comunque accettate; mentre quelle ragionevoli e comprensive del disagio dell’offeso lasciate nella indifferenza; con gravi effetti di disorientamento sui modelli comportamentali a cui tutti gli altri alunni avrebbero dovuto ispirarsi.

Nel valutare la condotta dell’insegnante va, pure, evidenziato un ulteriore dato ricavabile dagli studi specialistici sui temi psico‑pedagogici. Secondo analisi che studiano l’evoluzione dei comportamenti rispetto a vissuti dell’infanzia, gli alunni che hanno sistematicamente sopraffatto in vario modo gli altri, hanno molte più probabilità da adulti di assumere comportamenti antisociali, anche con drammatiche conseguenze. Se non vengono dissuasi, possono continuare a usare tattiche intimidatorie e aggressive nelle loro relazioni interpersonali.

Alla stregua delle indicate risultanze processuali, quindi, può sicuramente escludersi che la condotta della professoressa, riguardante l’intervento disciplinare sull’autore di siffatti episodi, sia espressione di un interesse diverso da quello educativo verso tutti gli alunni della classe in cui operava, interesse per il quale le erano stati conferiti poteri di controllo e di intervento. In altri termini si ravvisa uno stretto rapporto di causa ed effetto tra la condotta dell’insegnante e l’obiettivo di svolgere i suoi compiti pedagogico-disciplinari, che non lascia spazio a chiavi di lettura alternative rispetto al movente, quali ad esempio i motivi di rancore, il desiderio di insultare e umiliare il ragazzo etc.

In ordine, poi, alla valutazione sulle modalità di intervento della professoressa rispetto alla finalità perseguita, occorre fare riferimento non solo all’imposizione di scrivere “100 volte deficiente”, di per sé potenzialmente anche suscettibile di integrare gli estremi del mezzo educativo sproporzionato e come tale abusivo, ma al contesto a cui quella condotta si collegava, contesto dell’istituto ove avvenne il fatto, connotato da una oggettiva situazione di pericolo attuale per la vittima derivante dal comportamento dell’autore del reato e potenziale per altri minori, da un ambiente sociale attorno alla scuola definito “difficile” dalla preside perché troppo spesso connotato dalla cultura della prevaricazione, dalla tipologia dei mezzi di intervento a disposizione dell’insegnante per una efficace risposta a quanto stava accadendo.

Secondo La Corte d’appello palermitana, in adesione ai principi di diritto sopra indicati, la condotta dell’imputata ha integrato oggettivamente la fattispecie del delitto in esame. Dalle motivazioni della sentenza impugnata, deve particolarmente sottolinearsi l’affermata necessità che la risposta educativa dell’istituzione scolastica sia sempre proporzionata alla gravità del comportamento deviante dell’alunno e che, in ogni caso, essa non può mai consistere in trattamenti lesivi dell’incolumità fisica o afflittivi della personalità dei minore.

Opportunamente la Corte territoriale evidenzia la severa presa di distanza dalla condotta tenuta dall’imputata operata dalla preside[8]. A commento di tale lucida consapevolezza da parte del dirigente dell’istituzione scolastica in cui la presente vicenda ebbe luogo, si può soltanto aggiungere che, nel processo educativo, essenziale è la congruenza tra mezzi e fini, tra metodi e risultati, cosicché diventa contraddittoria la pretesa di contrastare il bullismo con metodi che finiscono per rafforzare il convincimento che i rapporti relazionali (scolastici o sociali) sono decisi dai rapporti di forza o di potere.

La costrizione a scrivere cento volte la frase sopra riportata, lesiva della dignità dell’alunno e umiliante per le modalità di esecuzione (in classe, alla presenza dei compagni e con richiesta di sottoscrizione dei genitore per presa conoscenza), lungi da indurre nel C. sentimenti di solidarietà verso i soggetti vulnerabili, era obiettivamente idonea a rafforzare nel ragazzo il convincimento che i rapporti relazionali sono regolati dalla forza, quella sua verso i compagni più deboli, quella dell’insegnante verso di lui.

La S.C., pur confermando l’impianto della sentenza di secondo grado, ha accolto l’ultimo motivo di ricorso formulato dal difensore della docente, che censura la sentenza per avere «ritenuto provato il disturbo del comportamento causato dalla condotta dell’insegnante attraverso la probabilità” avanzata dallo psicologo.

Osserva il Collegio che per l’integrazione della fattispecie delineata dall’art. 571, comma 1, c.p., è sufficiente che dalla condotta dell’agente derivi il pericolo di una malattia fisica o psichica, che può essere desunto anche dalla natura stessa dell’abuso, secondo le regole della comune esperienza (Cass. pen. n. 6001/1998) ovvero della scienza medica o psicologica, senza necessità, trattandosi di tipico reato di pericolo, che questa si sia realmente verificata.

Sussiste il pericolo di malattia nella mente ogni qualvolta ricorre il concreto rischio di rilevanti conseguenze sulla salute psichica del soggetto passivo. Ed è opinione comune nella letteratura scientifico-psicologica che metodi di educazione rigidi ed autoritari, che utilizzino comportamenti punitivi violenti o costrittivi, come quelli realizzati dall’imputata, siano pericolosi e talora e, in determinate condizioni anche dannosi per la salute psichica (Cass. n. 16491/2005).
Per l’integrazione dell’ipotesi aggravata prevista dal secondo comma dell’art. 571 c.p. occorre, invece, la sicura prova della lesione fisica o psichica, che non può ritenersi raggiunta dalla probabilità e tanto meno dalla mera possibilità di essa.

