GRANDE CAMERA

 

CAUSA SEJDOVIC c. ITALIA

(Ricorso n° 56581/00)

SENTENZA

                                STRASBURGO

1 ° marzo 2006

Nella causa Sejdovic c. Italia,

La Corte europea dei Diritti dell’uomo, riunita in una Grande Camera composta da :

L. Wildhaber, presidente,

C.L. Rozakis,

J.-P. Costa,

Nicolas Bratza,

B. Zupancic,

L. Loucaides,

C. Bîrsan,

V. Butkevych,

V. Zagrebelsky, A. Mularoni,

S. Pavlovschi,

L. Garlicki,

E. Fura-Sandstrom, R. Jaeger,

E. Myjer,

S.E. Jebens,

D. Jocienè, giudici,

e da T.L. Early, cancelliere aggiunto della Grande Camera,

Dopo averne deliberato in camera di consiglio il 12 ottobre 2005 e 1’8 febbraio 2006, Emette la seguente sentenza, adottata in quest’ultima data:

PROCEDURA

 

  1. All’origine della causa vi è un ricorso (n° 56581/00) diretto contro la Repubblica italiana e di cui un cittadino di quello che era all’epoca la Repubblica federale di Yugoslavia, sig. Ismet Sejdovic (oil ricorrente»), ha adito la Corte il 22 marzo 2000 ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali («la Convenzione»).
  2. Il ricorrente è rappresentato dall’avvocato B. Bartholdy, del foro di Westerstede (Germania). Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, I.M. Braguglia, e dal suo coagente, F. Crisafulli.
  3. Il ricorrente sosteneva in particolare di essere stato condannato in contumacia senza avere avuto la possibilità di presentare la sua difesa davanti alle autorità giudiziarie italiane, a dispetto dell’articolo 6 della Convenzione.
  4. Il ricorso è stato assegnato alla prima sezione della Corte (articolo 52 § 1 del regolamento). L’l1 settembre 2003, è stato dichiarato parzialmente ricevibile da una camera della citata sezione, composta da C.L. Rozakis, presidente, P. Lorenzen, G. Bonello, N. Vajié, S. Botoucharova, V. Zagrebelsky, E. Steiner, giudici, nonché da S. Nielsen, che all’epoca era cancelliere aggiunto di sezione.
  5. Il 10 novembre 2004, una camera della stessa sezione, composta da C.L. Rozakis, presidente, P. Lorenzen, G. Bonello, A. Kovler, V. Zagrebelsky, E. Steiner, K. Hajiyev, giudici, e da S. Nielsen, cancelliere di sezione, ha emesso una sentenza nella quale ha concluso all’unanimità che vi era stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione. Essa ha anche che affermato che la constatazione di violazione forniva di per sé un’equa soddisfazione sufficiente per il danno morale subito dal ricorrente, che la violazione constatata derivava da un problema strutturale legato al malfunzionamento della legislazione e della prassi interne e che lo Stato convenuto doveva garantire, con adeguate misure, l’attuazione del diritto delle persone giudicate in contumacia di ottenere successivamente che un’autorità giudiziaria, dopo averle ascoltate nel rispetto di quanto richiesto dall’articolo 6 della Convenzione, decidesse di nuovo sul merito dell’accusa diretta di loro.
  6. Il 9 febbraio 2005, il Governo ha domandato il rinvio della causa dinanzi alla Grande Camera ai sensi degli articoli 43 della Convenzione e 73 del Regolamento. II 30 marzo 2005 un collegio della Grande Camera ha accolto questa domanda.
  7. La composizione della Grande Camera è stata fissata conformemente agli articoli 27 §§ 2 e 3 della Convenzione e 24 del regolamento.
  8. Il Governo ha depositato una memoria ma non il ricorrente, il quale ha fatto riferimento alle osservazioni che aveva presentato nella procedura innanzi alla camera. Sono state anche ricevute alcune osservazioni dal governo della Repubblica slovacca, che il presidente aveva autorizzato ad intervenire nella procedura scritta (articoli 36 § 2 della Convenzione e 44 § 2 del regolamento).

9. Il 12 ottobre 2005, si è svolta un’udienza pubblica nel Palazzo dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo (articolo 59 § 3 del regolamento).

 

Sono comparsi :

–     per il Governo F. Crisafulli, magistrato, Ministero degli Affari esteri, coagente;

–       per il ricorrente B. Bartholdy, avvocato, consulente, U. Wiener, avvocato, consulente.

La Corte ha ascoltato le loro dichiarazioni, nonché le risposte da loro fornite alle domande poste dai giudici.

IN FATTO

 

I. LE CIRCOSTANZE DELLA FATTISPECIE

 

  1. Il ricorrente è nato nel 1972 e risiede ad Amburgo (Germania).
  2. L’8 settembre 1992, M.S. fu ferito mortalmente da un colpo di arma da fuoco nel campo nomadi di Roma. Secondo le prime testimonianze raccolte dalla polizia, il ricorrente era l’autore materiale dell’omicidio.
  3. Il 15 ottobre 1992, il giudice delle indagini preliminari di Roma dispose l’applicazione della custodia cautelare in carcere del ricorrente. Tuttavia, questa ordinanza non poté essere eseguita perché il ricorrente era diventato irreperibile. In seguito a questo fatto, le autorità italiane ritennero che si fosse volontariamente sottratto alla giustizia ed il 14 novembre 1992 lo dichiararono latitante. Il ricorrente fu identificato come Cloce (o Kroce) Sejdovic (ou Sajdovic), verosimilmente nato a Titograd il 5 agosto 1972, figlio de Youssouf Sejdovic (ou Sajdovic) e fratello di Zaim (o Zain) Sejdovic (o Sajdovic).
  4. Non essendo riuscite a notificare al ricorrente l’invito a nominare un difensore di fiducia, le autorità italiane nominarono un avvocato d’ufficio che venne informato del rinvio a giudizio del suo cliente e di altre quattro persone nonché della data del dibattimento davanti alla corte d’assise di Roma.
  5. L’avvocato prima menzionato partecipò al dibattimento. Il ricorrente era assente.
  6. Con sentenza del 2 luglio 1996, il cui testo fu depositato in cancelleria il 30 settembre 1996, la corte d’assise di Roma condannò il ricorrente per omicidio e porto illegale di armi ad una pena di ventuno anni e otto mesi di reclusione. Un coimputato del ricorrente fu condannato per gli stessi crimini alla pena di quindici anni ed otto mesi di reclusione, mentre gli altri tre imputati furono prosciolti.
  7. L’avvocato d’ufficio del ricorrente fu informato del deposito in cancelleria della sentenza della corte d’assise. Egli non propose appello. Di conseguenza, la condanna del ricorrente divenne definitiva il 22 gennaio 1997.
  8. Il 22 settembre 1999, il ricorrente fu arrestato ad Amburgo dalla polizia tedesca in esecuzione di un mandato di arresto emesso dalla procura della Repubblica di Roma. Il 30 settembre 1999, il Ministro della Giustizia italiano domandò l’estradizione del ricorrente. Il Ministro precisò che una volta estradato in Italia, l’interessato avrebbe potuto domandare, ai sensi dell’articolo 175 del codice di procedura penale ((dl CPP») la riapertura del termine per proporre appello avverso la sentenza della corte d’assise di Roma.
  9. Su domanda delle autorità tedesche, la procura di Roma precisò che dal fascicolo non risultava che il ricorrente avesse avuto ufficialmente conoscenza delle accuse elevate contro di lui. La procura non era in condizione di dire se il ricorrente avesse contattato il suo avvocato d’ufficio. Ad ogni modo, quest’ultimo aveva assistito al dibattimento e si era attivamente impegnato per la difesa del suo cliente domandando la convocazione di numerosi testimoni. Peraltro, la colpevolezza del ricorrente — che era stato identificato da numerosi testimoni come l’assassino di M.S. — era stata chiaramente stabilita dalla corte d’assise di Roma. Secondo la Procura, il ricorrente si era dato alla fuga subito dopo la morte di M.S. precisamente per evitare di essere arrestato e giudicato. La procura precisò infine che <da persona che deve essere estradata può domandare di proporre appello contro la sentenza. Tuttavia, affinché un tribunale accetti di riesaminare la causa, è indispensabile che venga stabilita l’erroneità della dichiarazione secondo la quale l’accusato era «latitante». Riassumendo, un nuovo processo, anche sotto forma di un processo d’appello (dove si possono presentare nuove prove), non è automatico».
  10. Il 6 dicembre 1999, le autorità tedesche rigettarono la domanda di estradizione del governo italiano in quanto il diritto interno del Paese richiedente non garantiva al ricorrente, con un sufficiente grado di certezza, la possibilità di ottenere la riapertura del suo processo.
  11. Nel frattempo, il 22 novembre 1999, il ricorrente era stato rimesso in libertà. Egli non ha mai sollevato in Italia un incidente d’esecuzione o introdotto una domanda per la restituzione nel termine (vedere qui di seguito «il diritto e la prassi interni pertinenti»).

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

 

  1. La validità di una sentenza di condanna può essere contestata sollevando un incidente di esecuzione, come previsto dall’articolo 670 § 1 del CPP, il quale, nelle sue parti pertinenti dispone:

a Quando il giudice dell’esecuzione accerta che il provvedimento manca o non è divenuto esecutivo, valutata anche nel merito l’osservanza delle garanzie previste nel caso di irreperibilità del condannato, (…) sospende l’esecuzione, disponendo, se occorre, la liberazione dell’interessato e la rinnovazione della notificazione non validamente eseguita. In tal caso decorre nuovamente il termine per l’impugnazione. »

  1. L’articolo 175 §§ 2 e 3 del CPP prevede la possibilità di presentare una domanda per la restituzione nel termine. Nella sua formulazione in vigore all’epoca dell’arresto del ricorrente, le parti pertinenti di questa norma recitavano:

a Se è stata pronunciata sentenza contumaciale (…), può essere chiesta la restituzione nel termine per proporre impugnazione (…) dall’imputato che provi di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento (…) sempre che l’impugnazione non sia stata proposta dal difensore e il fatto non sia dovuto a sua colpa ovvero, quando la sentenza contumaciale è stata notificata (…) al difensore (…), l’imputato non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento.

La richiesta per la restituzione nel termine è presentata, a pena di decadenza, entro dieci giorni da quello (…) in cui l’imputato ha avuto effettiva conoscenza dell’atto.»

