medical doctorAnalisi e spunti di riflessione su Cass. pen., sez. IV, 11 maggio 2016 (dep. 6 giugno 2016), n. 23283, Pres. Blaiotta, Rel. Montagni, Ric. Denegri

A cura della dott.ssa Sara Botte

I giudici della Quarta Sezione della Cassazione con la sentenza del giorno 11 maggio 2016 n. 23283 sono tornati ad occuparsi del meccanismo di esenzione della responsabilità medica delineato dall’art. 3 comma 1 della legge n. 189 del 2012, offrendone una lettura garantista; la Corte, in occasione della risoluzione di una semplice questione di diritto intertemporale, con il proposito di orientare la complessa valutazione rimessa al giudice di merito, segna una plateale rottura con l’orientamento, sinora maggioritario nella medesima Sezione, rivolto a circoscrivere l’irrilevanza della colpa lieve alle sole condotte mediche connotate da imperizia.

Al fine di poter meglio analizzare l’innovativo approdo giurisprudenziale marcatamente garantista fornito dalla suindicata sentenza della nostra Suprema Corte appare opportuno, a parere di chi scrive, compendiare, le principali tappe normative, giurisprudenziali e dottrinali in tema di responsabilità professionale in ambito sanitario, alcune delle quali richiamate nella motivazione dalla stessa Corte, che si sono succedute nel tempo sino ad oggi, rappresentando l’antecedente logico-cronologico della pronuncia in commento.

Nell’ambito della c.d. colpa professionale[1], i problemi più spinosi affrontati dalla giurisprudenza e dalla dottrina attengono sicuramente alla sfera dell’attività professionale del medico. Il “sistema” della responsabilità sanitaria, caratterizzato da una fisionomia particolare in quanto riferibile ad innumerevoli tipologie di condotte sanitarie, oscilla da sempre, alla ricerca di un armonico equilibrio, tra l’assoluta necessità di evitare la costituzione di aree d’ingiustificato privilegio per il professionista e l’esigenza di impedire che l’operato del medico, pur nell’ambito del c.d. rischio consentito, sia finalizzato all’ottenimento di un’esposizione minima personale piuttosto che al conseguimento del migliore risultato per il paziente (c.d. medicina difensiva)[2].

Tale problematica, inoltre, sconta la mancanza di disposizioni normative penali atte ad inquadrare la portata esatta dell’illecito e a regolare punto per punto le principali questioni controverse.

Alla luce della surriferita carenza, l’attività medica risulta allo stato indirizzata sia dalle linee generali desumibili dai principi del codice deontologico voluto dalla stessa categoria professionale, sia dalle regole cautelari tecniche e comuni, elaborabili sulla scorta delle indicazioni fornite dall’art. 43 c.p., nonché, infine, dalle disposizioni che regolano in generale le varie attività sanitarie. Da tali fonti si ricava che il medico ha l’obbligo di osservare scrupolosamente le leges artis durante la sua attività professionale, assumendo una posizione di garante nei confronti del paziente, in quanto portatore dell’obbligo giuridico di attivarsi e di proteggere con il massimo sforzo la vita e l’integrità fisica dello stesso garantito.

Per configurare la responsabilità per colpa, dunque, sarà necessario accertare che il medico sia rimproverabile per non essersi adeguato alle regole cautelari comuni, nel contesto di un’operazione di individualizzazione consistente in un raffronto tra l’operato del medico del quale bisogna accertare la responsabilità, e quello astratto dell’agente modello, dotato della medesima specializzazione e proiettato nelle stesse condizioni ambientali e soggettive (c.d. colpa generica); ovvero bisognerà verificare che un determinato comportamento abbia violato prescrizioni cautelari ossia leggi, regolamenti, ordini o discipline dettate a garanzia della tutela migliore possibile dell’interesse protetto (c.d. colpa specifica).

Quest’ultima ricorre quando si violano non soltanto leggi o regolamenti generali ma anche prescrizioni contenute in norme di servizio o disciplina quali ad esempio quelle interne degli ospedali; con riguardo alla colpa specifica, dunque, ci si è chiesti se essa ricorra anche in relazione alla violazione da parte del sanitario delle prescrizioni contenute nel codice di deontologia medica. In dottrina [3] si è ritenuto che le regole deontologiche possano annoverarsi nelle c.d. discipline rilevanti ai sensi dell’art. 43 comma 3 c.p., la cui violazione determina l’addebito di colpa specifica.