La sentenza in esame ha valorizzato la diagnosi (“disturbo acuto da stress”) formulata dallo psicologo di parte il quale, sentito dalla polizia giudiziaria, affermò che «tale disturbo poteva essere stato causato dal comportamento dell’insegnante”. Non essendo stata raggiunta tale prova, la S.C. ha annullato la sentenza senza rinvio sul punto relativo alla contestata aggravante.

Il fenomeno del bullismo è stato oggetto di attento studio da parte del norvegese Olweus[9] il quale, sin dai primissimi anni ’70, ha affermato che esso consta, secondo una prima e approssimata definizione, in una nuova forma di devianza aggressiva, molto diffusa fra gli adolescenti[10]. Il termine bullismo deriva dall’inglese ‘bullying’ ed esprime l’idea di ‘usare prepotenza’[11]: in italiano non esiste un perfetto corrispondente e perciò è stata coniata una nuova parola, ‘bullo’ appunto, e, nella nostra cultura, il bullo è colui che è ‘sbruffone, spavaldo’[12]. Secondo il pioniere norvegese, un soggetto è destinatario di azioni di bullismo ovvero è prevaricato o vittimizzato quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni[13]. Accanto a questa definizione, se ne colloca un’altra in base alla quale il bullismo consiste nell’interazione in cui un individuo o un gruppo di individui più dominanti causano intenzionalmente sofferenze a un individuo o a un gruppo di individui meno dominanti[14].

Da quanto brevemente detto sin qui, emerge che il fenomeno del bullismo si basa su uno sbilanciamento di potere fra due parti, una delle quali agisce, prevaricando l’altra. Da questa osservazione deriva che si può parlare di bullismo se esiste l’endiadi ‘bullo – vittima’, altrimenti non si ha bullismo. Le tre condizioni di esistenza del bullismo possono riassumersi in tre caratteristiche del fenomeno:

  • l’intenzionalità: il bullo deve porre in atto con intenzione i comportamenti – fisici, verbali o psicologici – finalizzandoli all’offesa o a recare un danno o semplicemente un disagio all’altro;
  • la persistenza: gli episodi di prevaricazione devono essere protratti nel tempo;
  • l’asimmetria: deve esistere uno sbilanciamento fra la forza di chi agisce e chi subisce l’azione.