 

 

  1. Chiamata ad interpretare questa norma, la Corte di cassazione ha dichiarato che il rigetto di una domanda di restituzione nel termine non può essere giustificata con la semplice negligenza o con una mancanza di interesse da parte dell’accusato, ma occorre al contrario un «comportamento intenzionale per sottrarsi alla conoscenza degli atti» (sentenza della prima sezione del 6 marzo 2000, n° 1671, nella causa Colliri ; vedere anche la sentenza della Corte di cassazione n° 5808 del 1999). Più precisamente, se il provvedimento è stato notificato personalmente all’imputato, quest’ultimo deve provare che ignorava l’atto senza che vi sia colpa da parte sua; al contrario, qualora il provvedimento sia stato notificato all’avvocato del contumace, spetta al giudice verificare se l’interessato si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti (sentenza della seconda sezione del 29 gennaio 2003, n° 18107, nella causa Bylyshi, dove la Corte di cassazione ha annullato un’ordinanza nella quale la corte d’appello di Genova aveva affermato che una negligenza poteva essere spiegata unicamente dalla volontà di non ricevere alcuna comunicazione, trattando così come intenzionale un comportamento colpevole senza indicare elementi a sostegno della sua tesi).
  2. 24.    Nella sua sentenza n° 48738 del 25 novembre 2004 (causa Soldati), la Corte di cassazione (prima sezione) ha precisato che la restituzione nel termine può essere concessa a due condizioni: che l’imputato non abbia avuto conoscenza del procedimento e che non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti. La prima condizione deve essere provata dal condannato, mentre la prova della seconda è a carico del ((rappresentate della procura o del giudice ». Pertanto, la mancanza di prova per quanto riguarda questa seconda condizione può solo portare beneficio all’imputato. La Corte di cassazione ha anche affermato che prima di dichiarare «latitante » un imputato, le autorità devono non soltanto cercarlo in maniera adeguata alle circostanze della fattispecie, ma devono anche stabilire che si è sottratto intenzionalmente all’esecuzione di un ordine del giudice, quale è una misura privativa della libertà (sentenza della prima sezione del 23 febbraio 2005, n° 6987, nella causa Flordelis e Pagnanelli).
  3. Il 22 aprile 2005, il Parlamento ha approvato la legge n° 60 del 2005, che ha convertito in legge il decreto-legge n° 17 del 21 febbraio 2005. La leggeri 60 del 2005 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n° 94 del 23 aprile 2005. Essa è entrata in vigore il giorno successivo.
  4. La legge n° 60 del 2005 ha modificato l’articolo 175 del CPP. Il nuovo paragrafo 2 di questa norma è così formulato:

« Se è stata pronunciata sentenza contumaciale (…), l’imputato è restituito, a sua richiesta, nel termine per propone impugnazione od opposizione, salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione od opposizione. A tale fine l’autorità giudiziaria compie ogni necessaria verifica. »

 

 

  1. La leggeri 60 del 2005 ha inoltre introdotto all’articolo 175 del CPP un paragrafo 2 bis, così formulato:

« La richiesta indicata al comma 2 è presentata, a pena di decadenza, nel termine di trenta giorni da quello in cui l’imputato ha avuto effettiva conoscenza del provvedimento. In caso di estradizione dall’estero, il termine per la presentazione della richiesta decorre dalla consegna del condannato [alle autorità italiane] (…). »

III. RACCOMANDAZIONE (2000)2 DEL COMITATO DEI MINISTRI

  1. Nella sua raccomandazione R(2000)2 « sul riesame o la riapertura di alcune cause a livello nazionale a seguito di sentenze della Corte europea dei Diritti dell’Uomo», il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha incoraggiato «le Parti contraenti ad esaminare i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali al fine d’assicurarsi che esistano possibilità appropriate di riesaminare un caso, ivi compresa la riapertura del procedimento, nei casi in cui la Corte abbia accertato una violazione della Convenzione, in particolare quando: (i) la parte lesa continua a subire delle conseguenze negative molto gravi a causa della decisione nazionale, conseguenze che non possono essere riparate dall’equo indennizzo e che possono essere modificate solo attraverso il riesame o la riapertura, e (ii) dalla sentenza della Corte risulta che a) la decisione nazionale impugnata è contraria alla Convenzione nel merito, o b) la violazione riscontrata dipende da errori o mancanze procedurali di una gravità tale da lasciare seri dubbi sull’esito del procedimento nazionale in questione.

IN DIRITTO

I. SULL’ECCEZIONE PRELIMINARE DEL GOVERNO

  1. Il Governo eccepisce innanzitutto il mancato esaurimento delle vie di ricorso intenre, in quanto il ricorrente non ha fatto uso dei ricorsi previsti dagli articoli 175 e 670 del CPP.

A. Decisione della camera

  1. Nella sua decisione sulla ricevibilità dell’11 settembre 2003, la camera ha rigettato l’eccezione di mancato esaurimento del ricorso previsto dall’articolo 175 del CPP formulata dal Governo in quanto, viste le particolari circostanze della causa, una domanda di restituzione nel termine avrebbe avuto poche possibilità di essere accolta. Peraltro, l’uso di questo ricorso da parte del ricorrente incontrava ostacoli oggettivi.

B. Argomenti delle parti

1. Il Governo

  1. Il Governo osserva che nel diritto italiano, una persona condannata in absentia, ha a disposizione due vie di ricorso per far correggere questa situazione. In primo luogo essa può sollevare, ai sensi dell’articolo 670 del CPP, un «incidente di esecuzione » per contestare l’esistenza o la validità del provvedimento. Questo ricorso non è sottoposto ad alcun termine, esso tuttavia presuppone una irregolarità procedurale tale da poter minare la validità del provvedimento. Fra queste irregolarità, un posto particolare è occupato dalla violazione delle norme relative alle notificazioni e, più precisamente, dal mancato rispetto delle garanzie concesse agli imputati dichiarati irreperibili. Se l’incidente di esecuzione è dichiarato ammissibile, il giudice deve sospendere l’esecuzione della pena; se è accolto, viene riaperto il termine per impugnare il provvedimento. Il ricorrente avrebbe potuto avvalersi di questo ricorso se avesse provato che la polizia era stata negligente nelle sue ricerche o che non erano state rispettate le garanzie applicabili agli imputati irreperibili .
  2. Il Governo nota per giunta che nel caso in cui l’incidente di esecuzione venga rigettato, il giudice deve esaminare la domanda di restituzione nel termine che il condannato in contumacia ha facoltà di presentare, separatamente o congiuntamente. Se questa domanda viene accolta, il termine per l’appello è riaperto ed il contumace ha la possibilità di presentare – personalmente o tramite il suo avvocato – gli elementi utili alla sua difesa dinanzi all’autorità giudiziaria competente a giudicare qualsiasi questione di fatto e di diritto. A differenza dell’incidente di esecuzione, la domanda di restituzione nel termine non presuppone alcuna irregolarità formale o materiale nella procedura, e in particolare nelle ricerche e nelle notifiche.
  3. II Governo ritiene che il ricorso previsto dall’articolo 175 del CPP, così com’era in vigore all’epoca dei fatti, era efficace ed accessibile in quanto si trattava di un ricorso previsto in maniera specifica per il caso in cui un imputato sosteneva di non aver avuto conoscenza della sua condanna. E’ vero che la domanda di restituzione nel termine doveva essere presentata entro dieci giorni. Tuttavia, questo termine, che non è proprio soltanto della legislazione italiana, era sufficiente a permettere ai giustiziabili di esercitare il loro diritto alla difesa, in quanto iniziava a decorrere dal momento in cui l’interessato aveva avuto una «effettiva conoscenza dell’atto» (sentenza della Corte di cassazione del 3 luglio 1990 Rizzo). Inoltre, esso non riguardava la presentazione dell’atto di appello stesso, ma semplicemente l’introduzione della domanda di restituzione nel termine, molto meno complessa.
  4. Anche se il fatto di non essere un cittadino italiano, così come i problemi linguistici e culturali, possono rendere più difficile il compimento di un atto procedurale entro il termine prescritto, non si può per questo esigere che le legislazioni nazionali rendano flessibili tutti i loro termini al fine di adattarli alla varietà infinita delle situazioni concrete dei giustiziabili.
    1. Peraltro il Governo ricorda che, secondo la giurisprudenza della Corte, non è possibile presumere che l’accusato abbia voluto sottrarsi alla giustizia in presenza di evidenti manchevolezze nelle ricerche condotte per ritrovarlo. Inoltre, l’accusato deve avere la possibilità di confutare qualsiasi presunzione di questo tipo senza eccessivi ostacoli e senza dover sopportare un onere della prova esorbitante. Ora, il sistema previsto dall’articolo 175 del CPP rispondeva a queste esigenze.
    2. Emerge da un’analisi grammaticale del paragrafo 2 di questa norma (come era in vigore prima della riforma del 2005), confermata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione prodotta dal Governo innanzi alla Corte (precedenti paragrafi 23 e 24), che la sola prova che doveva essere fornita da colui che presentava domanda di restituzione nel termine era quella di non aver avuto una effettiva conoscenza del provvedimento di condanna. Si trattava di una prova molto facile da fornire in quanto, nella maggior parte di casi, essa derivava dalla modalità stessa con la quale erano state eseguite le notificazioni. Al richiedente era sufficiente presentare – senza essere obbligato a provarle – le ragioni che gli avevano impedito di essere informato della sentenza in tempo utile per propone appello. La sua eventuale conoscenza degli altri atti procedurali, così come il fatto che queste ragioni potessero derivare da una mancanza di diligenza da parte sua, non implicavano il rigetto della domanda. In effetti, la riapertura del termine per l’appello poteva essere concessa anche in caso di ignoranza colpevole della sentenza. L’ignoranza colpevole impediva la restituzione nel termine soltanto nell’ipotesi – non pertinente nella presente fattispecie – in cui l’avvocato del condannato avesse presentato appello.
    3. Di fronte a quanto sostenuto dal condannato, spetta alla procura della Repubblica fornire (e ai giudici valutare) la prova che il ricorrente fosse latitante e che quindi si era sottratto consapevolmente e volontariamente alla notificazione degli atti. In altri termini, se voleva ottenere il rigetto della domanda di restituzione nel termine, la procura doveva dimostrare che, se la sentenza era stata notificata all’avvocato dell’imputato, l’ignoranza di quest’ultimo non era semplicemente dovuta a negligenza, ma era volontaria. Per provare il dolo dell’accusato, la procura non poteva basarsi su semplici presunzioni.

2.        Il ricorrente

  1. Il ricorrente si oppone alla tesi del Governo. Egli sostiene che non aveva nessuna possibilità di ottenere la riapertura della sua causa e che non è stato informato dell’esistenza di un ricorso interno. Peraltro, egli ignorava di essere considerato

latitante» e che a suo carico vi fosse un procedimento penale pendente.

  1. Il ricorrente osserva che non ha mai avuto conoscenza della sentenza emessa dalla corte d’assise di Roma. In effetti, questa sentenza non gli è mai stata notificata, visto che al momento del suo arresto in Germania, nei suoi confronti è stato emesso soltanto un mandato di arresto internazionale che indicava che era stato condannato ad una pena di ventuno anni e otto mesi di reclusione. Del resto, sarebbe impossibile per lui provare che non era a conoscenza dei fatti e del procedimento diretto contro di lui.

C. Valutazione della Corte

  1. La Corte osserva che l’eccezione di mancato esaurimento formulata dal Governo comporta due aspetti. Questa eccezione si fonda sul fatto che il ricorrente ha omesso di usare i ricorsi previsti rispettivamente dagli articoli 670 e 175 del CPP.
    1. Per quanto il Governo invochi la prima di queste nonne, la Corte ricorda che ai sensi dell’articolo 55 del suo regolamento, se la Parte contraente convenuta intende sollevare una eccezione di irricevibilità, essa deve farlo nelle osservazioni scritte o orali sulla ricevibilità del ricorso da lei presentate (K. e T. c. Finlandia [GC], n° 25702/94, § 145, CEDH 2001-VII, e N C. c. Italia [GC], ri 24952/94, § 44, CEDH 2002-X). Ora, nelle sue osservazioni scritte sulla ricevibilità, il Governo non ha sostenuto che il ricorrente avrebbe potuto avvalersi del ricorso previsto dall’articolo 670 del CPP. Peraltro, la Corte non può individuare nessuna circostanza eccezionale che possa esonerare il Governo dall’obbligo di sollevare la sua eccezione preliminare prima dell’adozione della decisione della camera sulla ricevibilità del ricorso dell’11 settembre 2003

(Prokopovich c. Russia, ri 58255/00, § 29, 18 novembre 2004).