Ciò posto, giova ricordare che a fronte dello sforzo operato in dottrina di unificare in un unico paradigma la colpa nel campo della responsabilità civile e quella nel campo della responsabilità penale, l’atteggiamento della giurisprudenza, invece, si è rivelato tutt’altro che univoco.

La  giurisprudenza di legittimità in tema di colpa nell’esercizio dell’attività medica[4], ha manifestato fin da subito l’assunzione di posizioni di eccessiva indulgenza, all’ombra della ben radicata considerazione delle difficoltà connaturate alla pratica medica, ravvisando profili di responsabilità solo nei casi di colpa grave, e cioè di patente e grossolana violazione delle più elementari leges artis.

Le pronunzie penali più risalenti[5], infatti, prendevano le mosse dalle norme civilistiche in tema di professioni intellettuali, rapportabili anche all’attività medica: l’art. 1176 comma 2 c.c., il quale stabilisce che “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata.” e, l’art. 2236 c.c., secondo il quale, “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde se non in caso di dolo o di colpa grave”. [6].

Alla stregua di tale impostazione, quindi, la rilevanza penale delle condotte colpose del medico veniva limitata soltanto a quelle condotte incompatibili “col minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi da chi sia abilitato all’esercizio della professione medica ”.[7].

Questo indirizzo giurisprudenziale è stato aspramente criticato dalla dominante dottrina in quanto veniva perdonata qualsiasi leggerezza riconducendola nell’alveo dell’error scientiae, non trovando tale atteggiamento una rigorosa ed esplicita motivazione sul piano dei principi giuridici generali [8].

Della questione veniva investita la Corte Costituzionale la quale, a seguito di opportuni chiarimenti, avallava tale impostazione[9].

La Consulta, con sentenza n. 166 del 28 novembre 1973, ha così escluso la violazione del principio di eguaglianza nella possibile applicazione in sede penale dell’art. 2236 c.c., facendo richiamo alla relazione del Guardasigilli al Codice Civile (n. 917) nella quale si legge che la disciplina dettata dall’art. 2236 c.c. – in relazione al quale si desume la responsabilità penale dell’esercente una professione intellettuale dagli art. 589 e 42 (e meglio 43) del codice penale, quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà – è il riflesso di una normativa dettata “di fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista ”stesso.

Il Giudice delle Leggi ha altresì specificato, attribuendo così ulteriore pregnanza al proprio intervento, che il trattamento giuridico più favorevole riservato al sanitario debba ritenersi circoscritto soltanto alle ipotesi in cui la prestazione comporti la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà ed alla colpa derivante da imperizia. Per le altre forme di colpa, ossia imprudenza e negligenza, il giudizio deve essere improntato ai normali criteri di severità; talché, l’apprezzamento della colpa in termini di gravità risulta ragionevole tutte le volte in cui ci sia un errore tipicamente professionale, cioè scaturito da un difetto di perizia, non quando vi sia la mancanza di prudenza o di diligenza.

La giurisprudenza di legittimità si è rapidamente adeguata a tale indicazione interpretativa per poi conoscere, tuttavia, un mutamento di tendenza consolidatosi negli ultimi anni nel più rigoroso indirizzo che esclude l’applicabilità della norma civilistica in materia penale – nella quale dovrebbero trovare esclusivo accoglimento gli ordinari criteri di valutazione della colpa di cui all’art. 43 c.p. – relegando il grado della colpa a mero criterio di commisurazione della pena ex art. 133 c.p[10]. Tale orientamento ha iniziato a prescindere del tutto dal parametro della c.d. colpa grave, proprio della nozione civilistica di inadempimento, in considerazione del fatto che “la condotta colposa, implicante giudizio di responsabilità penale, incide su beni primari, quali la vita o la salute delle persone, e non già su aspetti patrimoniali –economici , quali appunto quelli scaturenti dall’inadempimento, o non puntuale adempimento, di un rapporto di natura civilistica.[11].

Di talchè, è stata sottolineata la necessita di operare un vaglio in concreto che tenga conto della complessità dell’intervento del medico, affinché il risultato finale sia un giudizio conforme al principio secondo cui, in materia di accertamento della colpa, occorre calibrare il giudizio alla peculiarità del caso specifico.