Tralasciando altre interessanti suddivisioni del fenomeno che però porterebbero lontano dagli obiettivi della presente nota[15], occorre prendere atto che il fenomeno del bullismo è una forma di violenza multidimensionale che, superando i comportamenti individuali, coinvolge l’intero gruppo, costituito dalla classe, proprio perché la scuola è il luogo privilegiato. Pur registrando notevoli differenze fra aree geografiche e fra aree urbane medio-grandi e piccoli centri[16], l’elemento comune a tutti gli episodi è il fatto che gli episodi avvengono prevalentemente a scuola, piuttosto che nel tragitto fra casa e scuola perchè è nella scuola che i giovani trascorrono buona parte del tempo con i loro pari, è qui che essi hanno maggiori possibilità di conoscersi e confrontarsi ed è in questo luogo che essi riversano le loro eventuali ansie. La scuola è la principale agenzia di socializzazione e di formazione della personalità del ragazzo, subito dopo la famiglia, e la scuola deve fornire a tutti gli strumenti necessari per crescere non soltanto culturalmente ma anche psicologicamente e socialmente, sviluppando capacità critica e un adeguato grado di responsabilità ed autonomia[17]. La struttura scolastica gioca un ruolo molto importante nelle dinamiche prevaricatorie. Molte scuole sono fatiscenti, ospitate in edifici la cui costruzione risale molti decenni addietro, e non sono più idonei ad assolvere alloro compito primario di trasmettere la cultura e di favorire lo sviluppo sano dei rapporti interpersonali. Nella maggior parte dei casi, questi edifici presentano spazi molto angusti, corridoi lunghi e stretti, servizi igienici posti in zone lontane dal controllo supervisore degli adulti (insegnanti e personale non docente), cortili poco spaziosi che non permettono a tutti di poterne usufruire[18]. Altre zone a rischio possono essere le aule destinate ad attività ben determinate e, perciò, non utilizzate frequentemente, qualora le stesse non siano adeguatamente sorvegliate o chiuse a chiave. Inoltre, la scuola è il luogo in cui si impara a saper discutere e a differenziarsi: saper discutere nella classe e con l’insegnante favorisce lo sviluppo psicologico e socio – cognitivo. In tal modo, lo studente impara a conoscere l’opinione altrui, ad accettarla o a contestarla secondo le regole della civile convivenza e nel rispetto dell’altro, impara a rafforzare la fiducia in se stesso e negli altri e a tollerare le differenze con gli altri, valorizzandole come risorse e non come ‘deficienze’. Nel contesto scolastico, dovrebbero prevedersi forme di controllo preventivo da parte di equipe di docenti appositamente individuati a sostegno del programma, oltre alla discussione e individuazione delle strategie di intervento da parte del collegio e di tutto il personale della scuola, prevedendo: a) il coinvolgimento degli alunni come protagonisti attivi nel combattere il bullismo all’interno della scuola; b) la collaborazione costante e convinta delle famiglie degli alunni; c) l’intervento di persone esterne in contatto con il mondo della scuola (psicologici dell’età evolutiva, assistenti sociali, componenti della comunità locale, ufficiali di polizia, personale medico e religioso).  Si comprende come la figura più importante, accanto a quella dei genitori, è di sicuro quella dell’insegnante, in quanto interagisce direttamente con gli studenti e trascorre con loro la maggior parte del tempo. Il ruolo dell’insegnante contemporaneo è notevolmente cambiato rispetto al passato perché non egli non deve soltanto trasmettere la cultura ma deve educare i suoi alunni alla vita e al senso di responsabilità, in una parola deve formare le persone del futuro. Indubbiamente si tratta di una mole di lavoro immane; e quando ci si trova ad essere educatori in realtà difficili, le difficoltà rendono quel compito di formazione un obiettivo ancor più lontano. Di fronte ad episodi di bullismo, l’insegnante deve ergersi ad arbitro della situazione e capire le dinamiche del fenomeno di prepotenza accaduto. Deve ascoltare il racconto dei fatti come esposto dall’autore della condotta e dalla vittima e da eventuali testimoni; deve consentire agli studenti di sperimentare il conflitto, se contenuto entro erti limiti, e intervenire se diventa prevaricazione. Per svolgere al meglio il suo ruolo, l’insegnante non deve utilizzare ammonimenti o comportamenti che sia espressione dell’autorità che riveste nel contesto scolastico – altrimenti verrà contestato in quanto espressione e simbolo dell’istituzione scolastica che con atteggiamenti da bullo egli vuole colpire – ma deve dare indicazioni che fungano da guida e sostegno per il discente che si trovi a vivere un momento di disagio. L’insegnante non deve reprimere la rabbia dello studente perché ne accresce il risentimento che, presto o tardi, si manifesterà con episodi ancora più aggressivi e violenti. Certo, non è facile: ma di sicuro l’insegnante non deve sottovalutare il problema della prevaricazione, quando un alunno espone la necessità di un aiuto, né deve manifestare fastidio verso chi subisce condotte prevaricatorie, giudicandolo incapace di difendersi e favorendone la vittimizzazione secondaria. L’insegnante non deve neppure tollerare gli episodi di bullismo, reputandoli un banco di prova per affrontare le difficoltà della vita, una volta fuori dalle protettive mura scolastiche o, più in generale, domestiche. Un insegnante responsabile deve intervenire per interrompere tali condotte e condannarle[19]: la tolleranza o l’omesso intervento non avranno altro risultato che rafforzare il proposito deviante del bullo che saprà per certo di andare esente da qualsivoglia pena. Il bullismo esprime la condizione di anomia[20] vissuta dall’adolescente che pone in essere condotte prevaricatrici. Di fronte a certi obiettivi, egli prende atto di non poterli raggiungere, per mancanza di strumenti idonei (ad esempio, una scuola che non sia adeguatamente equipaggiata per lo sport o che non abbia un laboratorio informatico) o di non volerli raggiungere perché non confacenti con i propri valori (in quanto contrastanti con i valori interiorizzati in famiglia e/o nel gruppo dei pari): se l’insegnante non interviene per porre fine a un episodio che si verifica in sua presenza o di cui egli abbia avuto cognizione, trasmetterà un errato messaggio a tutti: il bullo si sentirà autorizzato a continuare con la sua condotta prevaricatrice, la vittima subirà la vittimizzazione secondaria e avrà la certezza di non poter essere aiutato dall’insegnante, il resto della classe codificherà quel messaggio nel senso che i rapporti umani si basano sulla forza e soltanto il più forte – fisicamente o psicologicamente – vince.