  1. Di conseguenza, a questo stadio della procedura, è precluso al Governo formulare una eccezione preliminare fondata sul mancato esaurimento del ricorso interno previsto dall’articolo 670 del CPP (vedere, mutatis mutandis, Bracci c. Italia, n° 36822/02, §§ 35-37, 13 ottobre 2005). Ne consegue che, per quanto essa si fondi sull’omissione di sollevare un incidente di esecuzione, l’eccezione preliminare del Governo deve essere rigettata.
  2. Quanto al ricorso previsto dall’articolo 175 del CPP, la Corte ricorda che la regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne tende ad offrire agli Stati contraenti l’occasione di prevenire o di riparare le violazioni sostenute contro di loro prima che queste allegazioni le vengano sottoposte (vedere, fra molte altre, Selmouni c. Francia [GC], n° 25803/94, § 74, CEDH 1999-V, e Remli c. Francia, 23 aprile 1996, Recueil des arréts et décisions 1996-II, p. 571, § 33). Questa regola si fonda sull’ipotesi, oggetto dell’articolo 13 della Convenzione – e con il quale essa presenta strette affinità -, che l’ordinamento interno offra un ricorso effettivo per la violazione allegata (Kudla c. Polonia [GC], n° 30210/96, § 152, CEDH 2000-XI). In questo modo, essa costituisce un aspetto importante del principio secondo il quale il meccanismo di salvaguardia instaurato dalla Convenzione riveste un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei diritti dell’uomo (Akdivar e altri c. Turchia, sentenza del 16 settembre 1996, Recueil 1996-IV, p. 1210, § 65).
    1. Nell’ambito del dispositivo di protezione dei diritti dell’uomo, la regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne deve essere applicata con una certa flessibilità e senza eccessivo formalismo. AI tempo stesso essa obbliga, per principio, a sollevare davanti alle giurisdizioni nazionali competenti, almeno in sostanza, nelle forme e nei termini stabiliti dal diritto interno, le contestazioni che si intendono poi formulare a livello internazionale (vedere, fra molte altre, Azinas c. Cipro [GC], n° 56679/00, § 38, CEDH 2004-III, e Fressoz e Roire c. Francia [GC], n° 29183/95, § 37, CEDH 1999-I).
    2. Tuttavia, l’obbligo derivante dall’articolo 35 si limita a quello di fare un uso normale dei ricorsi verosimilmente efficaci, sufficienti e accessibili (Soffi e altri c. Italia (dec.), n° 37235/97, CEDH 2003-VIII). In particolare, la Convenzione prescrive solo l’esaurimento dei ricorsi relativi alle violazioni incriminate, che siano al tempo stesso disponibili e adeguati. Essi devono esistere con un sufficiente grado di certezza non soltanto in teoria ma anche in pratica, senza di ciò mancano loro l’effettività e l’accessibilità richieste (Dalia c. Francia, sentenza del 19 febbraio 1998, Recueil 1998-I, pp. 87-88, § 38). Inoltre, secondo i «principi di diritto intemazionale generalmente riconosciuti», alcune circostanze particolari possono dispensare il ricorrente dall’obbligo di esaurire le vie di ricorso interne che gli si offrono (Ahoy c. Turchia, sentenza del 18 dicembre 1996, Recueil 1996-VI, p. 2276, § 52). Tuttavia, il semplice fatto di nutrire dei dubbi circa le prospettive di successo di un dato ricorso che non è di tutta evidenza votato all’insuccesso non costituisce una valida ragione per giustificare la mancata utilizzazione dei ricorsi interni (Sardinas Albo c. Italia (dec.), n° 56271/00, CEDH 2004-I ; Brusco c. Italia (dec.), n°69789/01, CEDH 2001-IX).
      1. Infine, l’articolo 35 § 1 della Convenzione prevede una ripartizione dell’onere della prova. Spetta al Governo che eccepisce il mancato esaurimento convincere la Corte che il ricorso era effettivo e disponibile sia in teoria che in pratica all’epoca dei fatti, ossia che era accessibile, che poteva offrire al ricorrente una riparazione alle sue doglianze e presentava ragionevoli prospettive di successo (Akdivar e altri, prima citato, p. 1211, § 68).
      2. Nella fattispecie, la Corte osserva che, se una domanda per la restituzione nel termine introdotta ai sensi dell’articolo 175 del CPP è accolta, il termine viene riaperto, cosa che conferisce al condannato in contumacia in primo grado la possibilità di sostenere i suoi mezzi di appello alla luce della motivazione della sentenza emessa a suo carico e di presentare, nel processo d’appello, gli elementi di fatto e di diritto che ritiene necessari per la sua difesa. Tuttavia, nelle circostanze particolari della causa, dove la sentenza pronunciata in contumacia era stata notificata all’avvocato d’ufficio, la domanda in questione poteva essere presa in considerazione solo a due condizioni: che il condannato provasse che non aveva avuto una effettiva conoscenza del provvedimento e che non si era rifiutato volontariamente di prendere conoscenza degli atti della procedura.
      3. Se la prima di queste condizioni avrebbe potuto essere provata dal ricorrente semplicemente in base al fatto che la sentenza di condanna non gli è stata notificata personalmente prima della data in cui questa è diventata definitiva, non è così per la seconda. In effetti, il ricorrente era diventato irreperibile subito dopo l’assassinio di M.S. commesso in presenza di testimoni che l’accusavano, fatto che avrebbe potuto indurre le autorità giudiziarie italiane a ritenere che si fosse sottratto volontariamente alla giustizia.
      4. Dinanzi alla Corte, il Governo si è sforzato di dimostrare, sulla base di un’analisi grammaticale del testo dell’articolo 175 § 2 del CPP così come era in vigore all’epoca dell’arresto del ricorrente, che la prova della seconda condizione non era a carico del condannato. Secondo il Governo, al contrario, è la procura che doveva fornire, eventualmente, degli elementi che potevano indurre a pensare che l’accusato si fosse consapevolmente rifiutato di prendere conoscenza delle accuse e della sentenza. Tuttavia, questa interpretazione sembra smentita dalla nota della procura della Repubblica di Roma, dove veniva precisato che «affinché un tribunale accetti di riesaminare la causa, è indispensabile che sia certo dell’erroneità della dichiarazione secondo la quale l’imputato era latitante » (precedente paragrafo 18).
      5. E’ vero che davanti alla Grande Camera il Governo ha prodotto una giurisprudenza interna che conferma la sua interpretazione. Tuttavia, è opportuno notare che solo la sentenza della prima sezione della Corte di cassazione nella causa Soldati precisa in maniera esplicita la ripartizione dell’onere della prova in una situazione simile a quella del ricorrente. Ora, questa sentenza, che non cita nessun precedente su questo punto, è stata emessa solo il 25 novembre 2004, ossia più di cinque anni dopo l’arresto del ricorrente in Germania (precedenti paragrafi 17 e 24). Potrebbero così sorgere dei

        57. Il ricorrente si lamenta     per essere stato condannato in contumacia senza avere

        dubbi circa la norma che sarebbe stata applicata nel momento in cui si riteneva che il ricorrente facesse uso del ricorso previsto dall’articolo 175 del CPP.

 

  1. La Corte ritiene che l’incertezza sulla ripartizione dell’onere della prova per quanto riguarda la seconda condizione è un elemento da prendere in considerazione per valutare l’efficacia del ricorso invocato dal Governo. Nella presente causa, la Corte non è convinta che, per l’incertezza sulla ripartizione dell’onere della prova prima menzionata, il ricorrente non avrebbe incontrato serie difficoltà a fornire, su richiesta del giudice o di fronte alle contestazioni della procura, delle spiegazioni convincenti circa le ragioni che l’avevano spinto, poco tempo dopo l’assassinio di M.S., a lasciare il suo domicilio senza comunicare indirizzi e a recarsi in Germania.
  2. Ne consegue che, nelle particolari circostanze della fattispecie, una domanda di restituzione nel termine avrebbe potuto avere poche possibilità di riuscita.
  3. La Corte ritiene opportuno esaminare anche se la via di ricorso controversa era, in pratica, accessibile per il ricorrente. A tal proposito, essa nota che quest’ultimo è stato arrestato in Germania il 22 settembre 1999, ossia poco più di sette anni dopo l’assassinio di M.S. (precedenti paragrafi 11 e 17). Essa ritiene ragionevole credere che, durante la sua detenzione a fini estradizionali, il ricorrente sia stato informato delle ragioni della sua privazione della libertà e soprattutto dell’esistenza di una condanna emessa a suo carico in Italia. Peraltro, il 22 marzo 2000, sei mesi dopo il suo arresto, il ricorrente ha introdotto, tramite il suo avvocato, un ricorso a Strasburgo con il quale lamenta di essere stato condannato in contumacia. Il suo legale ha prodotto innanzi alla Corte alcuni estratti della sentenza della Corte d’assise di Roma del 2 luglio 1996.
  4. Ne consegue che si sarebbe potuto ritenere che, poco dopo il suo arresto in Germania, il ricorrente avesse <mna conoscenza effettiva della sentenza», e che a partire da questo momento disponesse, ai sensi del terzo paragrafo dell’articolo 175 del CPP, di dieci giorni soltanto per introdurre la sua domanda di restituzione nel termine. Niente nel fascicolo lascia pensare che fosse stato informato della possibilità di riaprire il termine per impugnare la sua condanna, che era ufficialmente definitiva, e del breve termine per tentare un ricorso su questo punto. Inoltre, la Corte non può trascurare le difficoltà che una persona detenuta in un paese straniero avrebbe verosimilmente incontrato per mettersi rapidamente in contatto con un avvocato esperto nel diritto italiano al fine di informarsi sulle pratiche giuridiche da compiere per ottenere la riapertura del suo processo e allo stesso tempo fornire al suo legale elementi di fatto precisi e istruzioni dettagliate.
  5. In definitiva, la Corte ritiene che nel presente caso il ricorso indicato dal Governo era votato all’insuccesso e che il suo utilizzo da parte del ricorrente trovava ostacoli oggettivi. Essa conclude quindi nell’esistenza di circostanze particolari tali da dispensare il ricorrente dall’obbligo di esaurire il ricorso previsto dall’articolo 175 § 2 del CPP.
  6. Ne consegue che il secondo aspetto dell’eccezione preliminare del Governo orientato sull’omissione di introdurre una domanda di restituzione nel termine, deve essere così rigettato.

II. SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 DELLA CONVENZIONE

57. Il ricorrente si lamenta per essere stato condannato in contumacia senza avere avuto la possibilità di presentare la propria difesa dinanzi alle giurisdizioni italiane. Egli invoca l’articolo 6 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, recita :

« 1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, (…), da un tribunale (…)

il quale sia chiamato a pronunciarsi (…) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. (…)

  1. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.
    1. In particolare, ogni accusato ha diritto di:

a)    essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico ;

b)   disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa ;

c)    difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi

per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia ;

d)   esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;

e)    farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza. »

A. Sentenza della camera

 

58. La camera ha concluso che vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione. Essa ha ritenuto che il ricorrente, che non era mai stato ufficialmente informato dell’azione penale avviata nei suoi confronti, non poteva essere considerato come un imputato che ha rinunciato in maniera non equivoca al proprio diritto di comparire in udienza. Inoltre, il diritto interno non gli offriva, con un sufficiente grado di certezza, la possibilità di ottenere un nuovo processo in sua presenza. Tale possibilità era subordinata alle prove che potevano essere fornite dalla procura o dal condannato relativamente alle circostanze della dichiarazione di latitanza, e non soddisfaceva i requisiti dell’articolo 6 della Convenzione.

