Cassazione penale sezione IV sentenza 22 marzo 2012 n 11197
Amianto, lavoratore, morte, fumatore, nesso causale, accertamento, concause

La quarta sezione penale

Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 14/11/2007 il Tribunale di Cuneo condannava, per omicidio colposo in
danno dell’operaio T.B., C. G., B.G., B.I., P.L. e M.R.
Agli imputati veniva addebitato che nelle rispettive qualità, il C.G. di legale rappresentante
della ditta Michelin Italiana s.p.a. di Cuneo (nel periodo compreso tra il 10.1.1969 ed il
30.9.1979) nonchè di capo servizio della centrale termica dello stabilimento di Cuneo della
predetta ditta (dal 7.8.1963 al 31.12.1966); il B.G. di legale rappresentante della predetta ditta
(nel periodo compreso tra il 1.10.1979 e l’11.10.1987); il M.R. di legale rappresentante della
predetta ditta (nel periodo compreso tra il 12.10.1987 e l’11.12.1994); il B.I. di capo servizio
della centrale termica dello stabilimento (dall’1.1.1967 al 30.6.1988); il P. L. di capo servizio
della centrale termica dello stabilimento (dall’1.7.1988 al 31.12.1994); avevano cagionato la
morte per cachessia neoplastica da adenocarcinoma polmonare del predetto T.B., dipendente
della Michelin addetto a vari incarichi che avevano comportato la esposizione ad amianto
presso la centrale termica dello stabilimento di Cuneo dall’1.10.1967 al 31.12.1994, ciò per
colpa, consistita in negligenza, imprudenza, imperizia ed inosservanza di specifiche leggi e
regolamenti in materia di igiene sul lavoro (R.D. 14 aprile 1927, n. 530, art. 17; art. 2087 c.c.;
L. 12 aprile 1943, n. 455, art. 5, lett. a), b), c) e d); D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 21; D.P.R.
27 aprile 1955, n. 547, artt. 377 e 387; D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 157-176; nonchè .

con riferimento al periodo successivo al settembre 1995 – art. 5, lett. a), b), c), d), e), f), art. 24;
D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, artt. 26, 27, 28) in quanto avevano omesso di adottare tutti i
provvedimenti tecnici organizzativi, procedurali, igienici necessari per contenere l’esposizione
all’amianto (quali la regolare e sistematica pulitura dei locali, delle attrezzature e degli
impianti a mezzo di aspiratori adeguati; impianti localizzati di aspirazione;
limitazione dei tempi di esposizione; procedure di lavoro atte ad evitare la manipolazione
manuale, lo sviluppo e la diffusione dell’amianto); nonchè di curare la fornitura e l’effettivo
impiego di mezzi personali di protezione, di far sottoporre i lavoratori ad adeguato controllo
sanitario mirato sul rischio specifico da amianto, di informarsi e informare gli stessi circa i
rischi specifici derivanti dall’amianto e circa le misure per ovviare a tali rischi (decesso acc. in
(OMISSIS)). 2. Con sentenza del 12/10/2010 la Corte di Appello di Torino, dopo avere rigettato alcune
eccezioni di natura processuale ed aver dichiarato estinto il reato a carico del B. per morte
dell’imputato, confermava la pronuncia di condanna.
Osservava la Corte distrettuale che la responsabilità degli imputati emergeva dall’istruttoria
dibattimentale svolta. In particolare:
– il T. era stato al lavoro presso lo stabilimento di Cuneo dal 1963 al 31/12/1994;
– dal 1967 era stato addetto al reparto Centrale Termica, ove, nel 1996 era stata accertata
dall’INAIL la presenza di amianto nella coibentazione, nelle guarnizioni e nei freni motore;
– tra i compiti del T. vi era la rimozione della coibentazione, costituita da materassini di lana
rivestiti di amianto, così come le guarnizioni;
– nel 1999 la “Michelin” aveva rimosso parte delle coibentazioni contenenti amianto e l’ASL e
l’ARPA Piemonte (Agenzia Regionale Protezione Ambientale) avevano accertato che i campioni
prelevati contenevamo amianto di tipo crocidolite e crisotilo;
– dall’esame di due vetrini e di un blocchetto di parenchima polmonare della vittima, il perito
nominato dal G.I.P. (dr. P. P.) aveva rilevato che questi era affetto da “asbestosi polmonare di
grado 2 con carcinoma”; inoltre era stata rilevata la presenza di 4.732 corpuscoli di asbesto per
grammo di tessuto polmonare secco; tali circostanze erano state confermate dai periti
nominati dal Tribunale (dr. G. N. e G. P.);
– dagli esami istologici e dalle deposizioni raccolte era emersa la rilevante esposizione
all’amianto del T. e la inesistenza di ipotesi alternative alla contrazione della malattia che
aveva portato al decesso la vittima, non potendo il fumo di sigarette costituire causa della
grave patologia.
Sulla base di tali circostanze la Corte di merito riteneva confermata la sussistenza del nesso
causale tra le colpose condotte omissive degli imputati e l’evento, ritenendo le pene irrogate
congrue ed il delitto non ancora prescritto.
3. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore degli imputati
lamentando:
3.1. la violazione di legge ed in particolare dell’art. 223 disp. att. c.p.p. laddove la Corte di
merito aveva ritenuto la utilizzabilità del verbale delle analisi dell’ARPA Piemonte del
23/2/2000, compiuto nell’esercizio di poteri ispettivi e di vigilanza, senza il rispetto delle
garanzie di cui all’art. 223 cit.