I numerosi tentativi della giurisprudenza di legittimità di far penetrare il concetto di colpa grave, per il tramite dell’art. 2236 c.c. nell’alveo della responsabilità penale del sanitario, confluiscono nella nuova considerazione” da riservare oggi alla questione, a seguito del cd “decreto Balduzzi” (d.l. 13 settembre 2012,n.158,conv.con mod. in l. 8 novembre 2012 n. 189) e dell’attualità dei concetti di colpa lieve e di colpa grave, “che vengono ad intrecciarsi – come recita la sentenza della Cassazione in commento– con l’ulteriore questione (…) concernente l’impiego, in sede giudiziaria, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica[12].

Il legislatore, dunque, con uno specifico intervento sul dibattuto[13] tema del rilievo da riconoscere alle linee- guida nell’accertamento della colpa medica, fa entrare quest’ultime a pieno titolo nell’alveo dei criteri che il giudice deve utilizzare per sindacare l’attività professionale svolta da un sanitario; l’art. 3  comma 1 del citato decreto – prevedendo che“L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”-  cristallizza il punto d’arrivo di un’evoluzione legislativa e giurisprudenziale tendente alla ricerca di un punto di equilibrio tra regolamentazione dell’attività medica e tutela del paziente. La disposizione di cui all’art. 3 introduce, quindi, un criterio generale di accertamento della colpa medica, ponendo, così, l’interprete davanti al compito di ricondurre tale criterio all’interno di quelli generali, previsti dalla dottrina, con riguardo alla struttura del reato.

A questo punto giova ricordare che, fin da subito, si è sviluppato attorno alla segnalata novità legislativa un vivace dibattito giurisprudenziale. Superati i dubbi di legittimità costituzionale avanzati dalla IX sezione del Tribunale di Milano con ordinanza del 21 marzo 2013, cui è seguita un’ordinanza della Corte Costituzione di manifesta inammissibilità, si è affermato, in seno alla Quarta Sezione della Cassazione, l’orientamento interpretativo di carattere restrittivo[14] secondo il quale, anche dopo il “decreto Balduzzi”, il rispetto delle c.d. “linee-guida” non esonera del tutto il medico da responsabilità professionale: la limitazione di responsabilità in caso di colpa lieve viene circoscritta alle sole condotte professionali conformi alle “linee-guida” contenenti regole di perizia.

Sempre in seno alla Quarta Sezione, al sopra esposto orientamento maggioritario, è stata contrapposta una più recente e diversa impostazione[15], la quale estende la rilevanza della citata esimente anche ad addebiti diversi dall’imperizia, ammettendo che le “linee-guida” contengano prescrizioni rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta del soggetto agente sia quello della diligenza, come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardano più la sfera dell’accuratezza che quella dell’adeguatezza professionale.

A questo punto dell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale del tema della responsabilità sanitaria, si innesta il contributo fondamentale e innovativo fornito dalla nostra Suprema Corte nella sua pronuncia di qualche mese fa – sebbene già in precedenza si fossero registrate timide aperture verso un’interpretazione meno restrittiva del novum normativo rappresentato dal citato art. 3 comma 1- e relativo all’estensione dell’esonero di responsabilità penale per culpa levis ex lege 189/2012 oltre i limiti, affermati dalla giurisprudenza dominante, della colpa per imperizia.

La Corte, dopo aver escluso che possa essere riconosciuta alcuna “conducenza[16], ai fini di interesse, alle indicazioni interpretative espresse nella sentenza n. 166 del 1973 della Corte Costituzionale, rimette la buona riuscita della soluzione interpretativa proposta all’analisi del suindicato novum normativo e delle sue interazioni con le regole generali in tema di colpa, contenute nell’art. 43 del codice penale.