Nel caso in commento, da un lato, l’utilizzo della parola ‘deficiente’, per quanto diffusa nel linguaggio utilizzato dai giovani, andava evitato da parte dell’insegnante perché, almeno in teoria, avrebbe potuto ingenerare nel destinatario minore d’età un sentimento di scarsa fiducia in se stesso e di non accettazione di sé, con conseguenze drammatiche che, nel caso concreto, sono mancate (non sono state provate); in ogni caso, un simile atteggiamento da parte dell’insegnante contraddice la finalità educativa e formativa propria del ruolo del docente[21]. Dall’altro lato, occorre evidenziare che la condotta del minore, orientata nei confronti di un coetaneo per stigmatizzarne il presunto orientamento sessuale, ha avuto luogo nei bagni della scuola, durante l’orario scolastico, basandosi sull’assunto che la vittima fosse ‘diversa’ e perciò meritevole di essere prevaricata. Inoltre, il minore autore degli episodi di bullismo ha assunto in ogni caso un atteggiamento di chiusura nei confronti dell’istituzione scolastica, rappresentata dall’insegnante e dalla vittima, alla luce del fatto che il suo complice, scoperta la prevaricazione, ha chiesto scusa alla vittima dinanzi all’intera classe. In ciò consiste la gravità dei fatti oggetto di denuncia: se da un lato, c’è stato l’abuso da parte dell’insegnante, dall’altro va sicuramente considerato l’ambiente – scolastico e del quartiere in cui quella scuola si trova – per comprendere a fondo il disagio espresso dai due minori con la condotta denominata bullismo. Nella decisione di secondo grado, andava certamente approfondito l’aspetto legato alla personalità del minore autore della condotta aggressiva, alla luce delle moderne risultanze scientifiche e sociologiche[22] che affermano che un atteggiamento aggressivo nei confronti dell’istituzione scolastica si spiega col fatto che essa rappresenta un luogo in cui ci si annoia, essendo privo di utilità, e una condotta trasgressiva serve a renderla più interessante[23]: nel caso di cui alla sentenza in commento, l’atteggiamento dell’autore nei confronti dell’insegnante e della classe ha denotato un’intima convinzione dell’utilità della reiterazione della condotta bullistica, rifiutandosi di chiedere scusa al compagno da lui vittimizzato, come aveva già fatto il suo complice, mostrandosi insensibile nei confronti del medesimo.

Concludendo, per quanto discutibile possa essere ritenuta la condotta dell’insegnante, va di certo considerato che nei vari gradi di giudizio l’attenzione si è spostata dal fatto accaduto – la condotta prevaricatrice – alla reazione dell’insegnante: secondo i giudici della S.C. tale reazione merita la censura. Tuttavia è singolare che l’episodio di bullismo, da cui ha preso le mosse tutta la vicenda giudiziaria sia rimasto sullo sfondo: il rischio è che il bullismo, presente nelle scuole italiane come dimostrato dagli studi sociologici[24], venga oltremodo tollerato o, peggio ancora, negato, a ulteriore danno delle vittime e per l’orgoglio dei prevaricatori, entrambi giovanissimi con un futuro, nella gran parte dei casi, già segnato[25].

 

Normativa di riferimento.

Art. 81 c.p.;

Art. 571 c.p.;

Art. 582 c.p.

 

Bibliografia & Giurisprudenza

            Si veda la bibliografia indicata nelle note a piè di pagina. La giurisprudenza riferita volta per volta, laddove non espressamente indicato, si intende di orientamento favorevole nel senso del testo o, comunque, maggioritaria.

 

Segue il testo della sentenza in commento.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

Sentenza 14 giugno – 10 settembre 2012, n. 34492

(Presidente Milo – Relatore Ippolito)

Ritenuto in fatto

1. La professoressa G.V., insegnante presso la Scuola media statale **** di Palermo, fu tratta a giudizio per rispondere del reato di cui agli artt. 81 cpv., 571 e 582 cod. pen. per avere abusato dei mezzi di correzione e di disciplina in danno dell’alunno G.C., di 11 anni, costringendolo a scrivere per 100 volte sul quaderno la frase “sono un deficiente”, e per avere adoperato nei suoi confronti un comportamento palesemente vessatorio, rivolgendogli espressioni che ne mortificavano la dignità, rimproverandolo e minacciandolo di sottrarlo alla tutela dei genitori, così causandogli un disagio psicologico per il quale fu necessario sottoporlo a cure mediche e a un percorso di psicoterapia (in Palermo sino al 7 marzo 2006).

2. All’esito di giudizio abbreviato, il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Palermo assolse l’imputata per insussistenza dei fatti contestati.

Ritenne il giudicante che il singolare “compito” assegnato dalla professoressa V. all’alunno C. fosse stato motivato dall’intento dell’insegnante di interrompere, con un intervento tempestivo ed energico, una condotta “bullistica” del C., che aveva tenuto un atteggiamento derisorio ed emarginante nei confronti dei compagno di classe A.G.

L’imposizione dell’insegnante, «di per sé potenzialmente anche suscettibile di integrare gli estremi del mezzo educativo sproporzionato e come tale abusivo», fu ritenuta adeguata rispetto alla finalità pedagogica “concretamente” da perseguire, tenuto conto della necessità di un tempestivo intervento «per la realizzazione di plurimi obiettivi pedagogico-disciplinari, delle caratteristiche della persona a cui il mezzo di disciplina e correzione si rivolgeva, del modo in cui l’iniziativa dell’imputata veniva percepita dall’intera classe».

In conclusione, il giudicante valutò che non sussistesse l’abuso di mezzi di correzione suscettibile di ingenerare un pericolo concreto di malattia nel corpo o nella mente, in relazione alla dinamica dell’intervento educativo, al contesto in cui l’azione della docente si era inserita, alle finalità della condotta dell’insegnante, al modo in cui essa era stata percepita dall’allievo e dai compagni di classe.

3. In accoglimento dell’impugnazione del Pubblico Ministero e in riforma della prima sentenza, la Corte d’appello di Palermo ha dichiarato l’imputata colpevole del reato di abuso dei mezzi di disciplina, di cui all’art. 571, commi primo e secondo, cod. pen., ritenendo assorbito nell’aggravante del secondo comma il reato di lesioni contestato al capo B) e, concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla detta aggravante, l’ha condannata alla pena di un mese di reclusione (pena base: un mese e quindici giorni, ridotta di un terzo per il rito), con i doppi benefici di legge, nonché al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, da liquidarsi in separata sede.

