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La resistenza a pubblico ufficiale di particolare tenuità e legittimità costituzionale della sua punibilità

Avv. Giacomina Carla Squitieri

Il Tribunale di Torino con l’ordinanza del 5 febbraio 2020 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 131 bis, comma 2, ultimo periodo c.p. per contrasto con i principi di uguaglianza, ragionevolezza, proporzionalità e con il parametro costituzionale della funzione rieducativa della pena, nella parte in cui è previsto che nel caso di resistenza a pubblico ufficiale, quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni, l’offesa non può essere ritenuta in nessun caso di particolare tenuità.


Il caso

La vicenda che è stata oggetto di esame da parte del Giudice torinese concerneva la commissione di una resistenza a pubblico ufficiale da parte di un soggetto di nazionalità cinese il quale, aveva assunto alcolici dopo aver appreso la notizia del padre morente in Cina e pertanto, si trovava in stato di ubriachezza.

I carabinieri erano intervenuti perché il soggetto era riverso a terra sul ciglio della strada e non dava segni di vita. Una volta avvicinatosi, gli operanti si rendevano subito conto della situazione poiché l’individuo emanava un forte odore di alcol e non aveva coscienza di sé. Prontamente veniva contattato il personale sanitario il quale però sopraggiungeva solo a distanza di quasi due ore tant’è che nel frattempo, l’uomo iniziava a reagire agli stimoli. Inizialmente era tranquillo fino a che non cominciava a reagire violentemente, sferrando calci e pugni alla cieca, sia all’indirizzo dei sanitari che dei carabinieri, attingendone alcuni, seppur senza conseguenze lesive di rilievo.

Per tali ragioni il prevenuto veniva presentato avanti il Tribunale per la convalida dell’arresto e la celebrazione del giudizio direttissimo.

La fattispecie astratta e concreta

Nel corso del giudizio il giudicante ha ritenuto corretta la contestazione del reato di resistenza a pubblico ufficiale, provata la conoscenza o quantomeno la conoscibilità della veste di pubblici ufficiali in capo alle vittime del reato, considerato che alcuni carabinieri erano in uniforme, così come ha ritenuto le condotte violente esplicate dall’imputato, sussumibili nell’alveo della fattispecie incriminatrice e finalizzate ad impedire ai pubblici ufficiali di compiere atti del loro ufficio.

In merito all’imputabilità e all’elemento psicologico del reato, il Giudice ha rilevato che l’imputato versava in stato di ebbrezza alcolica, di per sé inidonea, considerati gli artt. 92 e 85, comma 2, c.p., a far venir meno la capacità di intendere e di volere al momento del fatto ed ha anche escluso che poteva trattarsi di ubriachezza preordinata a commetterlo (cd. actio libera in causa).

Proseguendo, il Tribunale torinese ha ritenuto ricorrente la lesione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice nella sua doppia dimensione, quella del turbamento del regolare funzionamento della pubblica amministrazione e quella della messa in pericolo della sicurezza e della libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici. Sul punto è d’obbligo evocare la minuziosa analisi della fattispecie di cui all’art. 337 c.p. svolta dalla Suprema Corte con la sentenza n. 40981 del 24/09/2018, in cui il Giudice della nomofiliachia compie una puntuale ricognizione della struttura del reato nonché del bene fondamentale tutelato dalla norma incriminatrice.

Sintetizzando, attraverso la fattispecie di cui all’art. 337 c.p., ogni condotta commissiva-oppositiva violenta o minacciosa nei confronti del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio o del soggetto normativamente ad esso equiparato) finalizzata a coartarne o ad impedirne l’agire funzionale è sanzionata penalmente. Resta esclusa ogni resistenza meramente passiva come la mera disobbedienza.