3.2. Il difetto di motivazione laddove la Corte aveva ritenuto provata la esposizione del T. alle
polveri di amianto. Infatti a tale esposizione erano sicuramente sottoposti i manutentori, ma
non il T., il quale aveva svolto funzioni di calderaio e da ultimo da fuochista, mansioni queste
che non comportavano la manipolazione dell’amianto se non per trascurabili e sporadici
interventi. La stessa INAIL aveva attestato che il rischio professionale era riferibile solo ai

manutentori. Tali circostanza non erano state contraddette dai testi N. e P., a cui
genericamente si era richiamata la sentenza di appello. Nè alcuna certezza era stata offerta
dalle perizie svolte innanzi al G.I.P. ed al Tribunale.
Invero nel tessuto polmonare del T. erano stati rinvenuti 4.732 corpuscoli ferruginosi e che con
certezza non potevano essere definito corpuscoli di asbesto. Su ciò aveva convenuto in
dibattimento anche il perito d.ssa Ma., la quale aveva riferito che solo due corpuscoli con
certezza scientifica erano riconducibili all’amianto. Peraltro nel tessuto polmonare non erano
state rinvenute fibre di tipo crisotilo, tipologia di amianto presente nello stabilimento della
Michelin di Cuneo.
3.3. Il difetto di motivazione in ordine alla affermata certezza che la fibrosi polmonare
riscontrata nel T. fosse dovuta all’asbestosi e non invece riconducibile, come con dovizia di
argomenti sostenuto dal C.T. della difesa (dr. C.), a fibre di titanio ed al polveri da fumo di
sigarette. La presenza di tali elementi era stata sbrigativamente degradata dalla corte di
merito, ad eventuali mere concause, invece che a fattori alternativi ed esclusivi della malattia.
3.4- Il difetto di motivazione in ordine alla affermata certezza che il carcinoma polmonare
fosse frutto di eventuale patita asbestosi, a fronte di una seria causa alternativa, quale il fumo
di sigarette protrattosi per circa 40 anni (15 sigarette al giorno); in ogni caso anche la
affermazione della concausalità era sprovvista di motivazione. Inoltre carente era il tessuto
argomentativo della sentenza, laddove non aveva individuato la specifica causalità della
condotta dei singoli imputati, succedutisi nel tempo nella carica, anche per brevi periodi.
3.5. La erronea applicazione della legge penale in tema di nesso causale, laddove il giudice di
merito partendo da valutazioni di carattere epidemiologico e di causalità generale, non aveva
adempiuto all’obbligo di motivazione della concreta causalità materiale ed in particolare in
relazione all’effetto acceleratorio delle esposizioni all’amianto, unica strada questa per
giungere alla affermazione della penale responsabilità degli imputati in modo indifferenziato.
3.6. La erronea applicazione della legge, laddove la corte aveva ritenuto di non riconoscere la
prevalenza delle attenuanti generiche per il C. ed il P. Inoltre per non avere disposto la
sostituzione della pena detentiva, con riferimento a P., B. e M.
3.7. La erronea applicazione della legge penale, laddove la Corte aveva revocato il beneficio
della sospensione condizionale della pena concesso per le sentenze del Pretore di Torino del
17/3/1999 e del Tribunale di Torino del 18/7/2001. Infatti con quest’ultima sentenza era stato
riconosciuto il vincolo del concorso formale tra i due reati, per cui la odierna condanna non
doveva condurre alla revoca della sospensione ai sensi dell’art. 168 cod. pen., comma 1, n. 1 e
neanche ai sensi del n. 2 non essendo stata superata la soglia dei due anni e ciò consentiva di
mantenere il beneficio.

Motivi della decisione
4. La censura di natura processuale formulata, relativa alla affermata utilizzabilità degli esiti
degli accertamenti svolti dall’ARPA nell’azienda, senza il rispetto delle garanzie difensive, è
infondata.
Va premesso che effettivamente questa Corte di legittimità ha statuito che “In tema di analisi
di campioni nel corso di attività ispettive o di vigilanza per le quali non sia prevista la
revisione, il mancato avviso all’interessato del giorno, dell’ora e del luogo delle analisi rende
inutilizzabili i risultati ed i relativi verbali non possono essere raccolti nel fascicolo per il
dibattimento” (Cass. sez. 3, Sentenza n. 15372 del 10/02/2010 Cc. (dep. 22/04/2010), Rv.
246600; Cass. Sez. 6, Sentenza n. 36695 del 06/10/2010 Ud. (dep. 13/10/2010), Rv. 248527). Nel
caso di specie però, va evidenziato che l’ARPA ebbe a recarsi presso io stabilimento della
“Michelin” non per svolgere attività di ispezione e controllo, ma, come dalla stessa difesa degli
imputati ricordato, per gli adempimenti di cui al D.Lgs. n. 277 del 1991, art. 34. Prevede tale
norma che il datore di lavoro predispone un piano di lavoro prima dell’inizio dei lavori di
demolizione o di rimozione dell’amianto, ovvero dei materiali contenenti amianto, dagli edifici,
strutture, apparecchi e impianti, nonchè dai mezzi di trasporto. Il piano di cui al comma 1
prevede le misure necessarie per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori e la
protezione dell’ambiente esterno”. La disposizione continua prevedendo che l’organo deputato
a valutare l’adeguatezza del piano (nel caso di specie l’ARPA), possa anche disporre specifiche
prescrizioni di sicurezza. Ne consegue da quanto detto che gli accertamenti furono svolti non a
sorpresa, in adempimento di compiti di controllo e repressione, ma secondo una procedura
attivata dalla stessa impresa che aveva chiesto all’ARPA l’avallo del piano di demolizione e
rimozione dell’amianto che, pertanto, implicitamente già si ammetteva essere presente in
azienda.