B. Argomenti delle parti

1. Il Governo

 

  1. Il Governo ricorda che la Corte ha concluso che vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione nelle cause in cui l’assenza di un imputato al dibattimento era disciplinata dal vecchio codice di procedura penale (Colozza c. Italia, sentenza del 12 febbraio 1985, serie A n° 89, T. c. Italia, sentenza del 12 ottobre 1992, serie A n° 245-C, e F.C.B. c. Italia, sentenza del 28 agosto 1991, serie A n° 208-B). Le nuove norme processuali introdotte da allora e le circostanze particolari del caso del sig. Sejdovic distinguerebbero, secondo il Governo, la presente causa da quelle sopra citate. In effetti, in queste ultime vi erano degli elementi che facevano dubitare che i ricorrenti si fossero volontariamente sottratti alla giustizia o che avessero avuto la possibilità di partecipare al processo, o che facevano ritenere che le autorità erano state negligenti nella ricerca degli imputati.
  2. Nel vecchio sistema, un imputato irreperibile era assimilato a un fuggitivo, e, in presenza di una notifica regolare nella forma, era esclusa ogni possibilità di restituzione nel termine. Con il regime introdotto dal nuovo codice, le autorità devono invece procedere a ricerche approfondite dell’imputato, reiterate in ogni fase del procedimento, ed è possibile ottenere la restituzione nel termine per propone impugnazione anche quando la notifica non è viziata da alcuna irregolarità.
  3. Nella fattispecie, gli atti processuali sono stati notificati all’avvocato del ricorrente poiché quest’ultimo era stato dichiarato latitante. Prima di giungere a una tale dichiarazione, le autorità avevano cercato l’interessato nel campo nomadi in cui si presumeva fosse residente.
  4. Secondo il Governo, le circostanze particolari della causa dimostrano che il ricorrente si è volontariamente sottratto alla giustizia. Vari elementi militano in tal senso : il ricorrente si trovava in una situazione delicata e aveva un interesse evidente a non assistere all’udienza ; egli non ha fornito alcuna giustificazione plausibile per spiegare perché, subito dopo un omicidio di cui alcuni testimoni oculari gli hanno attribuito la responsabilità, si era precipitosamente allontanato dalla sua residenza abituale senza lasciare indirizzo o una minima traccia; prima di essere fermato dalla polizia tedesca, egli non si è mai manifestato e non ha mai chiesto un nuovo processo.
  5. Dalla sentenza Medenica c. Svizzera (n° 20491/92, CEDH 2001-VI) risultava che l’intenzione di sottrarsi alla giustizia neutralizza, sul piano della Convenzione, il diritto del condannato in contumacia a un nuovo processo. Al riguardo, il Governo sottolinea che la Corte ha confermato l’opinione delle autorità elvetiche secondo cui il processo in contumacia era legittimo e la sua riapertura non era necessaria in quanto il sig. Medenica si trovava per sua colpa nell’impossibilità di comparire e non aveva fornito nessuna giustificazione valida per motivare la propria assenza. Inoltre, la presunzione secondo cui un imputato si è sottratto alla giustizia non è irrefragabile. In effetti, il condannato può sempre fornire spiegazioni, affermando di non aver mai avuto conoscenza dell’azione penale e, di conseguenza, di non aver mai avuto intenzione di fuggire, oppure invocando un legittimo impedimento. Sarebbe dunque la procura, se del caso, a dover cercare di dimostrare il contrario, e le autorità giudiziarie a dover valutare la pertinenza delle spiegazioni fornite dall’interessato.
  6. E vero che, a differenza dei ricorrente, il sig. Medenica era ufficialmente al corrente dell’esistenza dell’azione penale e della data del dibattimento. La camera ne ha dedotto che non si poteva attribuire al ricorrente la volontà di sottrarsi alla giustizia. La conclusione della camera si baserebbe sulle cause T. e F.C.B. c. Italia, in cui la Corte si era rifiutata di attribuire una qualsiasi importanza alla conoscenza indiretta che i ricorrenti avevano avuto o potuto avere dell’azione penale avviata nei loro confronti e della data dell’udienza. Se l’eccesso di formalismo e la severità che avrebbe dimostrato la Corte in queste due cause si possono comprendere alla luce della legislazione vigente in Italia all’epoca dei fatti, oggi essi non possono essere accettati.
  7. Certo, non si può far derivare da una notifica puramente formale (come quella effettuata nella fattispecie, in cui gli atti sono stati consegnati all’avvocato nominato d’ufficio) una presunzione legittima irrefragabile di conoscenza dell’azione penale. Tuttavia, una presunzione di non conoscenza dell’azione penale è altrettanto ingiustificata. Essa equivarrebbe a negare che un imputato possa avere conoscenza dell’azione penale quando sussiste la prova della sua colpevolezza e della sua fuga (come nell’ipotesi in cui un criminale fugga dalla polizia che lo insegue immediatamente dopo il delitto, o quando un imputato dichiari per iscritto la propria colpevolezza, il suo disprezzo per le vittime e la sua intenzione di rimanere irreperibile). Secondo il Governo, la semplice assenza di notifica al condannato non basterebbe, da sola, a dimostrare la buona fede di un ricorrente; ci vorrebbero anche altri elementi che dimostrino l’esistenza di una negligenza da parte delle autorità.
  8. Pertanto, sarebbe opportuno optare per una scelta più equilibrata : usare il buon senso e adottare – almeno provvisoriamente – l’ipotesi della fuga quando essa è giustificata alla luce delle circostanze particolari della causa, viste secondo la logica e l’esperienza comune, e cercare di suffragarla con elementi concreti. In particolare, non è contrario alla presunzione di innocenza supporre la fuga quando una persona si rende irreperibile immediatamente dopo la commissione di un reato di cui essa è accusata. Una tale supposizione è rafforzata se la persona viene poi riconosciuta colpevole sulla base delle prove prodotte al dibattimento e non fornisce alcuna spiegazione pertinente sui motivi che l’hanno spinta a lasciare il proprio domicilio. Questo sarebbe avvenuto precisamente nel caso del ricorrente, in cui la Corte d’assise di Roma avrebbe accuratamente stabilito i fatti basandosi sulle deposizioni di vari testimoni oculari.
  9. Se si ritenesse che, in assenza di informazioni ufficiali sulle accuse e sulla data dell’udienza, il condannato ha «in qualsiasi circostanza » un diritto «incondizionato» a un secondo giudizio, si priverebbe lo Stato della possibilità di fornire la prova di un fatto : la conoscenza dell’esistenza dell’azione penale. Ciò sarebbe contrario alla funzione di qualsiasi procedura giudiziaria – quella di cercare la verità – e si tradurrebbe in un diniego di giustizia o in un supplemento di angoscia per le vittime. Per di più, si verificherebbero delle conseguenze paradossali : gli imputati più rapidi e abili a sparire sarebbero privilegiati rispetto a quelli che si lasciano sorprendere da una prima notifica. Se le cose stessero in questo modo, l’imputato sarebbe il solo arbitro della validità del proprio processo, e i colpevoli sarebbero posti in una situazione più favorevole rispetto a quella degli innocenti. Inoltre, quei soggetti che hanno voluto consapevolmente sottrarsi alla giustizia potrebbero avvalersi di un diritto «che la logica e il sentimento della giustizia fanno fatica a riconoscere loro » : intralciare il ruolo dei tribunali e tormentare ulteriormente le vittime e i testimoni.
  10. Inoltre, non si dovrebbe dimenticare che, nelle cause Poitrimol a Francia (sentenza del 23 novembre 1993, serie A n. 277-A) e Lala e Pelladoah c. Olanda (sentenze del 22 settembre 1994, serie A n. 297-A e 297-B), la Corte ha aggiunto al diritto di comparire il dovere corrispondente. In tal modo, essa ha ammesso che le assenze ingiustificate potevano essere sconsigliate e ha ritenuto che era lecito per gli Stati impone all’imputato l’onere di giustificare la sua assenza, e giudicare poi il valore di tali spiegazioni. È vero che nelle cause suddette la Corte aveva concluso che le sanzioni imposte agli imputati (impossibilità di farsi difendere da un avvocato) erano sproporzionate ; essa, tuttavia, ha implicitamente ammesso che l’articolo 6 non sarebbe stato violato se i diritti degli imputati assenti fossero stati limitati rispettando un giusto equilibrio.
  11. Nella giurisprudenza sopra citata, la Corte ha anche posto nuovamente l’accento sulla difesa da parte di un avvocato. In particolare, essa ha concluso che tra l’importanza «fondamentale» della comparizione dell’imputato e l’importanza «cruciale» della sua difesa, quest’ultima esigenza deve prevalere. La presenza attiva di un difensore basterebbe dunque a ristabilire l’equilibrio tra la reazione legittima dello Stato di fronte alla non comparizione ingiustificata di un imputato e il rispetto dei diritti sanciti dall’articolo 6 della Convenzione.
  12. Nella fattispecie, dinanzi alla corte d’assise di Roma il ricorrente è stato rappresentato da un avvocato nominato d’ufficio, che ha assicurato una difesa effettiva e adeguata chiedendo la convocazione di vari testimoni. Tale avvocato difendeva anche altre persone imputate nell’ambito dello stesso procedimento, di cui alcune furono assolte.
  13. In ogni caso, il Governo ritiene che il diritto italiano offrisse al ricorrente una possibilità reale di ottenere un nuovo processo in sua presenza. A tale riguardo, bisognerebbe distinguere due situazioni. Se le notifiche non sono state effettuate rispettando i requisiti formali, il procedimento è inficiato di nullità assoluta, il che, ai sensi degli articoli 179 e 670 del CPP, impedisce alla decisione di diventare esecutiva.
  14. Al contrario, quando, come nella fattispecie, la citazione a comparire è stata notificata conformemente al diritto nazionale, si applica l’articolo 175 del CPP. Il Governo ribadisce, a questo proposito, le osservazioni fatte nell’ambito della propria eccezione preliminare (paragrafi 32-37 supra) e sottolinea che il ricorrente appartiene a una popolazione la cui cultura è, per tradizione, nomade, il che potrebbe contribuire a spiegare la sua assenza dal proprio domicilio.
  15. Secondo il Governo, il meccanismo previsto dall’articolo 175 del CPP e le norme in materia di onere della prova che ne derivano non violano in alcun modo il principio generale secondo il quale è chi accusa a dover fornire la prova a carico e non l’imputato a dover fornire quella a discarico. In effetti, nella causa John Murray c. Regno Unito (sentenza dell’8 febbraio 1996, Raccolta 1996-I), la Corte ha ritenuto che era legittimo esigere delle spiegazioni da parte di un imputato e trarre conclusioni dal suo silenzio quando le circostanze richiedevano con ogni evidenza tali spiegazioni. Se ciò è ammesso per quanto riguarda il fondamento di un’accusa, deve a maggior ragione essere così quando si tratta di stabilire un fatto (l’ignoranza colpevole) accessorio e che rientra nel campo della procedura.