Quanto al concetto di “regolare funzionamento della pubblica amministrazione”, partendo da quanto fu evidenziato già nel ’96 dalla Consulta e cioè che la fattispecie di resistenza punisce la maggior offesa arrecata alla pubblica amministrazione attraverso una condotta volta ad impedire con violenza o minaccia l’attuazione della sua volontà, in tal guisa sottintendendo l’esistenza di una compenetrazione tra la persona fisica del pubblico ufficiale e la pubblica amministrazione per la quale quello agisce, certamente non si possono rinvenire plurimi interessi giuridici di pari rango contemporaneamente protetti dalla fattispecie in analisi, come ad esempio il regolare andamento della pubblica amministrazione e l’integrità fisica del pubblico ufficiale.

Infatti, la Suprema Corte nel proseguire la sua raffinata ricostruzione, richiama specificatamente la dottrina e la giurisprudenza di diritto amministrativo, le quali hanno sempre e unanimemente inteso la pubblica amministrazione come organizzazione complessa costituita sia dai beni materiali strumentali al raggiungimento delle finalità pubbliche sia dalle persone che per essa agiscono. Difatti il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio in forza del rapporto organico rappresenta esso stesso la pubblica amministrazione “in quanto strumento della sua estrinsecazione nel mondo giuridico tanto sul piano volitivo che su quello esecutivo”.

Conseguentemente non essendoci alterità tra la pubblica amministrazione ed il soggetto pubblico agente, il “regolare funzionamento” è garantito dall’assenza di interferenze nel procedimento volitivo od esecutivo di colui che personifica la stessa amministrazione. Ed è a questo punto che appare preponderante nell’oggetto del bene giuridico anche la necessità di tutelare la sicurezza e la libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici per il tramite della protezione delle persone fisiche che agiscono per essi.

Le Sezioni Unite proseguono considerando che “può solo aggiungersi che non appare dirimente la considerazione che il delitto di resistenza assorbirebbe soltanto il minimo di violenza in cui si estrinseca l’opposizione per essere la tutela fisica o morale dello stesso assicurata da altre disposizioni in cui l’offesa superi il tasso minimo tollerabile. Tale interpretazione finisce con lo svilire il raggio di copertura normativa sino a ritenere subvalente e collaterale l’offesa al pubblico ufficiale, ponendosi in contrasto con la lettera della legge. Infatti, proprio la circostanza che l’elemento oggettivo del reato di resistenza sia integrato dalla violenza o dalla minaccia al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio in determinato momento, conferisce centralità alla persona del singolo soggetto pubblico chiamato a manifestare la volontà della pubblica amministrazione”. Dunque il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, lungi dal comprendere il decoro e l’immagine della pubblica autorità, investe il libero svolgimento dell’agire della PA e non esclude la tutela dell’integrità fisica dell’organo agente laddove sia lesa o messa in pericolo da una condotta finalizzata ad opporsi verso l’atto dell’ufficio o del servizio.

Tornando all’analisi dell’ordinanza oggetto della presente disamina, il Giudice di Torino ha ritenuto nella vicenda concreta che la lesione arrecata all’oggettività giuridica fosse di particolare tenuità. Infatti, richiamando l’insegnamento delle Sezioni Unite penali sent. n. 13681 del 25/02/2016, ha realizzato una “valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, c.p., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo”.

E specificatamente, quanto alla modalità della condotta ed alla gravità delle lesioni arrecate al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, il Giudice ha motivato in primis che i colpi furono sferrati dall’imputato, che era ubriaco e quindi incapace a coordinare i movimenti, a mani nude e senza l’ausilio di armi. In secondo luogo, ha precisato che seppur vi sia stato un turbamento del regolare funzionamento della pubblica amministrazione, questo è durato pochissimo in quanto i carabinieri hanno bloccato l’imputato entro pochi secondi e soltanto una modesta messa in pericolo può rinvenirsi per quanto concerne la sicurezza, la libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici.