Pertanto, mancando il presupposto dell’applicabilità dell’art. 223 disp. att. c.p.p. e cioè che, ai
sensi dell’art. 220 disp. att. c.p.p. si sia trattato di attività ispettiva e di vigilanza diretta ad
acquisire indizi di reato; essendo stata svolta, invece, detta attività su stimolo della stessa
impresa, coinvolta nella procedura del citato art. 34, insussistente è la violazione di legge
lamentata e, conseguentemente correttamente il giudice di merito ha ritenuto utilizzabili gli
accertamenti svolti dall’ARPA. 5. Inammissibile è il motivo di censura relativo al difetto di
motivazione circa l’esposizione all’amianto del lavoratore deceduto T.
Nel ricostruire la vita lavorativa della vittima, il giudice di merito ha evidenziato che:
– il T., aveva lavorato nello stabilimento di Cuneo della “Michelin Italiana” s.p.a. dal 1963 al
1995;
– era stato addetto, secondo le sue dichiarazioni, a “varie mansioni, principalmente come
conduttore di caldaie. All’occorrenza mi capitava di dover scoibentare tubazioni e valvole. Operavamo manualmente con martelli e scalpelli. Indossavamo delle mascherine antipolvere,
un modello bianco con due elastici che facevamo passare attorno alle orecchie. A fine lavoro,
quando le toglievo, sul naso e sul bordo della maschera, a contatto con la faccia, si depositava
uno spesso strato di polvere nera. Ricordo che queste operazioni erano molto polverose. La
tuta che indossavo veniva sostituita in media una volta la settimana. Le mascherine non
erano disponibili nei primi anni di servizio. Mi capitava sovente di andare nei vari reparti di
produzione dell’azienda per controllare o per eseguire lavori di manutenzione. Dall’età di 20
anni ho fumato circa 10 sigarette al giorno. Negli ultimi tempi ho smesso, dal novembre 2001.
Sono stato sottoposto a visite mediche di controllo con regolarità da parte dell’azienda. Il male
di cui soffro mi è stato diagnosticato dopo una radiografia eseguita per accertare la
funzionalità del cuore ..
– l’azienda (lettera in data 30/5/02), aveva dichiarato che il T. aveva lavorato dal 7/8/63 al 3
1/12/94 (data di pensionamento), con le seguenti mansioni: a) dal 7/8/63 al 31/12/66 addetto,
nel reparto “CX”, a lavorazione su macchina per confezione pneumatici per autovettura, in
particolare posando manualmente su apposito tamburo rotante i vari componenti costituenti
la carcassa della copertura; b) dal 1/1/67 al 31/12/94, nel reparto “NF”, ricoprendo vari
incarichi nell’ambito della centrale termica dello stabilimento, quali: addetto alla conduzione
dell’impianto di trattamento acque di pozzo per alimentazione caldaie; addetto alla gestione
degli impianti per la produzione di fluidi tecnologici da utilizzare in produzione; calderaio di
guardia, con compiti quindi di controllo degli impianti di produzione fluidi e dei sistemi di
regolazione degli stessi all’esterno della centrale termica; addetto alla conduzione caldaia, con
compiti di controllo della funzionalità delle caldaie;
– dallo studio effettuato, nel dicembre 1996, dalla Con.ta.r.p. (Consulenza Tecnica di
Accertamento dei Rischi Professionali) della Direzione Regionale INAIL di Torino, volto ad
accertare la eventuale esposizione ad amianto, ai sensi della L. n. 257 del 1992, dei lavoratori
dello stabilimento di Cuneo della “Michelin Italiana”, era risultato che, in ordine al reparto
“NF-Centrale termica”, si era rilevata la presenza di amianto nella coibentazione, nelle
guarnizioni, nei freni motore; in detto reparto, sebbene non si svolgesse “lavorazione di
amianto”, veniva effettuata la manipolazione di alcuni manufatti contenenti amianto
necessario, nel reparto “NF” (Centrale termica), per produrre alcuni tipi di guarnizioni o
presente nelle calze di contenimento della coibentazione; in particolare, con riferimento alla
figura del manutentore della centrale termica, si rimarcava che gli interventi che potevano
mettere a contatto l’operatore con materiali amiantiferi erano quelli effettuati sulle reti di
distribuzione dei fluidi che andavano dalla centrale ai vari reparti di utilizzazione; interventi
riconducibili alla eliminazione di perdite che si verificano in corrispondenza degli organi di
intercettazione (valvole, saracinesche, giunti); il contatto con materiale contenente amianto

“deriva dalla necessità di rimuovere la coibentazione di tutti gli organi di intercettazione al
momento dell’intervento”; la coibentazione era sempre stata realizzata con “materassini” di
lana di roccia rivestiti da tessuto amiantato; l’intervento di eliminazione di perdite
comportava: la rimozione del materassino con eventuale copertura in lamierino; sbullonatura
delle flange dell’organo interessato; pulizia della facce delle flange per rimuovere la vecchia
guarnizione (spesso con materiale amiantato);
inserimento guarnizione nuova .., e serraggio delle flange;
rimontaggio del materassino coibente ed eventualmente chiusura del lamierino”; il tempo
necessario per tale complessiva operazione era stato indicato dall’azienda in circa 45 minuti;