I giudici d’appello, ricostruendo la vicenda, hanno innanzitutto messo in discussione la situazione di bullismo evocata nella sentenza di primo grado e hanno escluso in fatto che a C. «potesse essergli addebitata un’azione di “sistematica derisione” né “un tentativo di emarginazione” in danno del compagno», aggiungendo poi che G.C. «non era un ragazzino problematico», bensì «un alunno intelligente, vivace, ubbidiente, che non creava problemi particolari … In sostanza, un minore con una personalità che non presentava alcun tratto negativo, e non necessitava di interventi particolarmente rigorosi».

La Corte territoriale ha concluso rilevando che l’imputata «ha manifestato nei rapporti con il minore un comportamento particolarmente afflittivo e umiliante, trasmodante l’esercizio della sua funzione educativa, sanzionando davanti la classe con una frase contenente una qualificazione offensiva nei confronti del medesimo, costringendolo ad insultarsi scrivendo cento volte la frase in questione ed imponendogli di fare firmare il compito dai genitori».

4. Ricorre per cassazione il difensore dell’imputata, che deduce: a) violazione dell’art. 606.1 lett. e) c.p.p. in relazione alla motivazione sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato previsto e punito dall’art. 571 cod. pen.; b) violazione dell’art. 606.1 lett. b) c.p.p. in relazione all’art. 571, comma primo, cod. pen.; c) violazione dell’art. 606.1 lett. e) c.p.p. in relazione all’art. 571, comma secondo, cod. pen.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso deve essere accolto limitatamente al terzo dei motivi sopra elencati, relativo alla circostanza aggravante di cui all’art. 571, comma secondo, cod. pen., mentre va rigettato nel resto, ossia sui punti concernenti la responsabilità dell’imputata per il delitto di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.

2. Rileva li Collegio che le premesse generali in diritto da cui hanno preso avvio i giudici del merito, di primo grado e di secondo grado, giungendo però ad opposte conclusioni, sono in linea con la “rilettura” che questa Corte ha fatto della fattispecie prevista dall’art. 571 c.p. (abuso dei mezzi di correzione o di disciplina), alla luce della Costituzione, del diritto di famiglia (introdotto dalla legge n. 151/1975 e succ. modd.), della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino (approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge n. 176/1991), a cominciare dalla reinterpretazione del termine ‘correzione’ nel senso di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo in cui è coinvolto un bambino (per tale dovendo intendersi un soggetto in evoluzione, ossia una persona sino all’età di 18 anni, secondo la definizione della predetta Convenzione ONU).

Come è stato già affermato in una risalente sentenza di legittimità (Cass. n. 4904/1996, Rv. 205033), dal processo educativo va bandito ogni elemento contraddittorio rispetto allo scopo e al risultato che il nostro ordinamento persegue, in coerenza con i valori di fondo assunti e consacrati nulla Costituzione della Repubblica.

Non può ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, distintamente finalizzata a scopi ritenuti educativi: e ciò sia per il primato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, tolleranza, convivenza e solidarietà, utilizzando mezzi violenti e costrittivi che tali fini contraddicono.

Come ha esattamente sottolineato il Tribunale, l’abuso ha per presupposto logico e necessario l’esistenza di un uso lecito: l’abuso del mezzo di correzione si pone come abuso di un potere di cui alcuni soggetti sono titolari nell’ambito di determinati rapporti (di educazione, istruzione, curva, custodia, etc.), potere che deve essere esercitato nell’interesse altrui, ossia di coloro che possono diventare soggetti passivi della condotta.

Con più particolare riferimento all’ambito scolastico, il concetto di abuso presuppone l’esistenza in capo al soggetto agente di un potere educativo o disciplinare che deve essere usato con mezzi consentiti in presenza delle condizioni che ne legittimano l’esercizio per le finalità ad esso proprie e senza superare i limiti tipicamente previsti dall’ordinamento.

Ne consegue che, da un lato, non ogni intervento correttivo o disciplinare può ritenersi lecito sol perché soggettivamente finalizzato a scopi educativi o disciplinari; e, d’altro lato, può essere abusiva la condotta, di per sé non illecita, quando il mezzo è usato per un interesse diverso da quello per cui è strato conferito, per esempio a scopo vessatorio, di punizione esemplare, per umiliare la dignità della persona sottoposta, per mero esercizio d’autorità o di prestigio dell’agente, etc.

Sotto altra profilo, la nozione giuridica di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina non può ignorare l’evoluzione del concetto di “abuso sul minore”, che si è andato evolvendo e specificando nel tempo. Da una sorpassata e limitativa nozione di abuso, inteso come comportamento attivo dannoso sul piano fisico per il bambino, l’attuale cultura giuridica e quella medica e psicologica qualificano come abuso anche quello psicologico, correlato allo sviluppo di numerosi e diversi disturbi psichiatrici.