Il dato centrale su cui viene imperniata l’intera questione viene individuato nel “reale contenuto delle raccomandazioni raccolte nelle linee guida, ricavato da “specifici dati testuali della novella” (tra i quali la rubrica e l’ambito soggettivo dell’art. 3, co. 1 della legge 189 del 2012, esteso a tutti “i professionisti” del settore sanitario) e dal fatto che “le linee guida non contengono raccomandazioni solo in riferimento all’attività del personale medico, ma anche rispetto all’ambito di intervento dei diversi professionisti che, con specifiche e diversificate competenze, operano nel settore della sanità“, come dimostrato da una rassegna delle “numerose linee guida ad oggi disponibili, distinte secondo la tipologia dei diversi operatori sanitari – personale medico o infermieristico – chiamati ad interagire, nella prestazione delle cure“; ebbene, in tali casi, “nei quali l’ambito di intervento comporta l’interazione con professioni sanitarie non mediche, alle regole di perizia, contenute nelle linee guida, si affiancano raccomandazioni che attengono ai parametri della diligenza, ovvero all’accuratezza operativa, nella prestazione delle cure“.[17].

Oltre a ciò, la Corte mette in luce, le incertezze palesate nella scienza penalistica e la conseguente mancanza di indicazioni tassative e affidabili in merito alla distinzione tra diverse ipotesi di colpa generica, tanto sul versante dell’indefinitezza delle regole di diligenza“, comprovata anche “dalla variegata tipologia di obblighi, nel solo settore della responsabilità sanitaria, che alle stesse sono stati ritenuti riconducibili, nell’esperienza giudiziaria”, quanto su quello dell’inconsistenza del criterio di distinzione tra colpa per imprudenza e colpa per imperizia, al fine di delimitare l’ambito di operatività della novella legislativa sulla responsabilità sanitaria; ciò in ragione della “intrinseca opinabilità, nella distinzione tra i diversi profili della colpa generica, in difetto di condivisi parametri che consentano di delineare, in termini tassativi, ontologiche diversità, nelle regole di cautela[18].

In conclusione, il punto centrale dell’impianto normativo delineato dal citato art. 3 viene identificato dalla Suprema Corte “nel canone del grado della colpa” sul quale deve poggiare la valutazione del giudice del merito relativa all’ambito di operatività della scriminante de qua: il giudice, “a fronte di linee guida che comunque operino come direttiva scientifica per gli esercenti le professioni sanitarie, in riferimento al caso concreto, e ciò sia rispetto a profili di perizia che, più in generale, di diligenza professionale, deve procedere alla valutazione della graduazione della colpa, secondo il parametro della misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, sulla base della norma cautelare che si doveva osservare“. Nel determinare la misura del rimprovero, dovrà, in particolare, “considerare il contenuto della specifica raccomandazione clinica che viene in rilievo, di talché il grado della colpa sarà verosimilmente elevato, nel caso di inosservanza di elementari doveri di accuratezza. Il delineato paradigma valutativo della responsabilità sanitaria appare coerente rispetto alla cornice legale di riferimento, posto che la legge n. 189 del 2012 non contiene alcun richiamo al canone della perizia, né alla particolare difficoltà del caso clinico; e rispondente alle istanze di tassatività, che permeano lo statuto della colpa generica, posto che il giudice, nella graduazione della colpa, deve tenere conto del reale contenuto tecnico della condotta attesa, come delineato dalla raccomandazione professionale di riferimento[19].

La nostra Suprema Corte, dunque, a valle dell’analizzato percorso logico-argomentativo, approda al seguente principio di diritto : La limitazione di responsabilità, in caso di colpa lieve, può operare, per le condotte professionali conformi alle linee guida e alle buone pratiche, anche in caso di errori che siano connotati da profili di colpa generica diversi dalla imperizia.

Sia consentita una breve notazione di commento.

La soluzione accolta dalla Quarta Sezione della Corte di Cassazione, a modesto parere di chi scrive, appare convincente alla luce di alcuni passaggi argomentativi che, a fronte del silenzio normativo sul punto, si sono sviluppati principalmente attorno a due profili: la natura da attribuire alle regole contenute nelle linee guida e l’interpretazione della colpa grave.

Innanzitutto, in riferimento alla natura da attribuire alle regole contenute nelle linee guida, la stessa Corte ha ricordato che, accanto ad un orientamento giurisprudenziale dominante favorevole ad una lettura restrittiva dell’esimente di cui all’art 3 comma 1 del “decreto Balduzzi” erano emerse, già prima della pronuncia in commento, timide posizioni di apertura, che pur riconoscendo quello dell’imperizia quale terreno di elezione della disciplina designata dalla legge 189/2012, non escludevano, tuttavia, che le linee-guida ponessero regole rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta fosse quello della diligenza[20].