invece computato in circa 1,30 ore dall’Inail ai fini del calcolo dei valori di esposizione; dal
materiale rinvenuto in azienda, si rilevava che nel periodo 1980- 1992 erano state montate
14.422 guarnizioni pretagliate, e 2.520 guarnizioni realizzate in stabilimento servendosi dei
fogli acquistati. Complessivamente 16.942 guarnizioni;
l’Inail aveva accertato che l’attività media per anno di ciascun manutentore, in quella
occupazione, era di 41 ore, ridotta a 38 ore se si teneva conto dell’intervento di rimozione dei
materassini da parte dei conduttori della centrale termica. Donde, secondo quello studio, la
conclusione che “per i lavoratori degli stabilimenti produttivi Michelin addetti alla
manutenzione di centrale termica e linee di distribuzione e dei conduttori di centrale non
sussistano le condizioni di esposizione all’amianto per essere ammessi ai benefici previsti dalla
L n. 257 del 1992;
– da altra documentazione aziendale era emerso che la “Michelin Italiana” di Cuneo, aveva
affidato alla “SCAMIC” s.n.c., nell’anno 1999, la rimozione del tessuto in amianto, imbottito di
lana di roccia, costituente la coibentazione di valvole, saracinesche ecc. a servizio di tubazioni
di trasporto vapore, e per la sostituzione dello stesso con coibentazioni prive di amianto e che
per far ciò (come sopra detto), era necessaria l’approvazione del Piano di lavoro ai sensi del
D.Lgs. n. 277 del 1991, art. 34. Nell’ambito della relativa istruttoria, da parte di personale
dello “Spresal” (Servizio Prevenzione Sicurezza Ambienti di Lavoro) dell’ASL (OMISSIS) e
dell’Arpa Piemonte, unitamente a personale della “Michelin Italiana” e della soc. “Scamic”,
erano stati svolti sopralluoghi e prelievi campioni.
L’analisi di tali campioni aveva consentito di accertare che quello costituito da ammasso
fibroso di colore bruno e da un frammento di cordicella di colore blu conteneva amianto del
tipo crocidolite; il secondo campione, costituito da ammasso fibroso di colore bruno e da due
frammenti di cordicella di colore bianco, conteneva amianto del tipo crisotilo;
– a seguito di perizia svolta in sede di udienza preliminare, il perito aveva concluso in termini
di certezza circa l’esposizione all’amianto del T. nel periodo di lavora dal 1967 al 1994,
evidenziando che, dall’analisi su due vetrini ed un blocchetto di parenchima polmonare del T.,

quest’ultimo risultava affetto da “asbestosi polmonare di grado 2 in polmone con carcinoma
…”;
inoltre sul tessuto polmonare risultavano presenti 4.480 corpuscoli di asbesto per grammo di
tessuto;
– tale perizia, in sede dibattimentale, veniva ritenuta essere stata svolta irritualmente.
Pertanto veniva disposta una nuova perizia, per acclarare la presenza di asbesto attraverso
esami qualitativi da svolgere con microscopia elettronica;
– all’esito degli accertamenti il perito prof.ssa Ma. aveva rilevato che nel tessuto polmonare del
T. erano presenti fibre di asbesto, identificate, con analisi chimica e cristallografica, come fibre
di tremolite e crocidolite, nonchè “corpi ferruginosi morfologicamente del tipo dei “cosiddetti
corpuscoli dell’asbesto” con involucro costituito da ferro e “core” centrale costituito da fibra di
crocidolite che devono pertanto essere considerati come veri corpuscoli dell’asbesto; analoghe
fibre di tremolite erano state reperite nei campioni di membrana in cui è anche stato reperito
un corpo ferruginoso con core centrale costituito da fibra su cui non è stato possibile valutare
la composizione chimica ma con pattern di diffrazione tipico degli asbesti anfiboli. Le analisi
svolte permettevano di identificare nell’asbesto stesso il possibile agente causale della fibrosi
polmonare risultata compatibile, sulla base del quadro istologico, con la diagnosi di asbestosi
polmonare di grado 2.
– l’altro perito, dott. P. aveva concluso nel senso che “l’esame dei preparati istologici dimostra
che il signor T. B. era affetto dalle seguenti lesioni polmonari: carcinoma polmonare
anaplastico a grandi cellule, con aspetti a cellule giganti e sarcomatoidi; fibrosi polmonare con
presenza di corpi ferruginosi morfologicamente del tipo dei cosiddetti corpuscoli dell’asbesto; il
quadro istologico, quando sia accertata, mediante analisi mineralogica con esame
ultrastrutturale, la presenza di asbesto nei corpuscoli stessi, è compatibile con una diagnosi di
asbestosi polmonare di grado 2”;
– aveva riferito ancora il perito che “nel tessuto polmonare … sono stati reperiti, per grammo di
tessuto polmonare secco, 4.732 corpuscoli ferruginosi morfologicamente del tipo dei cosiddetti
corpuscoli dell’asbesto; sono inoltre stati reperiti, con la stessa tecnica, 3.136 frammenti di
corpuscoli dello stesso tipo, per grammo di tessuto polmonare secco”.
– il teste N., collega di lavoro del T., aveva riferito che quest’ultimo era stato addetto alla sala
fluidi e poi come fuochista; scendeva a fare controlli e piccoli lavori, venendo a contatto con i
“materassini” contenenti amianto utilizzati per riparare le perdite e per le coibentazioni.