2. Il ricorrente

  1. Il ricorrente afferma che il suo diritto ad un processo equo è stato violato poiché egli non è stato informato delle accuse formulate a suo carico. Egli sostiene che la difesa assicurata dall’avvocato nominato d’ufficio non può essere considerata efficace e adeguata se si considera che, tra gli imputati che quest’ultimo rappresentava, quelli che erano presenti sono stati assolti e quelli che erano assenti sono stati condannati. Inoltre, il ricorrente non sapeva di essere rappresentato da quell’avvocato. Pertanto, non aveva alcun motivo per contattare quest’ultimo o le autorità italiane. Se avesse saputo di essere imputato, avrebbe potuto nominare un difensore di fiducia con piena cognizione di causa.
  2. Il ricorrente sostiene che le autorità italiane sono partite dall’idea che egli era colpevole perché era assente. Tuttavia, poiché il procedimento nei suoi confronti non è stato conforme alla Convenzione, vi sarebbe stata violazione della presunzione di innocenza. Inoltre, non si può concludere che egli ha tentato di sottrarsi alla giustizia quando non è stato inizialmente sentito. Una simile conclusione da parte delle autorità italiane sarebbe tanto più irragionevole se si considera che, al momento del suo arresto, egli era legittimamente residente in Germania con la sua famiglia, e il suo domicilio era regolarmente registrato presso la polizia. In ogni caso, il Governo non può provare che egli è fuggito per sottrarsi all’azione penale avviata nei suoi confronti.
  3. Il ricorrente sostiene infine che la sua identificazione da parte delle autorità italiane è stata imprecisa e dubbia, e che il suo fascicolo non conteneva né la sua foto, né le sue impronte digitali.

C. Terzo interveniente

  1. Il Governo della Repubblica slovacca osserva che, nella causa Medenica c. Svizzera, la Corte ha concluso che non vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione poiché il ricorrente non era stato in grado di giustificare la propria assenza e nulla permetteva di concludere che quest’ultima fosse dovuta a cause indipendenti dalla sua volontà. Pertanto, rifiutargli il diritto a un nuovo processo non era una reazione sproporzionata.
  2. Se si dovesse ritenere che in assenza di notifica ufficiale il diritto a un nuovo processo è automatico, coloro che sono stati informati dell’azione penale beneficerebbero di garanzie meno estese rispetto alle persone resesi irreperibili subito dopo aver commesso il reato. In effetti, la Corte autorizzerebbe solo nel primo caso le autorità nazionali a porsi il problema di stabilire se il condannato ha effettivamente rinunciato alle garanzie di un processo equo. Nel secondo caso, sarebbe vietato esaminare, basandosi sui fatti, i motivi per cui l’imputato era irreperibile. Un imputato non informato sarebbe sempre trattato come una persona irreperibile per cause indipendenti dalla sua volontà, ma non come una persona che si sia sottratta al procedimento dopo essere venuta a conoscenza di quest’ultimo.
  3. Secondo il Governo slovacco, si pone il problema di stabilire se ciò sia conforme alla giurisprudenza Colozza, in cui la Corte aveva sottolineato che vietare qualsiasi procedimento in contumacia rischiava di paralizzare l’esercizio dell’azione penale provocando, ad esempio, l’alterazione delle prove, la prescrizione del reato o un diniego di giustizia. Per di più, la distinzione sopra descritta comporterebbe un trattamento uguale di situazioni diverse e un trattamento diverso di situazioni analoghe, senza che ciò abbia una giustificazione oggettiva o razionale. Le sue conseguenze, pertanto, sono inique. Al riguardo, il governo slovacco osserva che il sig. Medenica avrebbe beneficiato di più diritti se si fosse reso irreperibile dopo il reato. Inoltre, bisogna tenere conto del fatto che varie persone colte in flagranza di reato riescono a fuggire.
  4. Secondo il parere del governo slovacco, le autorità dovrebbero sempre avere il diritto di esaminare alla luce delle circostanze particolari di ciascuna causa le ragioni dell’impossibilità di trovare l’imputato, e il diritto di ritenere che quest’ultimo ha rinunciato alle garanzie dell’articolo 6 o si è sottratto alla giustizia. In questo caso, dovrebbe essere legittimo per la legislazione nazionale rifiutare un nuovo processo, nel rispetto degli interessi superiori della collettività e nella realizzazione dell’obiettivo dell’azione penale. Il compito della Corte sarebbe allora quello di assicurarsi che le conclusioni delle autorità nazionali non siano né arbitrarie né fondate su premesse manifestamente errate.

 

D. Valutazione delta Corte

1. Principi generali in materia di processo in contumacia

a) Diritto di partecipare all’udienza e diritto a un nuovo processo

  1. Sebbene non menzionata espressamente nel paragrafo 1 dell’articolo 6, la facoltà per l’« imputato » di partecipare all’udienza deriva dall’oggetto e dallo scopo dell’articolo nel suo insieme. Del resto, i commi c), d) ed e) del paragrafo 3 riconoscono a « ogni imputato » il diritto di « difendersi personalmente o, di « esaminare o far esaminare i testimoni » e di « farsi assistere gratuitamente da un interprete, se non comprende o non parla la lingua usata in udienza », il che non è concepibile senza la sua presenza (Colozza già cit., p. 14, § 27 ; T. c. Italia già cit., p. 41, § 26 ; F.C.B. c. Italia già cit., p. 21, § 33 ; v. anche Belziuk e. Polonia, sentenza del 25 marzo 1998, Raccolta 1998-II, p. 570, § 37).
  2. Se un procedimento che si svolge in assenza dell’imputato non è di per sé incompatibile con l’articolo 6 della Convenzione, rimane tuttavia il fatto che vi è diniego di giustizia quando una persona condannata in absentia non può ottenere in seguito che una giurisdizione deliberi nuovamente, dopo averlo sentito, sul fondamento dell’accusa, in fatto e in diritto, quando non è accertato che egli ha rinunciato al proprio diritto di comparire e di difendersi (Colozza già cit., p. 15, § 29 ; Einhorn c. Francia (dec.), n° 71555/01, § 33, CEDH 2001-XI; Krombach c. Francia, n° 29731/96, § 85, CEDH 2001-II ; Somogyi c. Italia, n° 67972/01, § 66, CEDH 2004-IV), o che aveva l’intenzione di sottrarsi alla giustizia (Medenica già cit., § 55).
  3. La Convenzione lascia agli Stati contraenti une grande libertà nella scelta dei mezzi idonei a permettere ai rispettivi sistemi giudiziari di rispondere ai requisiti dell’articolo 6. È la Corte a dover stabilire se il risultato perseguito dalla Convenzione sia stato raggiunto. In particolare, è necessario che i mezzi processuali offerti dal diritto e dalla prassi interni si rivelino effettivi se l’imputato non ha né rinunciato a comparire e a difendersi, né ha avuto l’intenzione di sottrarsi alla giustizia (Somogyi già cit., § 67).
  4. Inoltre, la Corte ha ritenuto che l’obbligo di garantire all’imputato il diritto di essere presente in sala di udienza – sia nel corso del primo procedimento nei suoi confronti, sia nel corso di un nuovo processo – è uno degli elementi essenziali dell’articolo 6 (Stoichkov c. Bulgaria, ri 9808/02, § 56, 24 marzo 2005). Pertanto, il rifiuto di riaprire un procedimento che si è svolto in contumacia in assenza di qualsiasi indicazione che l’imputato aveva rinunciato al suo diritto di comparire è stato considerato come un «flagrante diniego di giustizia », il che corrisponde alla nozione di procedimento «manifestamente contrario alle disposizioni dell’articolo 6 o ai principi in esso enunciati » (Stoichkov già cit., §§ 54-58).
  5. La Corte ha anche ritenuto che la restituzione nel termine per proporre impugnazione contro la condanna contumaciale, con la facoltà, per l’imputato, di essere presente all’udienza di secondo grado e di chiedere la produzione di nuove prove, si traduceva nella possibilità di una nuova decisione sul fondamento dell’accusa in fatto e in diritto, il che permetteva di concludere che, nell’insieme, il procedimento era stato equo (Jones c. Regno Unito (dec.), n° 30900/02, 9 settembre 2003).

b) Rinuncia al diritto di comparire

  1. Né il testo né lo spirito dell’articolo 6 della Convenzione impediscono a una persona di rinunciare spontaneamente alle garanzie di un processo equo in maniera espressa o tacita (Kwiatkowska c. Italia (dec.), n° 52868/99, 30 novembre 2000). Tuttavia, per essere presa in considerazione sotto il profilo della Convenzione, la rinuncia al diritto di partecipare all’udienza deve essere stabilita in modo non equivoco ed essere accompagnata da un minimo di garanzie corrispondenti alla sua gravità (Poitrimol c. Francia, sentenza del 23 novembre 1993, serie A n° 277-A, pp. 13-14, § 31). Inoltre, essa non deve cozzare contro alcun interesse pubblico importante (Hàkansson e Sturesson c. Svezia, sentenza del 21 febbraio 1990, serie A n° 171-A, p. 20, § 66).
  2. La Corte ha ritenuto che, quando non si trattava di un imputato che ha ricevuto una notifica ad personam, la rinuncia a comparire e a difendersi non poteva essere dedotta dalla semplice qualità di «latitante », fondata su una presunzione sprovvista di una sufficiente base fattuale (Colozza già cit., pp. 14-15, § 28). Essa ha avuto anche occasione di sottolineare che prima che si possa considerare che un imputato ha implicitamente rinunciato, con il proprio comportamento, a un diritto importante sotto il profilo dell’articolo 6 de la Convenzione, è necessario stabilire che egli avrebbe potuto ragionevolmente prevedere le conseguenze del comportamento in questione (Jones, decisione sopra cit.).

88. Inoltre, è necessario che non sia l’imputato a dover dimostrare che non intendeva sottrarsi alla giustizia, o che la sua assenza era dovuta a un caso di forza maggiore (Colozza già cit., p. 16, § 30). Allo stesso tempo, le autorità nazionali possono legittimamente valutare se le giustificazioni fornite dall’imputato per motivare la sua assenza siano valide o se gli elementi versati agli atti permettano di concludere che la sua assenza era indipendente dalla sua volontà (Medenica già cit., § 57).

c) Diritto dell’imputato di essere informato delle accuse mosse nei suoi confronti

89. Ai sensi del comma a) del terzo paragrafo dell’articolo 6 de la Convention, ogni imputato ha il diritto di «essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa fonnulata a suo carico ». Tale disposizione mostra la necessità di provvedere con un’attenzione estrema a notificare l’« accusa» all’interessato. L’atto d’accusa svolge un ruolo determinante nel procedimento penale : a decorrere dalla sua notifica, la persona indagata è ufficialmente informata della base giuridica e fattuale delle accuse formulate a suo carico (Kamasinski c. Austria, sentenza del 19 dicembre 1989, serie A n° 168, pp. 36-37, § 79).

90. La portata di questa disposizione deve essere valutata in particolare alla luce del diritto più generale ad un processo equo sancito dal paragrafo 1 dell’articolo 6 della Convenzione. In materia penale, un’informazione precisa e completa sulle accuse che gravano su un imputato, e dunque sulla qualificazione giuridica che la giurisdizione potrebbe adottare nei suoi confronti, è una condizione essenziale dell’equità del procedimento (Pélissier e Sassi c. Francia [GC], n° 25444/94, § 52, CEDH 1999-II).

d) Rappresentanza da parte di un avvocato degli imputati giudicati in contumacia

91. Sebbene non sia assoluto, il diritto di ogni imputato di essere effettivamente difeso da un avvocato, se necessario nominato d’ufficio, fa parte degli elementi fondamentali del processo equo (Poitrimol già cit., p. 14, § 34). Un imputato non perde il beneficio di tale diritto solo per essere assente al dibattimento (Mariani c. Francia, n° 43640/98, § 40, 31 marzo 2005). È infatti di fondamentale importanza per l’equità del sistema penale che l’imputato sia adeguatamente difeso sia in primo grado che in appello (Lala già cit., p. 13, § 33, e Pelladoah già cit., pp. 34-35, § 40).