Le argomentazioni della Corte trovano il giusto supporto anche sul piano normativo, facendo  riferimento alla circostanza che i destinatari della norma sono, oltre ai medici, anche gli “operatori sanitari in generale”, al cui operato sono attribuibili molto di più standard di diligenza e di prudenza piuttosto che di perizia; oltre al fatto che la stessa disposizione in esame richiama non solo le linee guida ma anche le “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifiche”, ambito proprio dei canoni di diligenza.

Per quanto concerne poi il secondo profilo, relativo all’interpretazione del concetto di colpa grave, la Cassazione, induce ad optare per un’interpretazione più ampia dello stesso (compatibile con tutte le forme di colpa generica) suggerendo, ai fini della misurazione della gravità della colpa medica, una maggiore considerazione delle circostanze del caso concreto (quali le “specifiche condizioni del soggetto agente“, il suo “grado di specializzazione“, la “situazione ambientale, di particolare difficoltà, in cui il professionista si è trovato ad operare“, oltre alle “eventuali ragioni di urgenza“, alla “oscurità del quadro patologico”, alla “difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche” e al il “grado di atipicità o novità della situazione data[21]) che possono rendere difficile anche ciò che astrattamente (e magari in un altro contesto) non è fuori dagli standard e incidere su un indebolimento del livello di diligenza o di prudenza richiesto in condizioni normali.

In conclusione, alla luce di questo ulteriore e condivisibile progresso del filone più garantista della giurisprudenza di legittimità, si auspica che l’estensione del trattamento più favorevole della legge Balduzzi non solo alle condotte degli operatori sanitari connotate da imperizia, ma anche a quelle inficiate da imprudenza e negligenza, possa rappresentare il punto conclusivo del dibattito, senza innescare un’ulteriore reazione di quella parte della Quarta Sezione meno sensibile all’esigenza di contrasto della c.d. medicina difensiva, fenomeno riconducibile alle tentazione della classe  medica di garantire in via prioritaria la propria incolumità giudiziaria rispetto a quella fisica e psichica dei pazienti.


[1] Si verte, in tal caso, nel campo del c.d. rischio consentito, afferente le attività autorizzate giuridicamente nell’ambito delle quali vige l’obbligo di osservanza di protocolli comportamentali che, avendo natura cautelare, consentono di contenere il rischio entro determinati limiti.

[2] Cfr. GADALETA, La colpa professionale del medico con particolare riguardo agli obblighi divisi e alla posizione dello specializzando. I risvolti civilistici, in Studi di diritto penale, 629 ss.

 

[3]  Cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano 2008.

[4] Per un’analisi complessiva, GRASSO, La responsabilità penale dell’attività medico-chirurgica: orientamenti giurisprudenziali sul grado della colpa, in Riv. it. med. leg. 1979, 82 ss.

[5] Cass. sez. IV, 29 marzo 1963, Pucci, Cass. Pen. Mass.  ann., 1963, 690; Cass. sez. IV, 4 maggio 1965, Nani, Riv. pen., 1967, II, 153; Cass. sez. IV, 6 marzo 1967, Izzo, Cass. Pen. Mass.  ann., 1968, 420; Cass. sez. IV, 26 gennaio 1968, Chiantese, Cass. Pen. Mass.  ann., 1077; Cass. sez. IV, 21 ottobre 1970, Lisco, Cass. Pen. Mass.  ann., 1972, 558; Cass. sez. IV, 4 febbraio 1972, Del Vecchio, Cass. Pen. Mass.  ann., 1973, 538.

[6] In una delle pronunzie più esplicite in tal senso, si afferma che la colpa grave rilevante nell’ambito della professione medica “ si riscontra nell’errore inescusabile avente origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell’atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di potere adoperare correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria.” (Cass. sez. IV, 21 ottobre 1970, Lisco, Cass. Pen. Mass.  ann., 1972, 558).

[7] Cass. pen. Sez. IV, 16 febbraio 1987, Giust. Pen., 1988, II, 106.

[8] Cfr. MAZZACUVA, Responsabilità penale e grado della colpa nell’esercizio dell’attività medico-chirurgica, in Temi, 1974, 17.