Per quel che concerne il grado di colpevolezza e l’entità del danno o del pericolo, il Giudice ha posto l’attenzione sul fatto che l’imputato era sconvolto per avere appreso poco prima dell’intossicazione alcolica la notizia che il padre stava morendo, circostanza peraltro provata, che la condotta dallo stesso posta in essere fu occasionale, considerata l’assenza di precedenti penali, carichi pendenti o segnalazioni, che non fu caratterizzata da crudeltà o sevizie, né determinata da motivi abbietti o futili. Infine, evidentemente gli operanti non furono posti in stato di minorata difesa rispetto all’aggressore.

La rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale

Il Tribunale di Torino ha motivato la rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale, richiamando i principi di extrema ratio e di proporzione della sanzione penale, sul presupposto che con la esimente di cui all’art. 131 bis c.p. il Legislatore ha voluto estromettere dall’ambito della sanzione penale i fatti marginali che, seppur meritevoli di pena, non appaiono al comune sentire bisognosi della reazione punitiva.

Il Legislatore però ha ritenuto di limitare l’ambito di operatività della esimente in discussione in determinate ipotesi ed a questo punto viene in argomento l’art. 131 bis c.p. che dispone al suo comma 2, in seguito alla modifica apportata dall’art. 16, comma 1, lett. b), D.L. 14 giugno 2019, n. 53, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 agosto 2019, n. 77, a decorrere dal 10 agosto 2019: “L’offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, ovvero nei casi di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis, quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni”.

Considerato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale secondo comma della disposizione normativa summenzionata, nella parte in cui esclude l’operatività della esimente al delitto di cui all’art. 337 c.p., consentirebbe all’imputato di ottenere la non punibilità per la condotta posta in essere, la questione sollevata appare evidentemente rilevante.

Come più volte evidenziato dalla Corte Costituzionale, pur non essendovi alcun dubbio sul fatto che la politica legislativa è di esclusiva competenza del Parlamento, il Giudice che sia chiamato ad applicare una norma sospettata di illegittimità costituzionale può e deve invocare l’intervento della Corte costituzionale laddove la norma si presenti manifestamente irragionevole.

Ed in merito alla concreta vicenda che qui interessa, il Giudice torinese ha tracciato con chiarezza le linee della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, invocando la lesione dei principi costituzionali di uguaglianza, di ragionevolezza e di proporzionalità della sanzione e ciò senza trascurare le ricadute a danno del principio di rieducazione che deve, in virtù dell’art. 27, comma 3, Cost., permeare l’applicazione della sanzione penale. Come chiarito più volte dalla Corte Costituzionale l’essenza della rieducazione è rinvenibile nel progressivo reinserimento armonico della persona nella società, avvenimento questo che deve prendere le mosse dall’applicazione di una sanzione che sia percepita come non ingiustamente vessatoria rispetto alla condotta espressa.

Il Giudice poi ha proseguito individuando anche la violazione dell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che fa ingresso nel nostro ordinamento giuridico per il tramite dell’art. 117, comma 1, Cost., quale norma interposta, e che stabilisce il principio di legalità del reato e della pena, congiuntamente a quelli di irretroattività contra reum e di retroattività a favore del reo, nonché quello di proporzionalità della sanzione penale.

L’irragionevolezza dell’art. 131 bis c.p. con riferimento al delitto di resistenza a pubblico ufficiale, risulta particolarmente evidente laddove il legislatore ha ritenuto di individuare un’ipotesi, tra le altre, derogatoria e quindi escludente l’applicabilità della norma di favore. Questa scelta infatti, essendo ancorata al solo titolo di reato, impedisce ai giudici di valutare la concreta offensività delle condotte poste in essere il che, specialmente nell’ipotesi di cui all’art. 337 c.p., solleva dubbi sulla sua conformità al nostro ordinamento e sulla sua ragionevolezza nel perseguire in termini così rigorosi, condotte di scarsa rilevanza e con caratteri tali da non destare allarme sociale.