92. Nello stesso tempo, la comparizione di un imputato riveste un’importanza fondamentale sia a causa del diritto di quest’ultimo di essere sentito, sia per la necessità di controllare l’esattezza delle affermazioni e di confrontarle con le dichiarazioni della vittima, di cui è opportuno difendere gli interessi, e dei testimoni. Pertanto, il legislatore deve poter scoraggiare le astensioni ingiustificate, a condizione che le sanzioni non si rivelino sproporzionate nelle circostanze della causa e che l’imputato non sia privato del diritto all’assistenza di un difensore (Krombach già cit., §§ 84, 89 e 90, Van Geyseghem c. Belgio [GC], ri 26103/95, § 34, CEDH 1999-I, e Poitrimol già cit., p. 15, § 35).

93. Spetta alle giurisdizioni il compito di assicurare l’equità di un processo e, di conseguenza, di vigilare affinché un avvocato che, evidentemente, vi assiste per difendere il suo cliente in assenza di quest’ultimo, abbia l’occasione di farlo (Van Geyseghem già cit., § 33, Lala già cit., p. 14, § 34, e Pelladoah già cit., p. 35, § 41).

  1. Se riconosce a ogni imputato il diritto di «difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore (…) », l’articolo 6 § 3 c) non precisa le condizioni per l’esercizio di tale diritto. Esso lascia dunque agli Stati contraenti la scelta dei mezzi idonei a pennettere ai rispettivi sistemi giudiziari di garantirlo ; il compito della Corte consiste nel cercare di stabilire se la via che essi hanno scelto sia coerente con le esigenze di un processo equo (Quaranta c. Svizzera, sentenza del 24 maggio 1991, serie Ari 205, p. 16, § 30). A tale riguardo, non bisogna dimenticare che la Convenzione ha lo scopo di «tutelare dei diritti non teorici o illusori, ma concreti ed effettivi », e che la nomina di un avvocato non basta, da sola, ad assicurare l’effettività dell’assistenza che quest’ultimo può fornire all’imputato (Imbrioscia c. Svizzera, sentenza del 24 novembre 1993, serie Ari 275, p. 13, § 38, e Artico c. Italia, sentenza del 13 maggio 1980, serie A n° 37, p. 16, § 33).
  2. Non si può tuttavia imputare ad uno Stato la responsabilità di tutte le lacune dell’avvocato nominato d’ufficio o scelto dall’imputato. Dall’indipendenza del foro rispetto allo Stato deriva che il modo in cui viene condotta la difesa è essenzialmente di competenza dell’imputato e del suo avvocato, nominato a titolo di gratuito patrocinio o retribuito dal suo cliente (Cuscani c. Regno Unito, n° 32771/96, § 39, 24 settembre 2002). L’articolo 6 § 3 c) obbliga le autorità nazionali competenti a intervenire solo se la lacuna dell’avvocato d’ufficio sembra manifesta o se le stesse ne vengono sufficientemente informate in qualsiasi altro modo (Daud c. Portogallo, sentenza del 21 aprile 1998, Raccolta 1998-II, pp. 749-750, § 38).

2. Applicazione dei principi sopra esposti alla presente causa

  1. La Corte osserva che, nella fattispecie, il 15 ottobre 1992, il giudice per le indagini preliminari di Roma ha disposto la misura della custodia cautelare nei confronti del ricorrente. Poiché si era reso irreperibile, quest’ultimo fu dichiarato latitante (paragrafo 12 supra). Fu nominato un avvocato d’ufficio per rappresentare il ricorrente, e gli atti processuali, ivi compresa la sentenza di condanna, furono notificati a tale avvocato. Il Governo non contesta che il ricorrente è stato giudicato in contumacia e che prima del suo arresto non aveva ricevuto alcuna informazione ufficiale relativa alle accuse o alla data del processo a suo carico.
  2. Basandosi sulla giurisprudenza elaborata nella causa Medenica c. Svizzera, il Governo sostiene invece che il ricorrente ha perso il suo diritto ad un nuovo processo poiché ha tentato di sottrarsi alla giustizia. In effetti, egli sarebbe venuto a sapere o avrebbe pensato di essere ricercato dalla polizia e si sarebbe dato alla fuga.
  3. La Corte osserva anzitutto che la presente causa si distingue dalla causa Medenica poiché in quest’ultima il ricorrente era stato informato in tempo utile dell’azione penale avviata nei suoi confronti e della data del processo a suo carico (sentenza già cit., § 59). Egli disponeva inoltre dell’assistenza di un avvocato di fiducia con cui era in contatto. Infine, la Corte ha ritenuto che l’assenza dell’interessato era colposa e, come il Tribunale federale svizzero, essa ha osservato che il sig. Medenica aveva indotto il giudice americano in errore con le sue dichiarazioni equivoche, o addirittura volutamente inesatte, allo scopo di provocare una decisione che lo rendesse incapace di presentarsi al processo (sentenza già cit., § 58). La sua situazione era dunque molto diversa da quella del ricorrente della presente causa. Nelle circostanze particolari della causa si pone il problema di stabilire se, non avendo ricevuto una notifica ufficiale, si potesse considerare che il sig. Sejdovic aveva avuto una conoscenza dell’azione penale e del processo sufficiente per poter decidere di rinunciare al proprio diritto di comparire o di sottrarsi alla giustizia.
    1. In precedenti cause di condanna contumaciale la Corte ha ritenuto che informare qualcuno dell’azione penale intentata nei suoi confronti costituisce un atto giuridico di un’importanza tale da dover rispondere a delle condizioni di forma di merito atte a garantire l’esercizio effettivo dei diritti dell’imputato, e che una conoscenza vaga e non ufficiale non pub bastare (T. c. Italia già cit., p. 42, § 28, e Somogyi già cit., § 75). La Corte non può tuttavia escludere che alcuni fatti accertati possono dimostrare inequivocabilmente che l’imputato è al corrente di un procedimento penale a suo carico e conosce la natura e la causa dell’accusa, e che non ha intenzione di prendere parte al processo o intende sottrarsi all’azione penale. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, quando un imputato dichiara pubblicamente o per iscritto di non voler dare seguito agli interpelli di cui è venuto a conoscenza da fonti diverse dalle autorità o quando riesce a sottrarsi ad un tentativo di arresto (v., in particolare, Iavarazzo c. Italia (dec.), n° 50489/99, 4 dicembre 2001), o ancora quando vengono sottoposti all’attenzione delle autorità dei documenti che dimostrano inequivocabilmente che egli è a conoscenza del procedimento pendente nei suoi confronti e delle imputazioni a suo carico.

100. Agli occhi della Corte, queste circostanze non sussistono nella fattispecie. La tesi del Governo non si basa su alcun elemento oggettivo diverso dall’assenza dell’imputato dal suo luogo di residenza abituale, vista alla luce delle prove a carico; essa presuppone che il ricorrente fosse implicato nell’omicidio dei sig. S. o che fosse responsabile di tale reato. La Corte non può dunque sostenere questa tesi, che va anche contro la presunzione di innocenza. L’accertamento legale della colpevolezza del ricorrente costituiva lo scopo di un processo penale che, all’epoca della dichiarazione di latitanza, era allo stadio delle indagini preliminari.

101. In tali condizioni, la Corte ritiene che non sia stato dimostrato che il ricorrente aveva una conoscenza sufficiente dell’azione penale e delle accuse a suo carico. Essa non può dunque concludere che egli ha tentato di sottrarsi alla giustizia o che ha rinunciato in maniera non equivoca al suo diritto di comparire in udienza. Resta da verificare se il diritto interno gli offriva, con un sufficiente grado di certezza, una possibilità di ottenere un nuovo processo in sua presenza.

102. Al riguardo, il Governo cita in primo luogo il ricorso previsto all’articolo 670 del CPP. La Corte ricorda anzitutto che essa ha concluso che al Governo era precluso formulare un’eccezione preliminare di mancato esaurimento delle vie di ricorso basata su tale disposizione (paragrafo 42 supra). Tuttavia, tale conclusione non impedisce alla Corte di prendere in considerazione il ricorso citato dal Governo nel momento in cui essa analizza il fondamento del motivo (v., mutatis mutandis, N.C. c. Italia, già cit., §§ 42-47 e 53-58). Essa osserva che nel diritto italiano un incidente di esecuzione può essere accolto solo se è stato accertato che si è verificata nel procedimento una irregolarità che può viziare la validità del giudizio, in particolare nella fase delle notifiche all’imputato irreperibile (paragrafi 31 e 71 supra). Il Governo stesso ha ammesso che, nella presente causa, la citazione a comparire era stata notificata conformemente al diritto nazionale (paragrafo 72 supra). Un eventuale ricorso del ricorrente basato sull’articolo 670 del CPP non aveva dunque alcuna possibilità di successo.

103. Nella misura in cui il Governo si basa sulla possibilità, per il ricorrente, di presentare una domanda di restituzione nel termine, la Corte non può che ribadire le osservazioni già esposte nell’ambito dell’eccezione preliminare (paragrafi 47-56 supra). Essa ricorda che un ricorso basato sull’articolo 175 §§ 2 e 3 del CPP, come era in vigore all’epoca dell’arresto e della detenzione ai fini estradizionali del ricorrente, era destinato a fallire, e che il suo utilizzo da parte dell’interessato si scontrava con alcuni ostacoli oggettivi. In particolare, il ricorrente avrebbe avuto gravi difficoltà a soddisfare una delle due condizioni legali che stanno alla base della concessione della restituzione nel termine, ossia dimostrare che non si era volontariamente rifiutato di prendere conoscenza degli atti processuali e che non aveva tentato di sottrarsi alla giustizia. Inoltre, la Corte ha constatato che poteva esservi un’incertezza per quanto riguarda la ripartizione dell’onere della prova di questa condizione preliminare (paragrafi 49-51 supra). Sussistono pertanto dei dubbi sul rispetto del diritto del ricorrente a non essere obbligato a dimostrare che non intendeva sottrarsi alla giustizia. Il ricorrente avrebbe potuto non essere in grado di fornire, su richiesta del giudice o di fronte alle contestazioni della procura, delle spiegazioni convincenti circa i motivi che l’avevano spinto, poco tempo dopo l’omicidio del sig. S., ad allontanarsi dal proprio domicilio senza lasciare un indirizzo e a recarsi in Germania. Inoltre il ricorrente, che si potrebbe ritenere aver avuto una « conoscenza effettiva della decisione» poco dopo il suo arresto in Germania, disponeva solo di dieci giorni per presentare la domanda di restituzione nel termine. Nessun elemento del fascicolo fa pensare che egli fosse stato informato della possibilità di ottenere la restituzione nel termine per proporre impugnazione avverso la sua condanna e del breve lasso di tempo concesso per avvalersi di un tale ricorso. Tali circostanze, a cui si sommano le difficoltà che una persona detenuta in un Paese straniero avrebbe incontrato per contattare rapidamente un avvocato esperto in diritto italiano e per fornirgli elementi di fatto precisi e istruzioni dettagliate, costituivano degli ostacoli oggettivi all’utilizzo, da parte del ricorrente, del ricorso previsto dall’articolo 175 § 2 del CPP (paragrafi 53-55 supra).