Costituisce abuso punibile a norma dell’art 571 cod. pen. (e che, nella ricorrenza dell’abitualità e del necessario elemento soggettivo, può integrare arche il delitto di maltrattamenti) anche il comportamento doloso che umilia, svaluta, denigra o violenta psicologicamente un bambino, causandogli pericoli per la salute, anche se è compiuto con soggettiva intenzione educativa o di disciplina (Cass. n. 16491/2005).

3. Tanto premesso, osserva il Collegio che in questa sede non può essere posta in discussione – salvo quanto si dirà con riferimento alla circostanza aggravante di cui all’art. 571 comma secondo cod. pen. – la ricostruzione della vicenda operata dalla Corte d’appello, a rettifica di quanto ritenuto dal giudice di primo grado, in considerazione della completezza, coerenza e logicità della motivazione della sentenza impugnata.

La Corte palermitana, in adesione ai principi di diritto sopra indicati, ha ritenuto che la condotta dell’imputata ha integrato oggettivamente la fattispecie del delitto in esame.

Manifestamente infondato è, pertanto, il secondo motivo di ricorso. Delle lucide argomentazioni della sentenza impugnata (che dà atto delle perspicue considerazioni generali svolte dal Tribunale, evidenziandone l’incoerenza delle conclusioni), deve particolarmente sottolinearsi l’affermata necessità che, la risposta educativa dell’istituzione scolastica sia sempre proporzionata alla gravità del comportamento deviante dell’alunno e che, in ogni caso, essa non può mai consistere in trattamenti lesivi dell’incolumità fisica o afflittivi della personalità dei minore.

Opportunamente la Corte territoriale evidenzia la severa presa di distanza dalla condotta tenuta dall’imputata operata dalla preside, che ammonì per iscritto l’insegnante per quanto aveva fatto e rimarcò, a presidio della missione della scuola, che «certe espressioni nei confronti degli: alunni noi non possiamo permettercele […]. Altrimenti abbiamo fallito nel nostro ruolo».

A commento di tale lucida consapevolezza da parte del dirigente dell’istituzione scolastica in cui la presente vicenda ebbe luogo, si può soltanto aggiungere che, nel processo educativo, essenziale è la congruenza tra mezzi e fini, tra metodi e risultati, cosicché diventa contraddittoria la pretesa di contrastare il bullismo con metodi che finiscono per rafforzare il convincimento che i rapporti relazionali (scolastici o sociali) sono decisi dai rapporti di forza o di potere.

La costrizione a scrivere cento volte la frase sopra riportata, lesiva della dignità dell’alunno e umiliante per le modalità di esecuzione (in classe, alla presenza dei compagni e con richiesta di sottoscrizione dei genitore per presa conoscenza), lungi da indurre nel C. sentimenti di solidarietà verso i soggetti vulnerabili, era obiettivamente idonea a rafforzare nel ragazzo il convincimento che i rapporti relazionali sono regolati dalla forza, quella sua verso i compagni più deboli, quella dell’insegnante verso di lui.

4. Con il primo motivo il ricorrente contesta la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, assumendo che la scelta dell’insegnante di modificare la punizione inflitta all’alunno (riducendola, dall’iniziale ordine di scrivere cento volte la frase “sono un emerito deficiente” all’espressione “sono deficiente”, dopo che il ragazzo aveva domandato se doveva scrivere anche il termine “emerito”) ha un’importanza fondamentale per valutare favorevolmente la condotta dell’insegnante, escludendone l’intento abusivo.

A prescindere dalla considerazione che per l’integrazione dell’elemento soggettivo del reato in esame è sufficiente il dolo generico, senza necessità di dolo specifico (Cass. n. 18289/2010, Rv. 247368; n. 45467/2010, Rv. 249216; n. 4904/1996, Rv. 205033), rileva il Collegio che il votivo è inammissibile, integrando una censura all’apprezzamento di fatto operato dai giudici, di cui in sentenza si da conto con motivazione giuridicamente corretta e indenne da vizi logici.

La Corte territoriale ha dedotto dalle dichiarazioni rese dalla stessa insegnante «la dimostrazione della sua consapevolezza d’offendere il minore», avendo l’imputata precisato in dibattimento «di avere usato la parola “deficiente” perché gli alunni la “usavano tra di loro” e riteneva, quindi, che fosse comprensibile”».

Tenuto conto del difficile ambiente circostante e del livello culturale della scuola, la Corte palermitana ha condivisibilmente tratto la conclusione che il termine ‘deficiente non fu usato, come l’insegnante aveva inizialmente preteso di giustificare alla polizia giudiziaria, nel senso etimologico dì “carente, scarso o manchevole”, bensì in quello corrente e spregiativo di “imbecille, cretino o stupido”.

Conferma di tale intento la Corte d’appello ha individuato nella condotta successiva dell’imputata, che – dopo che il padre del C. aveva protestato per la punizione inflitta al figlio – aveva richiesto agli alunni di esprimere su bigliettini le valutazioni sull’accaduto. Plausibilmente, i giudici d’appello annotano che «l’iniziativa dei bigliettini può essere considerata un atto ulteriormente vessatorio nei confronti del C., in contrasto con i più elementari principi in materia di scienza pedagogica, giacché ha di fatto determinato, anche per la messa in discussione dell’intervento tutelante del padre del minore, una situazione di contrapposizione e di conflitto tra il medesimo e la quasi totalità dei compagni, col conseguente suo isolamento rispetto al gruppo”. A tali condivisibili considerazioni, il giudice d’appello, aggiunge anche le minacce rivolte al C. di allontanarlo dai genitori.