A questo punto l’ordinanza del Giudice torinese svolge un raffinato ragionamento che segue l’iter di formazione della volountas legislatoris con riferimento alla modifica introdotta dal d.l. 53/2019.

Nello specifico in un primo momento, si era proposto di escludere l’applicabilità della causa di non punibilità per i “delitti puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive. E in ciò si ravvisa una certa ragionevolezza, tenuto conto del fatto che i comportamenti violenti nell’ambito di competizioni sportive, oltre ad essere alimentati da motivi abietti o futili, certamente aggravano il pericolo di innescare aggressioni tra i numerosi soggetti radunati per l’occasione.

La stessa ragionevolezza non si ravvisa invece, con riferimento all’inclusione del delitto di cui all’art. 337 c.p. tra i reati esclusi dall’area di applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, laddove ad esempio nel caso di lesioni aggravate per essere state commesse “contro un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ovvero un ufficiale o agente di pubblica sicurezza, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio” (artt. 582, 585 in relazione all’art. 576, comma 5 bis, c.p.) può essere riconosciuta all’imputato l’applicazione della causa di non punibilità di cui si discorre e ciò anche se si tratta di un’ipotesi del tutto sovrapponibile a quella di resistenza a pubblico ufficiale e spesso concorre formalmente con quest’ultimo. Difatti come ben chiarito dalla Cassazione “Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale assorbe soltanto quel minimo di violenza che si concretizza nella resistenza opposta al pubblico ufficiale che sta compiendo un atto del proprio ufficio, non anche degli ulteriori atti violenti che, esorbitando da tali limiti, cagionino al medesimo lesioni personali, nel qual caso è configurabile il reato di lesioni personali aggravato dall’essere stato commesso in danno di un pubblico ufficiale, che può concorrere con il primo”.

Da quanto suddetto appare cristallina l’irragionevolezza della criticata scelta legislativa.

Non sfugge poi al Giudice torinese che il medesimo ragionamento può farsi con riguardo ad altre ipotesi di reato affini a quello punito dall’art. 337 c.p., quali quelle di cui agli artt. 341 bis, 342 e 343 c.p. ed alle quali sarebbe comunque applicabile la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. con conseguente violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza.

Infine l’ordinanza di rimessione alla Consulta, oggetto della presente disamina, prosegue con lo studio approfondito dei resoconti parlamentari, in merito al quale è giusto rilevare che la criticata scelta legislativa pare rispondere alla ragione di politica criminale di dover approfondire la tutela dell’onore e del prestigio delle forze di polizia. Tale visione sacrale dei rapporti tra cittadino e forze dell’ordine però non solo, non giustifica l’intervento normativo in quanto disarmonico rispetto alla visuale democratica di tali rapporti richiamata dalla Consulta con la sent. n. 341 del 1994 ma anzi, fonda l’irragionevolezza del trattamento sanzionatorio previsto per casi pur sempre predicabili come di particolare tenuità.

Non resta, quindi, che attendere la pronuncia della Corte costituzionale.

Fonti:

Art. 131 bis c.p.;

Art. 337 c.p.;

Art. 3 Cost.;

Art. 27, comma 3, Cost.;

Art. 117, comma 1, Cost.;

Art. 49, comma 3, C.D.F.UE;

Tribunale di Torino, sezione prima penale, ordinanza 5 febbraio 2020;

Sezioni Unite penali sent. n. 13681 del 25/02/2016;

Sezioni Unite penali sent. n. 40981 del 24/09/2018;

Corte Costituzionale sent. n. 341 del 1994.