Aveva riferito, inoltre che l’azienda all’inizio non li aveva informati specificamente sulla
presenza dell’amianto, circostanza che era divenuta nota solo negli ultimi anni;
– il teste P., collega di lavoro della vittima, aveva riferito che il T. all’inizio faceva il calderaio,
poi era andato a lavorare nella sala fluidi, poi era andato a lavorare in manutenzione in sala

caldaie. Aveva anche svolto lavori di sostituzione dei “materassini”. Anche tale teste aveva
riferito che non aveva ricevuta una specifica informazione della presenza dell’amianto in
azienda;
– il teste S., lavoratore, aveva riferito che la vittima aveva lavorato presso l’impianto di
trattamento acque e poi come calderaio. Non doveva compiere lavori di manutenzione ma di
controllo. Doveva limitarsi a controllare le perdite sulle valvole e sulle tubazioni, aprendole e
poi chiamando la manutenzione;
– il teste M.P., responsabile della centrale termica, escludeva che la vittima fosse stata addetta
a lavori di manutenzione.
Da tutto ciò ha ritenuto il giudice di merito (la Corte di Appello, richiamando sul punto le
argomentazioni del Tribunale) che il T. era stato esposto significativamente all’amianto che,
nella forma della crocidolite e del crisotilo si trovava nei tessuti dei materassini di
coibentazione delle valvole e nelle guarnizioni, che si trovavano sia all’interno della centrale
termica, ove egli operava, che nei reparti nei quali si recava per i controlli della rete di
distribuzione dei fluidi. L’aereodispersione di fondo delle fibre si era sommata a quella inalata
in conseguenza delle operazioni di rimozione dei materassini in occasione della individuazione
di perdite, compito di spettanza del calderaio e del secondo fuochista.
La significativa esposizione aveva trovato conferma nell’accertamento peritale, ripetuto a
dibattimento, nel corso del quale si era riscontrata l’esistenza di una fibrosi polmonare di
grado 2 e la presenza di 4.732 corpuscoli dell’asbesto per grammo di tessuto polmonare secco
(tra i criteri consolidati per definire un’esposizione professionale ad asbesto c’è appunto il
riscontro di corpuscoli di quel minerale in numero superiore a 1000 per grammo di tessuto
polmonare secco). Tale fibrosi era pertanto da attribuire alla esposizione ad asbesto e,
pertanto, corretto era definire come asbestosi la patologia di cui era portatore.
Ha osservato il giudice di merito che ulteriore riscontro, dell’esposizione e della inalazione
delle fibre, era risultato dall’esame condotto con microscopia elettronica che aveva evidenziato
nel parenchima polmonare e nella membrana la presenza di fibre di crocidolite e di tremolite,
la prima, come detto, contenuta in alcuni dei tessuti dei materassini, la seconda, comune
contaminante del crisotilo (che pure si trovava nei tessuti dei materassini di coibentazione)
minerale quest’ultimo che tende a degradarsi rapidamente. Nei motivi di ricorso la difesa degli
imputati ha reiterato i dubbi circa la effettiva esposizione del T. all’amianto ed alla presenza
di asbesto nei tessuto polmonare. Sul punto il giudice di merito ha fornito adeguata
motivazione, comparando le argomentazioni dei periti con quelle dei C.T. di parte, in modo
coerente respingendo i dubbi della difesa. Peraltro la mansioni del T., gli accertamenti
dell’Inail, gli accertamenti dell’Arpa, la perizia svolta erano tutte convergenti nell’affermare
che in azienda vi era una significativa presenza di amianto e che il T. era stato esposto alla

sua inalazione, sebbene l’Inail, in via generale e non con specifico riferimento al T., abbia
ritenuto che tale esposizione, in relazione elle ore di esposizione degli addetti al reparto
Centrale Termica, non consentisse di godere dei benefici della L. n. 257 del 1992.
Ne ha dedotto la Corte di merito che le omissioni colpose, che avevano determinato
l’esposizione, dovevano essere poste a carico di tutti gli imputati, in quanto costoro erano stati
titolari di specifiche posizioni di garanzia durante la vita lavorativa della vittima e pertanto
avevano determinato la riduzione dei tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie già
insorte, oppure accelerato i tempi di insorgenza, nel caso di affezioni insorte successivamente.
Le censure mosse dalla difesa alla sentenza su tali punti, esprimono solo un dissenso rispetto
alla ricostruzione del fatto (operata in modo conforme dal giudice di primo e secondo grado) ed
invitano ad una rilettura nel merito, non consentita nel giudizio di legittimità, a fronte di una
motivazione della sentenza impugnata che regge al sindacato di legittimità, non
apprezzandosi nelle argomentazioni proposte quei profili di macroscopica illogicità, che soli,
potrebbero qui avere rilievo.
6. Tralasciando per ora le doglianze relative all’affermata sussistenza del nesso causale, deve
ritenersi inammissibile anche la proposizione del motivo di censura relativo al ritenuto “effetto
acceleratorio” dell’esposizione all’amianto. Sul punto va fatta una premessa.