5. Va accolto, invece, l’ultimo motivo formulato dal difensore ricorrente, che censura la sentenza per avere «ritenuto provato il disturbo del comportamento causato dalla condotta dell’insegnante attraverso la probabilità” avanzata dallo psicologo.

Osserva il Collegio che per l’integrazione della fattispecie delineata dall’art. 571, comma 1, cod. pen. è sufficiente che dalla condotta dell’agente derivi il pericolo di una malattia fisica o psichica, che può essere desunto anche dalla natura stessa dell’abuso, secondo le regole della comune esperienza (Cass. n. 6001/1998, Rv. 210535) ovvero della scienza medica o psicologica, senza necessità, trattandosi di tipico reato di pericolo, che questa si sia realmente verificata.

Sussiste il pericolo di malattia nella mente ogni qualvolta ricorre il concreto rischio di rilevanti conseguenze sulla salute psichica del soggetto passivo. Ed è opinione comune nella letteratura scientifico-psicologica che metodi di educazione rigidi ed autoritari, che utilizzino comportamenti punitivi violenti o costrittivi, come quelli realizzati dall’imputata, siano pericolosi e talora e, in determinate condizioni anche dannosi per la salute psichica (Cass. n. 16491/2005, Rv. 231452).

Per l’integrazione dell’ipotesi aggravata prevista dal secondo comma dell’art. 571 cod. pen. occorre, invece, la sicura prova della lesione fisica o psichica, che non può ritenersi raggiunta dalla probabilità e tanto meno dalla mera possibilità di essa.

La sentenza in esame ha valorizzato la diagnosi (“disturbo acuto da stress”) formulata dallo psicologo dr C. che, sentito dalla polizia giudiziaria, affermò che «tale disturbo poteva essere stato causato dal comportamento dell’insegnante” (pag. 29 della sentenza impugnata).

Non essendo, dunque, stata raggiunta la prova della lesione, la sentenza deve essere annullata sul punto, senza necessità, tuttavia, di annullamento con rinvio. Adottando, infatti, gli stessi parametri della Corte d’appello, la pena può essere determinata da questa Corte in 15 giorni di reclusione (pena base giorni 23, meno un terzo per il rito abbreviato).

 

P.Q.M.

 

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla ritenuta aggravante, che esclude, rideterminando la pena in 15 giorni di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso.



[1] Trib. Palermo, 27 giugno 2007, giud. P. Morosini.

[2] Cfr., Trib Palermo, cit.

[3] I giudici d’appello, ricostruendo la vicenda, hanno innanzitutto messo in discussione la situazione di bullismo evocata nella sentenza di primo grado e hanno escluso in fatto che a C. «potesse essergli addebitata un’azione di “sistematica derisione” né “un tentativo di emarginazione” in danno del compagno», aggiungendo poi che G.C. «non era un ragazzino problematico», bensì «un alunno intelligente, vivace, ubbidiente, che non creava problemi particolari … In sostanza, un minore con una personalità che non presentava alcun tratto negativo, e non necessitava di interventi particolarmente rigorosi». Inoltre, il testo composto dalla ripetizione della frase contenente l’espressione offensiva doveva essere firmato dai genitori, sottoponendo il giovane studente ad una ulteriore umiliazione.

[4] La Convenzione ONU sui diritti del bambino è stata ratificata dall’Italia con la l. 176/91.

[5] Infatti, il termine ‘correzione’ va interpretato, alla luce di quanto premesso nel testo, nel senso di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo in cui è coinvolto un bambino (per tale dovendo intendersi un soggetto in evoluzione, ossia una persona sino all’età di 18 anni, secondo la definizione della predetta Convenzione ONU). Come è stato già affermato in una risalente sentenza di legittimità (Cass. n. 4904/1996, Rv. 205033), dal processo educativo va bandito ogni elemento contraddittorio rispetto allo scopo e al risultato che il nostro ordinamento persegue, in coerenza con i valori di fondo assunti e consacrati nulla Costituzione della Repubblica.

[6] Il riferimento principale è al DPR 22 settembre 1988, n. 448.

[7] Al G. veniva impedito di recarsi nella toilette per uomini, e proprio il C. lo aveva offeso con espressioni del tipo “non puoi entrare qui, sei gay sei una femmina”.

 

[8] Dagli atti processali emerge che ella ammonì per iscritto l’insegnante per quanto aveva fatto e rimarcò, a presidio della missione della scuola, che «certe espressioni nei confronti degli: alunni noi non possiamo permettercele […]. Altrimenti abbiamo fallito nel nostro ruolo».

[9] Olweus D., ‘Personality and aggresion’, in Cole J.K., Jensen D.D., (eds), Nebraska Simposium on Motivation, University of Nebraska Press, Lincoln, 1973; Olweus D., Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti, Firenze, 1996.