 

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Sulla mancanza di documentazione di identità del soggetto irregolare ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio

TRIB. ROMA – DOTT. CORRIAS – ORDINANZA DEL 14.5.2018

Avv. Federica Federici – Dott. Rossana Fornicola

 

MASSIMA

In relazione ad un procedimento penale per direttissima, il cui difensore non veniva liquidato in regime di gratuito patrocinio stante il difetto di un documento di identità valido (nello specifico il codice fiscale), il difensore ricorreva al Tribunale Ordinario Civile, il quale

– ritenuta la legittimazione passiva del Ministero della Giustizia quale organo sul cui bilancio gravano i compensi degli avvocati di persone ammesse al patrocinio a spese dello Stato;

– rilevato: che il decreto impugnato ha respinto l’istanza dell’odierno ricorrente unicamente per mancata allegazione di un valido documento d’identità all’autocertificazione reddituale prevista dall’art. 79 del DPR. 115/2002;  che tuttavia il citato art. 79 prevede che l’autocertificazione in questione debba essere resa in forma di dichiarazione sostitutiva di certificazione ex art. 46, co. 1, lettera o) del DPR. 445/2000, per la cui validità non è prevista l’allegazione di alcun documento d’identità, posto che detta allegazione, secondo l’art. 47 del citato DPR. 445/2000, è necessaria unicamente per le dichiarazioni sostitutive degli atti di notorietà

ammetteva il ricorrente, al patrocinio a spese dello Stato e condannava il Ministero della Giustizia a rifondere a xx le spese del giudizio, ai sensi del DM. Giustizia n. 37/2018.

SINTESI DEL CASO

Si tratta di una questione che ha dato luogo alla impossibilità di esercitare il diritto di difesa e che trae spunto da un procedimento penale in direttissima che si è svolto davanti al Tribunale di Roma nei confronti di un cittadino straniero che chiedeva di essere ammesso al gratuito, dichiarando di non avere nessun mezzo di sussistenza né in Italia né all’estero. Ma l’istanza veniva rigettata perché questo immigrato non era in possesso del proprio codice fiscale, essendo sbarcato da Lampedusa da pochissimo tempo e, quindi, il Giudice Penale ritenne di non poter ammettere la domanda dello stesso al gratuito patrocinio poiché mancante di uno degli elementi indefettibili richiesti per essere ammessi al beneficio suddetto.

LA MATERIA DEL CONTENDERE

Si premette che, nei procedimenti penali, civili ed amministrativi, oggi la legge disciplina in maniera più organica il diritto di tutte le persone di essere assistite da un avvocato scelto di propria fiducia e pagato a spese dello Stato nel caso non abbiano sufficienti mezzi di sostentamento. La questione di cui si è occupati in questo caso riguarda una specifica problematica che è sempre stata sofferta dai cittadini stranieri, che al momento in cui hanno avuto bisogno di difendersi attraverso il gratuito patrocinio, se lo sono quasi sempre visti negare perché non erano in possesso del famoso codice fiscale o documento d’identità.

QUAESTIO IURIS

La questione affrontata nel caso de quo, pone l’attenzione sul diritto di essere ammessi al gratuito patrocinio a spese dello Stato, in quanto tale diritto, a parere del ricorrente è una implicazione necessaria del diritto alla difesa costituzionalmente garantito, e non può essere negato allo straniero che non sia “regolarmente soggiornante”.

NORMATIVE DI RIFERIMENTO

– Ai sensi dell’ articolo 24 della Costituzione della Repubblica italiana, “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari“. Tale principio sancisce la garanzia di accesso alla giustizia anche ai non abbienti, garanzia che costituisce un diritto inviolabile, riconosciuto all’uomo in quanto tale a prescindere dal fatto che si tratti di una persona straniera o italiana e che sia in condizioni regolari o irregolari di un soggiorno in Italia;

– Art. 6, comma 3, lettera c) della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con legge n. 848 del 4 agosto 1955),  che garantisce al cittadino italiano o straniero di poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio;

– Sentenza del Consiglio di Stato n.59 del 14 gennaio /2015 che riconosce come previsto dall’art 24 Cost., a un cittadino bengalese, presente in Italia senza permesso di soggiorno, il patrocinio a spese dello Stato in quanto tale articolo prevede e garantisce la difesa in giudizio a “tutti” (e non solo ai cittadini;