  1. Di conseguenza il ricorso previsto dall’articolo 175 del CPP non garantiva al ricorrente, con un grado sufficiente di certezza, la possibilità di essere presente e di difendersi nell’ambito di un nuovo processo. Nessuno ha sostenuto dinanzi alla Corte che il ricorrente disponeva di altri mezzi per ottenere la restituzione nel termine per proporre impugnazione o un nuovo processo.

 

3. Conclusione

  1. Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte ritiene che al ricorrente – che è stato giudicato il contumacia e di cui non è stato dimostrato che aveva cercato di sottrarsi alla giustizia o che aveva rinunciato in modo non equivoco al diritto di comparire – non è stata offerta la possibilità di ottenere che una giurisdizione deliberi nuovamente, dopo averlo sentito nel rispetto dei diritti della difesa, sul fondamento delle accuse formulate nei suoi confronti.
    1. Pertanto, vi è stata nella fattispecie violazione dell’articolo 6 della Convenzione.
  2. Tale conclusione dispensa la Corte dall’esaminare le affermazioni del ricorrente secondo cui la difesa assicurata dal suo avvocato sarebbe stata lacunosa e la sua identificazione da parte delle autorità italiane sarebbe stata imprecisa e dubbia.

III. SUGLI ARTICOLI 46 E 41 DELLA CONVENZIONE

A. Sull’articolo 46 della Convenzione

108. Ai sensi di tale disposizione :

« 1. Le Alti Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti.

2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione. »

 

1. Sentenza della camera

109. La camera ha ritenuto che la violazione constatata risultava da un problema strutturale legato al malfunzionamento della legislazione e della prassi interne dovuto all’assenza di un meccanismo effettivo volto all’attuazione del diritto delle persone condannate in contumacia — e che non sono state né informate in maniera effettiva dell’azione penale avviata nei loro confronti, né hanno rinunciato in modo non equivoco al proprio diritto di comparire — di ottenere in seguito che una giurisdizione deliberi nuovamente, dopo averle sentite nel rispetto dei requisiti dell’articolo 6 della Convenzione, sul fondamento dell’accusa formulata nei loro confronti. Di conseguenza, essa ha affermato che lo Stato convenuto doveva garantire, con misure adeguate, l’attuazione del diritto in questione per il ricorrente e per le persone che si trovano in una situazione analoga a quella del ricorrente.

 

2. Tesi del Governo

110. Il Governo sostiene che, se la Corte rimane convinta dell’esistenza di una violazione, essa dovrebbe concludere che questa è dovuta esclusivamente a motivi legati alla circostanze particolari della presente causa (ossia la situazione personale del ricorrente), senza rimettere in questione tutta la legislazione italiana in materia.

111. In effetti, il sistema italiano sarebbe pienamente conforme ai requisiti della Convenzione, così come precisati dalla Corte, e a tutti i principi elencati nella Risoluzione (75)11 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa «sui criteri da seguire nella procedura di giudizio in assenza dell’imputato ». E previsto che sia fatto il possibile affinché l’imputato possa venire a conoscenza dell’esistenza dell’azione penale, della natura delle accuse e della data e del luogo di esecuzione degli atti fondamentali della procedura. Inoltre, il condannato in contumacia ha ampiamente la possibilità — più che in altri Stati europei — di interporre un appello oltre i termini se dimostra di non ave avuto conoscenza del provvedimento. L’unica eccezione a questa regola che sia pertinente nella fattispecie si ha quando è accertato che i condannati dichiarati irreperibili o latitanti si sono volontariamente sottratti alla giustizia.

112. Inoltre, anche a voler supporre che il sistema italiano vigente all’epoca dei fatti fosse incompatibile con le esigenze della Convenzione, ogni eventuale lacuna sarebbe stata corretta dalla riforma introdotta dalla legge n° 60 del 2005.

113. Nel caso in cui la Corte rilevi una lacuna strutturale del sistema giuridico interno, il Governo ricorda che l’obbligo di accordare un nuovo processo al condannato in absentia potrebbe comportare l’impossibilità di presentare nuovamente, al nuovo dibattimento, tutte le prove raccolte in occasione del primo processo (e in particolare le testimonianze). In questa ipotesi, le autorità nazionali si troverebbero di fronte ad un’alternativa. Esse potrebbero ricorrere agli elementi e alle dichiarazioni raccolti nel primo procedimento (ma ciò rischierebbe di violare il diritto dell’imputato di non essere condannato sulla base delle affermazioni fatte da persone che egli non ha mai avuto l’occasione di interrogare), o assolvere l’imputato nonostante esistano elementi sufficienti per convincere intimamente il giudice della sua colpevolezza (il che costituirebbe una potenziale inosservanza dell’obbligo positivo di tutelare altri diritti sanciti dalla Convenzione).

  1. Sarebbe dunque opportuno che la Corte precisi come deve svolgersi il secondo processo : è sufficiente interrogare l’imputato ? E necessario ripetere integralmente la procedura di giudizio ? O sono auspicabili soluzioni intermedie attenuate ? La Corte fornirebbe in tal modo allo Stato convenuto delle indicazioni chiare e dettagliate sul modo di garantire la conformità alla Convenzione della sua legislazione o della sua prassi.
  2. Il Governo precisa che non si oppone, in linea di principio, al fatto che la Corte dia delle indicazioni abbastanza precise sulle misure di carattere generale da adottare. Tuttavia, la nuova prassi seguita dalla Corte rischia di annientare il principio della libertà degli Stati nella scelta delle misure di esecuzione delle sentenze. Essa sarebbe inoltre in contrasto con lo spirito della Convenzione e mancherebbe di una base giuridica chiara.
  3. Le sentenze della Corte hanno un carattere fondamentalmente declaratorio. Solo l’articolo 41 della Convenzione derogherebbe a questa norma, abilitando la Corte a pronunciare vere e proprie « condanne » contro gli Stati contraenti. L’articolo 46, invece, non contiene alcuna disposizione di questo tipo ma si limita a stabilire che la sentenza definitiva della Corte viene trasmessa al Comitato dei Ministri affinché quest’ultimo vigili sulla sua esecuzione. Pertanto, il Comitato dei Ministri resta l’unico organo del Consiglio d’Europa competente per affermare se una misura di carattere generale è necessaria, adeguata e sufficiente.
  4. Secondo il parere del Governo, tale ripartizione delle competenze è confermata dall’articolo 16 del Protocollo n° 14 che, modificando l’articolo 46 della Convenzione, introduce due nuovi ricorsi : il ricorso per interpretazione e il ricorso per inosservanza. Secondo il rapporto esplicativo, il primo avrebbe lo scopo « di permettere alla Corte di dare una interpretazione di una sentenza e non di pronunciarsi sulle misure adottate da un’Alta Parte contraente per conformarsi alla sentenza ». Quanto al secondo, viene specificato che qualora la Corte constati una violazione, essa deve rinviare la causa al Comitato dei Ministri « affinché esso esamini le misure da adottare ». Infine, nella Risoluzione Res(2004)3, il Comitato dei Ministri ha invitato la Corte a individuare nelle sue sentenze gli eventuali problemi strutturali latenti, ma non a indicare anche le soluzioni adeguate. La ripartizione delle competenze tra il Comitato dei Ministri e la Corte, come prevista dagli autori della Convenzione, non sarebbe dunque stata modificata.
  5. In ogni caso, se la prassi che consiste nell’indicare delle misure di carattere generale dovesse continuare, sarebbe necessario istituzionalizzarla almeno nel regolamento della Corte o nelle domande che la Corte pone alle parti, allo scopo di permettere a queste ultime di presentare delle osservazioni sulla questione della natura « strutturale » della violazione.

 

3. Valutazione della Corte

  1. La Corte ricorda che, ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione, le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte nelle controversie nelle quali esse sono parti, e il Comitato dei Ministri è incaricato di vigilare sull’esecuzione di tali sentenze. Ne consegue in particolare che, quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non solo di versare

agli interessati le somme accordate a titolo dell’equa soddisfazione prevista dall’articolo 41, ma anche di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se del caso, individuali da integrare nel proprio ordinamento giuridico interno allo scopo di porre un termine alla violazione constatata dalla Corte e di eliminarne, per quanto possibile, le conseguenze. Lo Stato convenuto rimane libero, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, di scegliere i mezzi per adempiere al proprio obbligo giuridico rispetto all’articolo 46 della Convenzione, nella misura in cui tali mezzi sono compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte (v., mutatis mutandis, Scozzari e Giunta c. Italia [GC], ri 39221/98 e 41963/98, § 249, CEDH 2000-VIII).