In tema di patologie correlate alla inalazione di fibre di asbesto (soprattutto con riferimento
mesotelioma pleurico ed ai carcinoma polmonare) nella comunità scientifica si confrontano
prevalentemente due opinioni. La prima fa leva sulla legge scientifica nota come “modello
multistadio della cancerogenesi”, secondo cui la formazione del cancro è un’evoluzione a più
stadi, la cui progressione è favorita dalle successive esposizioni al fattore cancerogeno: con la
conseguenza che l’aumento della dose di amianto inalata, è in grado di accorciare la latenza
della malattia e di aggravare gli effetti della stessa. Pertanto, secondo la teoria multistadio, il
tumore polmonare rappresenta una patologia “dose-correlata”, ossia il cui sviluppo, in termini
di rapidità e gravità, è condizionato dalla quantità di fattore cancerogeno inalato. Ciò consente
di ritenere che, a prescindere dal momento esatto in cui la patologia è insorta, tutte le
esposizioni successive e tutte le dosi aggiuntive devono essere considerate concause poichè
abbreviano la latenza e dunque anticipano l’insorgenza della malattia o l’aggravano (“effetto
acceleratorio”). Sulla base dell’accoglimento di tale teoria, si può giungere al riconoscimento
della responsabilità degli imputati, indipendentemente dal momento di assunzione della
posizione di garanzia e dalla durata della loro carica (purchè fosse operativa durante il periodo
di esposizione all’amianto dei lavoratori deceduti), ciò sull’assunto che fa loro condotta
omissiva ha ridotto i tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie già insorte, oppure
accelerato i tempi di insorgenza, nel caso di affezioni insorte successivamente. Alcune
sentenze di questa corte di legittimità hanno, in passato, dato atto della completezza e logicitàargomentativa delle sentenze di merito che avevano accolto la teoria di patologia “dose-

correlata” del mesotelioma pleurico (cfr. Cass. 4^, 988/03, Macola; Cass. 4^, 7630/05,
Marchiorello; Cass. 4^, 22165/08, Mascarin; Cass. 4^, 5117/08, Biasotti).
Secondo altre opinioni della evoluzione della malattia, non vi sarebbe alcun riscontro
scientifico della valenza della teoria della “dose-risposta”, che costituisce una mera ipotesi
priva di effettivi riscontri. La valenza degli studi sul punto è meramente di natura
epidemiologica sulla popolazione, ma non consente alcuna verifica in relazione alla ricerca
della causalità dei singoli decessi. Pertanto allo stato delle conoscenze della scienza non
sarebbe possibile risolvere il quesito della rilevanza causale delle dosi successive, assunte dopo
l’innesco della patologia (successive alla cd. “dose killer” ), anzi attendibili studi, escludono tale
rilevanza.
L’accoglimento di tale tesi non consentirebbe di giungere ad alcuna certezza del momento in
cui la vittima ha inalato l’unica e rilevante originaria fibra “killer”, con la conseguente
impossibilità di giungere al riconoscimento di chi degli imputati fosse responsabile delle
omissioni al momento del fatto, nel rispetto del principio che una condanna può essere
pronunciata solo “al di là di ogni ragionevole dubbio”, come peraltro espresso in alcune
sentenze della corte di legittimità (si cita a titolo esemplificativo, Cass. 4^, 5716/02, Covili).
Ciò premesso, va osservato che la problematica delle patologie da asbesto come “dose
correlate” o meno è stata fatta oggetto di uno specifico punto di ricorso per cassazione, ma non
era stata oggetto dei motivi di appello. Nell’atto di impugnazione di merito, infatti, gli
appellanti si sono diffusi sulla tematica del nesso causale, con esclusivo riferimento alla
riconducibilità all’asbesto della patologia polmonare, senza avanzare alcuna censura in ordine
alla sua qualificazione come patologia dose-correlata e, quindi, all’effetto acceleratorio. Ne
consegue che la doglianza formulata è inammissibile sotto due profili: perchè invoca un
accertamento di fatto non devoluto neanche al giudice di appello; inoltre perchè non possono
essere dedotti come motivo di ricorso per cassazione argomenti sui quali il giudice di appello
abbia correttamente omesso di pronunciare per non essere stati i relativi temi di indagine
devoluti alla sua cognizione, ciò in applicazione del terzo comma dell’art. 606 c.p.p. (cfr. Cass.
Sez. 1, Sentenza n. 2176 del 20/12/1993 Ud. (dep. 21/02/1994) Rv. 196414).
7. Deve ritenersi, invece fondato il motivo di ricorso relativo al difetto di motivazione in
relazione alla sussistenza del nesso causale tra esposizione del T. all’amianto e la patologia
tumorale contratta.
Va ricordato che il nesso causale è il legame necessario che deve intercorrere tra la condotta
umana e l’evento. In diritto penale si pretende che il reo abbia contribuito materialmente alla
verificarsi del risultato dannoso. E’ quindi criterio di “imputazione oggettiva” del fatto al soggetto, non solo la ascrivibilità a lui della condotta, ma anche che il risultato lesivo sia
“opera” dell’agente.
In tale ricerca è compito del giudice penale prendere atto che un evento non può che essere il
frutto di una pluralità di condizioni (per la maggior parte naturali) e successivamente valutare
se la condotta umana da indagare sia stata una condizione necessaria dell’evento.
A tal fine il giudice è chiamato a svolgere un giudizio “controfattuale” ipotetico e cioè contrario
alla realtà come realizzatasi: dovrà valutare se, eliminando la condotta umana posta in essere,
l’evento si sarebbe o meno realizzato. Se esso non si sarebbe realizzato, risulta dimostrato che
la condotta umana ha avuto efficienza causale nel modificare la realtà e quindi a produrre
l’evento. Poichè il giudizio da svolgere è ipotetico, è necessario per il giudice utilizzare dei
criteri scientifici onde valutare la regolarità degli accadimenti a fronte di determinate condotte
umane.