– Secondo il diritto dell’UE, in particolare alla luce della direttiva rimpatri (2008/115/CE), i cittadini di paesi terzi, il cui soggiorno è irregolare, non possono più rimanere nel limbo. Tuttavia, la CEDU ha ritenuto che determinati diritti, a causa della loro natura fondamentale e del loro legame con la dignità umana, si applichino a tutte le persone presenti nel territorio, ivi compresi i migranti irregolari. Tra questi diritti, si annoverano anche il diritto all’assistenza medica, il diritto all’accoglienza, il diritto all’istruzione ed il diritto alla difesa;

– La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 144 del 14 maggio 2004, per i cittadini extracomunitari irregolari o senza codice fiscale: ha stabilito che nel caso in cui il richiedente sia cittadino straniero non residente nel territorio italiano, la mancata indicazione del suo codice fiscale o di quello dei suoi familiari non costituisce causa d’inammissibilità  se vengono indicati gli elementi di cui all’art. 4 D.P.R. n. 605/1973 (cognome nome, luogo e data di nascita, sesso, domicilio fiscale estero). Grazie a questa ordinanza dunque, anche i cittadini stranieri clandestini possono usufruire del gratuito patrocinio, ad esempio per impugnare provvedimenti di espulsione o di diniego di rinnovo del permesso, in materia di lavoro e per procedimenti penali. Si tratta di una decisione della Corte Costituzionale del 14 maggio 2004 (ordinanza n. 144), avente ad oggetto la questione di legittimità costituzionale dell’art 79 del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, contenuto nel Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, che disciplina le condizioni per l’ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato.

– L’art. 6, comma 2, del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 605 (Disposizioni relative all’anagrafe tributaria e al codice fiscale dei contribuenti), prevede espressamente che l’obbligo di indicazione del numero di codice fiscale dei soggetti non residenti nel territorio dello Stato, cui tale codice non risulti attribuito, si intende adempiuto con la sola indicazione dei dati di cui all’art. 4 – dello stesso d.p.r. – con l’eccezione del domicilio fiscale, in luogo del quale va indicato il domicilio o sede legale all’estero.

– La legge 605/1973 che ha istituito il codice fiscale, si basa essenzialmente sulle generalità del soggetto. Ecco che, nel caso in cui fosse materialmente impossibile ottenere il codice fiscale, come per lo straniero irregolare, sarà possibile in alternativa far valere comunque il diritto al gratuito patrocinio, semplicemente indicando i dati di cui sopra.

– L’art 14, comma 3, lettera d) del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici(reso esecutivo in Italia con legge n. 881 del 25 ottobre 1977) prevede espressamente il diritto dell’imputato a vedersi assegnato un difensore d’ufficio gratuitamente, qualora non abbia i mezzi per pagarlo;

– si ritiene violato anche l’art 10 della Costituzione che, appunto, vincola il legislatore italiano per quanto concerne specificamente la condizione giuridica dello straniero, a conformarsi ai principi stabiliti negli accordi internazionali. Se gli accordi internazionali citati sono assolutamente chiari nel garantire che il diritto di difesa, nel caso in cui non vi siano mezzi economici, è a spese dello Stato, è chiaro che una legge italiana che fosse interpretata nel senso di non consentire (per motivi puramente burocratici) la difesa gratuita, sarebbe incostituzionale in quanto violerebbe l’obbligo del legislatore italiano di conformarsi ai trattati internazionali;

Secondo il Giudice Civile adìto queste garanzie sono evidentemente riferibili anche allo straniero, senza che si debba operare una distinzione rispetto alla presenza regolare o irregolare dello stesso. E’ chiaro che una persona accusata di reato ha il diritto di difendersi indipendentemente dal fatto che abbia o non abbia il permesso di soggiorno o altri documenti di identità, anche perché il diritto di difesa è un diritto riferibile a tutte le persone, secondo la Costituzione, e non soltanto ai cittadini.