  1. Nella causa Broniowski c. Polonia, la Corte ha ritenuto che, quando essa constata una violazione derivante da una situazione di carattere strutturale riguardante un gran numero di persone, delle misure generali a livello nazionale possono essere necessarie nell’ambito dell’esecuzione delle proprie sentenze (Broniowski c. Polonia, n° 31443/96, §§ 188-194, CEDH 2004-V). Questo approccio giuridico adottato dalla Corte per trattare i problemi sistematici o strutturali che emergono nell’ordinamento giuridico nazionale, è indicato con l’espressione «procedura di sentenza pilota ». Quest’ultima si propone anzitutto di aiutare gli Stati contraenti ad adempiere al molo che appartiene agli stessi nel sistema della Convenzione risolvendo questo tipo di problemi a livello nazionale, in modo che essi riconoscano anche in questo modo alle persone interessate i diritti e le libertà definiti nella Convenzione, come dispone l’articolo 1, offrendo loro una riparazione più rapida, e alleggerendo nello stesso tempo il carico della Corte che, altrimenti, dovrebbe esaminare moltissimi ricorsi simili nella sostanza (Broniowski c. Polonia (composizione amichevole), ri 31443/96, §§ 34-35, 28 settembre 2005).
  2. La Corte osserva che, nella presente causa, l’ostacolo ingiustificato al diritto del ricorrente di ottenere che una giurisdizione deliberi nuovamente sul fondamento dell’accusa sembra risultare dal testo delle disposizioni del CPP relative alle condizioni per presentare una domanda di restituzione nel termine, così come erano in vigore al momento dei fatti. Ciò potrebbe far pensare che esistesse nell’ordinamento giuridico italiano una lacuna, in conseguenza della quale i condannati in contumacia che non erano stati informati in modo effettivo dell’azione penale potevano essere privati di un nuovo processo.
  3. 122.   Tuttavia, non si può ignorare che, dopo che il processo del ricorrente si era concluso, sono state introdotte in Italia delle riforme legislative. In particolare, la legge n° 60 del 2005 ha modificato l’articolo 175 del CPP. Ai sensi delle nuove disposizioni, il termine per impugnare un provvedimento contumaciale viene riaperto su richiesta del condannato. L’unica eccezione a tale norme si ha nel caso in cui l’imputato ha avuto una « conoscenza effettiva » della procedura avviata a suo carico o del provvedimento, e ha volontariamente rinunciato a comparire o a impugnare il provvedimento. Inoltre, il termine per presentare una domanda di restituzione nel termine per persone che si trovano in una situazione simile a quella del ricorrente è stato portato da dieci a trenta giorni ed inizia a decorrere dal momento in cui l’imputato viene consegnato alle autorità italiane (paragrafi 26-27 supra).
  4. E vero che queste nuove disposizioni non si applicano al ricorrente o ad ogni altra persona che si trova in una situazione analoga e che ha avuto una conoscenza effettiva della propria condanna o è stata consegnata alle autorità italiane più di trenta giorni prima della data di entrata in vigore della leggeri 60 del 2005. La Corte ritiene che sarebbe prematuro, in questo stadio, e in assenza di giurisprudenza interna che faccia applicazione delle disposizioni della leggeri 60 del 2005, esaminare la questione di stabilire se le riforme sopra menzionate hanno raggiunto lo scopo perseguito dalla Convenzione.
  5. La Corte non ritiene dunque necessario indicare delle misure generali a livello nazionale che si impongano nell’ambito dell’esecuzione della presente sentenza.
  6. D’altra parte, la Corte ricorda che, nelle cause contro la Turchia riguardanti l’indipendenza e l’imparzialità delle corti di sicurezza dello Stato, essa ha indicato in sentenze camerali che in linea di principio la riparazione più adeguata consisterebbe nel far giudicare nuovamente il ricorrente su richiesta dello stesso e in tempo utile (v., tra le altre, Gencel c. Turchia, n° 53431/99, § 27, 23 ottobre 2003, e Tahir Duran c. Turchia, n° 40997/98, § 23, 29 gennaio 2004). E opportuno notare anche che una posizione simile è stata adottata in cause contro l’Italia in cui la constatazione di violazione dei requisiti di equità affermati dall’articolo 6 derivava da una violazione del diritto di partecipare al processo (Somogyi già cit., § 86, e R.R. c. Italia, n° 42191/02, § 76, 9 giugno 2005) o del diritto di interrogare i testimoni a carico (Bracci già cit., § 75). La Grande Camera ha fatto proprio l’approccio generale adottato nella giurisprudenza sopra citata (Ocalan c. Turchia, n° 46221/99, § 210, 12 maggio 2005).
  7. La Corte ritiene di conseguenza che quando un privato, come nella fattispecie, è stato condannato all’esito di un procedimento viziato da violazioni dell’articolo 6 della Convenzione, un nuovo processo o una riapertura del procedimento su richiesta dell’interessato rimane in linea di principio un mezzo adeguato per riparare la violazione constatata (v. i principi enunciati nella raccomandazione R(2000)2 del Comitato dei Ministri, paragrafo 28 supra). Tuttavia, le misure di riparazione specifiche da adottare, all’occorrenza, da parte di uno Stato convenuto per adempiere agli obblighi ad esso incombenti in applicazione della Convenzione dipendono necessariamente dalle circostanze particolari della causa e devono essere definite alla luce della sentenza della Corte nella causa in questione, tenendo debitamente conto della giurisprudenza della Corte sopra citata (Ocalan, loc. cit.).
  8. In particolare, non spetta alla Corte indicare le modalità e la forma di un nuovo eventuale processo. Lo Stato convenuto resta libero di scegliere i mezzi per adempiere al proprio obbligo di mettere il ricorrente, quanto più possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non avesse subito una inosservanza dei requisiti della Convenzione (Piersack c. Belgio (vecchio articolo 50), sentenza del 26 ottobre 1984, serie Ari 85, p. 16, § 12), purché tali mezzi siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte e con i diritti della difesa (Lyons e altri c. Regno Unito (dec.), n° 15227/03, CEDH 2003-IX).

 

B. Sull’articolo 41 della Convenzione

 

  1. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,

« Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa. »

1. Danno

  1. Il ricorrente osserva di essere stato detenuto ai fini estradizionali in Germania dal 22 settembre al 22 novembre 1999, ossia per 62 giorni. Se le autorità italiane avessero cercato di raggiungerlo in Germania all’indirizzo in cui era regolarmente registrato, tale privazione della libertà non avrebbe avuto luogo. Il ricorrente sostiene che il danno e i disagi provocati da quest’ultima dovrebbero essere rimborsati nella misura di 100 euro (EUR) al giorno; egli richiede dunque la somma totale di 6.200 EUR.
  2. Il Governo osserva che il ricorrente non ha dimostrato l’esistenza di un legame tra la violazione della Convenzione e il danno che egli adduce. Per quanto riguarda il danno morale, la constatazione di una violazione fornirebbe di per sé un’equa soddisfazione sufficiente.
  3. La Corte ricorda che essa concede delle somme a titolo di equa soddisfazione prevista dall’articolo 41 quando la perdita o i danni reclamati sono stati causati dalla violazione constatata, e che invece lo Stato non è tenuto a versare del denaro per i danni ad esso non imputabili (Perote Pellon c. Spagna, n° 45238/99, § 57, 25 luglio 2002, e Bracci già cit., § 71).
  4. Nella fattispecie, la Corte ha constatato una violazione dell’articolo 6 della Convenzione nella misura in cui il ricorrente, condannato in contumacia, non ha potuto ottenere la riapertura del processo a suo carico. Essa non ha rilevato lacune nelle ricerche dell’imputato e non può concludere che la detenzione di quest’ultimo ai fini estradizionali debba essere posta a carico delle autorità italiane. Del resto, il ricorrente non ha indicato gli elementi che avrebbero potuto portare queste ultime a pensare che egli si trovava in Germania.
  5. Pertanto, la Corte non considera che sia opportuno accordare un compenso al ricorrente a titolo di danno materiale. In effetti, non è stato accertato alcun legame di causalità tra la violazione constatata e la detenzione contestata dall’interessato.
  6. Quanto al danno morale, la Corte ritiene che, nelle circostanze della presente causa, la constatazione di violazione costituisce di per sé un’equa soddisfazione sufficiente (Brozicek c. Italie, sentenza del 19 dicembre 1989, serie A n° 167, p. 20, § 48 ; F.C.B. c. Italia già cit., p. 22, § 38 ; T. c. Italia già cit., p. 43, § 32).

 

2. Spese

  1. Il ricorrente chiede il rimborso delle spese sostenute per la procedura di estradizione in Germania, che ammontano a 4.827,11 EUR. Le spese relative al procedimento dinanzi alla Corte ammonterebbero à 7.747,94 EUR. In particolare, 3.500,16 EUR (di cui 3.033,88 EUR per onorari e 466,28 EUR per traduzioni) sarebbero stati spesi per il procedimento dinanzi alla camera, mentre il procedimento successivo dinanzi alla Grande Camera, ivi compresa la partecipazione dei suoi avvocati all’udienza del 12 ottobre 2005, sarebbe costato 4.247,78 EUR.

136.11 Governo non ravvisa alcun legame di causalità tra la violazione della Convenzione e le spese sostenute in Germania. Quanto alle spese sostenute per il procedimento a Strasburgo, il Governo si affida al giudizio della Corte, pur sottolineando la semplicità della causa del ricorrente. Esso considera anche che l’importo richiesto per il procedimento dinanzi alla Grande Camera è eccessivo, tenuto conto del modesto lavoro di difesa che questa fase ha richiesto alla parte convenuta, la quale non ha prodotto alcuna memoria.

137. La Corte osserva che il ricorrente, prima di rivolgersi agli organi della Convenzione, ha dovuto affrontare una procedura di estradizione in Germania nell’ambito della quale è stata evocata la questione dell’impossibilità della riapertura del processo. La Corte ammette di conseguenza che l’interessato ha sostenuto delle spese per procedure che erano legate alla violazione della Convenzione. Essa ritiene tuttavia eccessive le spese reclamate per il procedimento dinanzi alle giurisdizioni tedesche (v.,mutatis mutandis, Sakkopoulos c. Grecia, n° 61828/00, § 59, 15 gennaio 2004, e Cianetti c. Italia, n° 55634/00, § 56, 22 aprile 2004). Tenuto conto degli elementi in suo possesso e della sua prassi in materia, essa ritiene ragionevole accordare al ricorrente a questo titolo la somma di 2.500 EUR.

  1. La Corte ritiene anche eccessivo l’importo richiesto per le spese inerenti il procedimento dinanzi ad essa (7.747,94 EUR) e decide di accordare a questo titolo la somma di 5.500 EUR. Al riguardo, è opportuno ricordare che l’avvocato del ricorrente non ha depositato una memoria scritta dinanzi alla Grande Camera (paragrafo 8 supra). L’importo totale dovuto al ricorrente per le spese ammonta pertanto a 8.000 EUR.

 

3. Interessi moratori

  1. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

 

 1. Rigetta l’eccezione preliminare del Governo ;

 

2. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione ;

 

3. Dichiara che la constatazione di violazione fornisce di per sé un’equa soddisfazione sufficiente per il danno morale subito dal ricorrente ;

 

4. Dichiara

a)       che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi, la somma di 8.000 EUR (ottomila euro) per le spese, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta ;

b)       che a decorrere dallo scadere di detto termine e fino al versamento tali somme dovranno essere maggiorate di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali ;

 

5. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

 

Fatto in francese e in inglese, e poi pronunciato in pubblica udienza al Palazzo dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo, il 1 ° marzo 2006.

T.L. Early                                                                   Luzius Wildhaber

Cancelliere aggiunto                                                  Presidente

 

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione concordante del

 

Q.ih- @a.

M:

Per traduzione conforme Gli esperti linguistici

`Le— Q                      lx L—Q.

giudice Mularoni.

 

L.W. T.L.E.

OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE MULARONI

Pur condividendo il parere della maggioranza, secondo cui vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione, desidero sottolineare quanto segue.

  1. Per quanto riguarda l’eccezione preliminare del Governo basata sul mancato esaurimento della via di ricorso interna prevista dall’articolo 175 del CPP, considerate le espressioni un po’ diverse utilizzate nei paragrafi 52, 55, 103 e 104 della sentenza, desidero precisare che non sono convinta che tale via di ricorso fosse destinata a fallire. Ho concluso, con la maggioranza, per l’esistenza di circostanze particolari di natura tale da dispensare il ricorrente dall’obbligo di esperire tale via di ricorso, e dunque per il rigetto di questo elemento dell’eccezione preliminare del Governo. Pur ammettendo che sussisteva un’incertezza sulle possibilità di successo di questa via di ricorso, sono tuttavia giunta a questa conclusione a causa degli ostacoli oggettivi citati al paragrafo 54 della sentenza. In assenza di tali ostacoli oggettivi avrei concluso — conformemente alla nostra giurisprudenza secondo cui il semplice fatto di avere dei dubbi sulle prospettive di successo di un ricorso che non è con ogni evidenza destinato a fallire non costituisce un motivo valido per giustificare il mancato utilizzo di vie di ricorso interne (Akdivar e altri c. Turchia, sentenza del 16 settembre 1996, Raccolta 1996-IV, p. 1212, § 71 ; Brusco c. Italia (dec.), n° 69789/01, CEDH 2001-IX) — che il ricorrente non aveva esaurito le vie di ricorso interne.
  2. Per quanto riguarda i paragrafi 101 — 104 della sentenza, devo confessare che ho delle difficoltà à seguire un ragionamento che equivale ad esaminare due volte le stesse eccezioni preliminari sollevate dal Governo, la prima volta sul piano dell’ammissibilità e la seconda sul merito, il che comporta la possibilità di concludere per la restituzione nel termine per quanto riguarda il primo aspetto e per la non violazione della Convenzione per quanto riguarda il secondo. Ritengo che sarebbe bastato esaminare i due aspetti sul piano dell’ammissibilità, senza ritornarvi in sede di esame sul merito.

Lascia un commento

Help-Desk