Tralasciando in questa sede l’analisi storica della evoluzione di tale tematica e, quindi, i
riferimenti alle varie teorie elaborate, si deve ricordare che gli approdi più recenti della
dottrina e della giurisprudenza in tema di nesso causale aderiscono alla cd. “teoria della
sussunzione sotto leggi scientifiche”, secondo cui un antecedente è condizione necessaria di un
evento, se rientra nel novero di quegli antecedenti che, secondo una successione regolare,
conforme ad una legge dotata di validità scientifica (cd. legge generale di copertura) determina
il verificarsi di quegli accadimenti. Tale teoria, essendo ancorata a leggi scientifiche generali,
consente di individuare i rapporti di successione “regolare” tra azione ed evento, inteso
quest’ultimo non come vicenda unica, ma ripetibile (“spiegazione causale generalizzante”,
finalizzata al rispetto di ineludibili esigenze di garanzia).
Le leggi scientifiche sono: “universali”, se spiegano la verificazione dell’evento in termini di
certezza senza eccezioni;
“statistiche”, che spiegano il ricollegarsi di un evento ad una determinata condizione solo in
termini di percentualistici. In proposito va ricordata quella giurisprudenza che, in passato, ha
ritenuto che “il rapporto di causalità deve essere accertato avvalendosi di una legge di
copertura, scientifica o statistica, che consenta di ritenere che la condotta, con una probabilità
vicina alla certezza, sia stata causa di un determinato evento … con coefficienti
percentualistici vicino a cento o quasi cento” (cfr. Cass. 4^, 14006/2001, Di Cintio).
Tale orientamento rispondeva all’esigenza di dare una spiegazione casuale compatibile con il
principio del “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ma la impossibilità di disporre di leggi universali
e la difficoltà concreta di poter sempre dare risposte probabilistiche con percentuali vicine alla
certezza, ha condotto, soprattutto la giurisprudenza, ad elaborare un nuovo criterio di
identificazione causale che, senza abbandonare la copertura delle leggi scientifiche, valorizza
anche la probabilità logica, distinguendo appunto tra “probabilità statistica” e “probabilità logica” : la prima riferita al “tipo” di evento; la seconda riferita al singolo “evento concreto” (cd.
“causalità individuale”).
In breve, la probabilità “statistica” indica il grado di frequenza con cui ad un antecedente
segue una conseguenza; la probabilità “logica”, premessa la presenza di una legge statistica,
indica nel caso concreto se con procedimento logico induttivo, sia da escludere la presenza di
fattori causali alternativi idonei a produrre l’evento.
Sul punto è illuminante la nota sentenza “Franzese” delle Sezioni Unite di questa Corte, ove è
stabilito che “Nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed
evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica,
ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicchè esso è
configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata
doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di
credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca
significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (sent. n. 30328/2002, Franzese).
Le Sezioni Unite, in sintesi, emancipano la identificazione del nesso causale dalla ricerca di un
sempre più alto coefficiente statistico di probabilità dell’evento, ancorando la ricerca alla
presenza della legge statistica ed alla assenza di fattori causali alternativi.
Come già ricordato in altre pronunce di questa Corte (cfr. Cass. 4^, 988/03, Macola; Cass. 4^,
4675/07, Baratalini), in quest’ottica, secondo la sentenza delle SS.UU. citata, non è sostenibile
che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche
universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico prossimo ad 100,
cioè alla “certezza”, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa
rispetto al singolo evento.
Le sezioni unite da questa considerazione traggono la conclusione che la “certezza processuale”
del nesso causale può derivare anche dall’esistenza di coefficienti medio bassi di probabilità cd.
frequentista quando corroborati da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza
nel caso concreto di altri fattori interagenti. Per converso livelli elevati di probabilità statistica
o addirittura schemi interpretativi dedotti da leggi universali richiedono sempre la verifica
concreta che conduca a ritenere irrilevanti spiegazioni diverse. Con la conseguenza che non è
consentito dedurre automaticamente – e proporzionalmente – dal coefficiente di probabilità
statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità.
E’ inadeguato, infatti, secondo la citata sentenza l’utilizzo di coefficienti numerici, mentre
appare corretto enunciarli in termini qualitativi per cui le sezioni unite hanno condiviso
quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che fa riferimento alla cd. “probabilità
logica” che, rispetto alla cd. probabilità statistica, consente la verifica aggiuntiva
dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica al singolo specifico evento. Solo con l’utilizzazione di questi criteri può giungersi alla certezza processuale sull’esistenza del
rapporto di causalità in modo simile all’accertamento relativo a tutti gli altri elementi
costitutivi della fattispecie con criteri non dissimili dalla sequenza del ragionamento
inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 c.p.p., comma 2, al fine di
pervenire alla conclusione, caratterizzata da alto grado di credibilità razionale, che esclusa
l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta dell’imputato, alla luce della cornice
nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione necessaria dell’evento, attribuibile per ciò
all’agente come fatto proprio.
La causalità omissiva, come già detto, presenta aspetti ancora più problematici, in quanto
basata su una ricostruzione ancorata ad ipotesi e non su certezze.
Si tratta quindi di una causalità ipotetica, normativa, fondata, come quella commissiva, su un
giudizio controfattuale (“contro i fatti” : se la condotta omessa fosse stata tenuta, si sarebbe
impedito il prodursi dell’evento?) al quale si fa ricorso per ricostruire una sequenza che però, a
differenza della causalità commissiva, non potrà mai avere una verifica fenomenica che invece,
nella causalità commissiva è in talune ipotesi (non sempre però:
si pensi alla responsabilità medica) verificabile. In caso di omissione, si è detto, il rapporto si
instaura tra un’entità reale (l’evento verificatosi) e un’entità immaginata (la condotta omessa)
mentre nella causalità commissiva il rapporto è tra due entità reali.