[10] Fornisce una panoramica  semplice e molto efficace del fenomeno, Civita A., Il bullismo come fenomeno sociale. Uno studio fra devianza e disagio minorile, Collana di Sociologia, FrancoAngeli editore, 2006. Si veda la ricca appendice bibliografica ivi presente.

[11] Nella regione scandinava, in particolare in Norvegia e in Danimarca, questo fenomeno è indicato col termine mobbing mentre in Svezia e in Finlandia si utilizza il termine mobbning. Secondo l’etimologia, la parola mob si riferisce ad un gruppo di persone coinvolte in azioni di molestie; è utilizzato anche per indicare colui che critica, molesta o picchia una persona.

[12] Così, Caravita  S. e Ardino V., Rappresentazione del comportamento prepotente e del ‘prepotente’, in Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria, LIX, 5 sett-ott 1998, pp. 554-563.

[13] Il ricercatore norvegese si occupò del fenomeno a partire da un fatto di cronaca: due ragazzini si erano suicidati perché non erano più in grado di sopportare le continue offese loro rivolte da alcuni compagni di classe. Si veda Olweus D., Mobbning – vad vi vet och vi kan gora, Liber, 1986, Stockholm; id., Bully/victim problems among schoolchildren: Basic fats and effects of a school based intervention program, in Pepler D., Rubin K. (eds), The development and treatment of childhoot aggression, Erlbaum, Hillsdale, New Jersey.

[14] Lawson S., Il bullismo. Suggerimenti utili per genitori e insegnanti, Editori Riuniti, Roma, 2001; Smith P.K., Il bullismo, in AA.VV., Il bullismo nella scuola. Programma di formazione continua per docenti, Sapere 2000, Edizioni multimediali srl, Roma, 2001.

[15] Il bullismo può essere diretto e indiretto; fisico e verbale; malevolo o non malevolo; nella dinamica della prevaricazione, intervengono varie figure con diversità di ruoli: sul punto, si rinvia a Civita A., cit., pag. 31 et ss.

[16] Così Fonzi A., Il bullismo in Italia. Il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia. Ricerche e prospettive di controllo, Giunti, Firenze, 1997. Nei piccoli centri, ad esempio, il ridotto numero degli studenti ne favorisce il controllo e l’integrazione, mediante il dialogo. Nei grandi centri urbani, si notano differenze fra i diversi quartieri.

[17] Caravita S., L’alunno prepotente. Conoscere e contrastare il bullismo nella scuola, Editrice La Scuola, Brescia, 2004.

[18] Questi ambienti mal organizzati favoriscono condotte bullistiche. Ad esempio, i bagni sono un luogo in cui gli studenti possono recarsi anche durante l’orario di svolgimento delle lezioni e, se essi sono ubicati fuori dalla portata degli insegnanti e dei bidelli, possono diventare il luogo privilegiato in cui commettere atti prevaricatori a danno degli studenti più deboli e indifesi. La stessa cosa accade nel caso in cui la scuola disponga di un cortile ridotto: in esso non si può svolgere adeguatamente un’attività ludica o sportiva, ci si annoia e il poco spazio a disposizione diventa un ambiente in cui conquistare un’area per sé e per il proprio gruppetto, a scapito degli altri.

[19] I docenti devono accettare l’esistenza del bullismo come problema da risolvere, cercando di assumere non un atteggiamento di indifferenza nella convinzione che parlare e affrontare il bullismo possa nuocere alla reputazione della scuola. Gli insegnanti devono perciò educare i propri alunni alla prosocialità, cioè a compiere azioni che aiutino i compagni in difficoltà, alla socializzazione, ad avere cioè buoni rapporti con i coetanei, e alla cooperazione, cioè ad avere fiducia negli altri.

[20] In certi limiti, la condizione di anomia e, più in generale, di ribellione è tipica della fase adolescenziale.

[21] Si veda la nota n. 8 a pag. 8.

[22] Per tutti, si veda Lagerspetz K. M.,e coll., Group aggression among school children in three schools, in ‘Scandinavian Journal of Psycology’, XXIII, pp. 45-52, 1982.

[23] Come hanno osservato Baldry e Farrington, buona parte dei maschi che commettono prepotenze nella scuola, fuori di essa attuano condotte devianti come il vandalismo e l’abuso di sostanze. Non è dato sapere nulla sulla vita extrascolastica dell’autore delle condotte prevaricatorie di cui alla sentenza in commento e perciò nulla si può dire: tuttavia, l’osservazione fatta dai due sociologi merita considerazione per l’attenzione che pongono sul contesto extrascolastico in cui il giovane vive, una volta terminata la giornata a scuola. E se nel quartiere domina una logica improntata a sentimenti di prepotenza e di prevaricazione, il giovane non potrà  che farsi, suo malgrado, portatori di tali valori (o disvalori, secondo il punto di vista che si predilige). Diffusamente, si veda Baldry A.C., Farrington D.P., Bullies and delinquents: Personal characteristics and parental styles, in ‘Journal of Community and Applied Social Psycology’, 10, pp. 17 – 31.

[24] Cfr. nota n. 16.

[25] Gofman parla della ‘profezia che si avvera’: cfr. Gofmann E., Stigma, Ombre corte, 1963, p. 157 ss.

Di admin

Lascia un commento

Help-Desk