La giurisprudenza ha precisato che, proprio perchè nei reati omissivi si è in presenza di un
“nulla”, “la condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l’evento deve essere
rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo fondato precipuamente su ciò che
accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso
concreto” (Cass., sez. 4^, 21597/2007, Pecchioli).
In breve, in tali casi il giudice è chiamato a valutare se il comportamento omesso avrebbe o
meno impedito il verificarsi dell’evento, ma al contrario della causalità dell’azione, in caso di
omissione il ragionamento deve partire da un dato che non esiste nella realtà e cioè ipotizzare
come avvenuta la condotta non tenuta, per poi valutare, con giudizio controfattuale, la sua
efficacia impeditiva : è per tale motivo che in tema di causalità omissiva si discorre di giudizio
doppiamente ipotetico.
Ciò detto è necessario ai fini del decidere valutare l’attendibilità o meno del ragionamento
ricostruttivo della causalità, svolto dal giudice di merito, relativamente al decesso per tumore
polmonare del T.
8. Si legge nella sentenza di primo grado (e tale valutazione è richiamata nella sentenza di
appello, cfr. pg. 8) che “E’ dunque provato che l’evento morta/e fu conseguenza (oltre che dalla
protratta esposizione voluttuaria al fumo di sigaretta) anche dell’inalazione di fibre di amianto
sul posto di lavoro in conseguenza della mancata adozione delle misure protettive contestate

in epigrafe e previste della ivi citata normativa” (pg. 23-24). E’ evidente che il giudice di
merito, per riconoscere la rilevanza della condotta omissiva degli imputati, fa appello
all’ipotesi del concorso di cause, attribuendo il decesso per adenocarcinoma del T. al fumo di
sigarette ed all’esposizione all’amianto.
Ebbene, se la ricerca del nesso causale è facilitata per le patologie monofattoriali, cioè
riconducibili all’azione di un solo fattore (es. l’asbestosi è riconducibile esclusivamente
all’esposizione all’amianto), non altrettanto può dirsi per le patologie multifattoriali, cioè
riconducibili ad una pluralità di possibili fattori causali come, nel caso di specie,
l’adenocarcinoma.
In tale ultima ipotesi il giudice non può ricercare il legame eziologico, necessario per la tipicità
del fatto, sulla base di una nozione di concausalità meramente medica; infatti, in tal caso, le
conoscenze scientifiche vanno ricondotte nell’alveo di categorie giuridiche ed in particolare di
una causa condizionalistica necessaria.
Pertanto, tornando al caso che ci occupa, per poter affermare la causalità della condotta
omissiva degli imputati, nell’insorgenza del tumore polmonare patito dal T., era necessario
dimostrare che esso non aveva avuto un’esclusiva origine dal prolungato ed intenso fumo di
sigarette, ma che la esposizione all’amianto era stata una condizione necessaria per l’insorgere
o per una significativa accelerazione della patologia. Invero il rapporto causale va riferito non
solo al verificarsi dell’evento prodottosi, ma anche e soprattutto in relazione alla natura e ai
tempi dell’offesa nel senso che dovrà riconoscersi il rapporto in questione non solo nei casi in
cui sia provato la condotta omessa avrebbe evitato il prodursi dell’evento verificatosi, ma
anche nei casi in cui sia provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi significativamente
più lontani ovvero quando, alla condotta colposa omissiva o commissiva, sia ricollegabile
un’accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa (cfr. Cass. Sez.
4, Sentenza n. 40924 del 02/10/2008 Cc. (dep. 31/10/2008), Catalano, Rv. 241335).
Viceversa, la sentenza impugnata, sul punto, attinge ad un concetto vago di causalità e
concausalità (il perito Ma. nella sua relazione identifica l’asbesto come “possibile” agente
causale della fibrosi polmonare) che, se consentito in ambito medico, deve in ambito penale
essere trasfuso in precise categorie giuridiche.
9. Si impone per quanto detto, l’annullamento della sentenza, che deve essere pronunciato
senza rinvio per il B. e M., per i quali è maturata la prescrizione del delitto di anni 7 e mesi 6,
avendo beneficiato delle attenuanti generiche prevalenti (fatto del 20/6/02; prescrizione
ordinaria comprensiva di interruzione maturatasi al 20/12/09; differita al 30/11/10, in ragione
di mesi 11 e giorni 10 di sospensione del termine per invii delle udienze).
Infatti, nel caso in cui la Corte di cassazione riscontri, unitamente alla causa estintiva della
prescrizione del reato, un vizio di motivazione della sentenza di condanna impugnata, deve annullarla senza rinvio (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 26299 del 03/06/2009 Ud. (dep. 24/06/2009),
Rv. 244533).
10, La sentenza deve essere invece annullata con rinvio per il C. e P. per i quali le attenuanti
generiche sono state riconosciute con giudizio di equivalenza (prescrizione, comprensiva di
interruzione, anni 15).
Il giudice di merito, dovrà valutare se, a fronte di una patologia multifattoriale quale
l’adenocarcinoma patito dalla vittima, l’esposizione all’amianto, di un lavoratore aduso nel
tempo a prolungato fumo di sigarette, abbia costituito una condizione necessaria per
l’insorgenza della patologia o per un’accelerazione dei tempi di latenza di una malattia
provocata da altra causa. Nella pronuncia di annullamento restano assorbite le censure
relative al trattamento sanzionatorio, demandando al giudice del merito, ove necessario, la
valutazione della loro fondatezza.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di B.G. e M.R. perchè
estinto il reato per prescrizione. Annulla la stessa sentenza nei confronti di C. G. e P.L., con
rinvio ad una diversa sezione della Corte di Appello di Torino per nuovo giudizio.

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