[9] Il Tribunale di Varese, non condividendo siffatta impostazione, con ordinanza del 12 luglio del 1971, sollevò, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 42 e 586 c.p. nella parte in cui nella parte in cui permettevano che “nella valutazione della colpa il giudice attribuisce rilevanza solo ai gradi di colpa di tipo particolare”,così determinando un’ingiustificata condizione di diseguaglianza dei cittadini di fronte alla legge a seconda del possesso o meno di un “titolo accademico”.

[10] Ex plurimis Cass. pen. sez. IV, 2 giugno 1987, CED Cass. N. 177085; Cass. pen. sez. IV, 28 aprile 1994, CED Cass. N.  200387; Cass. 16 giugno 2005, in CED Cass. N. 232447. Anche se, a dire il vero, una valorizzazione della colpa grave la si coglie, seppure sulla base di argomentazioni differenti, in Sez. IV, sent. 23 marzo 1995, Salvati, in Cass. pen., 1996, p. 1835 ss. e in Sez. IV, sent. 29 settembre 1997, n. 1693, Azzini, in Riv. pen., 1998, p. 350 ss. che  rivalorizzano l’art. 2236 c.c. quale “criterio di razionalità del giudizio“; criterio invocabile, cioè, come regola di esperienza cui il giudice possa attenersi nel valutare l’addebito di imperizia sia quando si versi in una situazione emergenziale, sia quando il caso implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.

[11] Cass. pen. sez. IV,29 settembre 1997, n. 1968.

[12] Pag. 11 della sentenza in commento.

[13] Cfr. Cass. pen., sez. IV, 19 settembre 2012, n. 35922.

[14] In particolare, secondo Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013 n.11493, in Redazione Giuffrè, 2013 “Né, trattandosi di colpa per negligenza ed imprudenza, può trovare applicazione il novum normativo di cui all’art. 3 della legge n. 189 del 2012, che limita la responsabilità in caso di colpa lieve. La citata disposizione obbliga, infatti, a distinguere fra colpa lieve e colpa grave, solo limitatamente ai casi nei quali si faccia questione di essersi attenuti a linee guida e solo limitatamente a questi casi viene forzata la nota chiusura della giurisprudenza che non distingue fra colpa lieve e grave nell’accertamento della colpa penale. Tale norma non può, invece, involgere ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza, perché, come sopra sottolineato, le linee guida contengono solo regole di perizia. Va, comunque, precisato, in via generale, che le linee guida per avere rilevanza nell’accertamento della responsabilità del medico devono indicare standard diagnostico terapeutici conformi alla regole dettate dalla migliore scienza medica a garanzia della salute del paziente e (come detto) non devono essere ispirate ad esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente (va ovviamente precisato che anche le aziende sanitarie devono, a maggior ragione in un contesto di difficoltà economica, ispirare il proprio agire anche al contenimento dei costi ed al miglioramento dei conti, ma tali scelte non possono in alcun modo interferire con la cura del paziente: l’efficienza di bilancio può e deve essere perseguita sempre garantendo il miglior livello di cura, con la conseguenza del dovere del sanitario di disattendere indicazioni stringenti dal punto di vista economico che si risolvano in un pregiudizio per il paziente).”; Comf. Cass. pen. sez. IV, 9 aprile 2013, n. 16237,nella quale viene affrontato il problema di diritto intertemporale, osservando che la riforma ha determinato la parziale abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti le professioni sanitarie ed, in particolare, di quella di cui all’art. 589 e 590 c.p. restringendo la portata dell’incriminazione di un’area fattuale costituita da condotte aderenti ad accreditate linee-guida ed attribuendo rilevanza penale, in tale ambito, alle sole condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell’attuazione in concreto delle direttive scientifiche. Tale struttura della riforma dà corpo ad un tipico caso di abolitio criminis parziale.

Da ultimo, Cass. pen. sez V, 11 marzo 2014 n. 11804 in Persona&Danno, 2014, ha operato un’ulteriore precisazione per quanto attiene il profilo della colpa e la sua rilevanza ai fini del riconoscimento della responsabilità del medico: “Con tale intervento legislativo si è voluto evidentemente affermare che la colpa medica giuridicamente rilevante è solo la colpa grave (e, ovviamente, gravissima) e che – dunque – se il medico si attiene a quelle che sono le indicazioni metodologiche elaborate, nel corso degli anni, dalla comunità scientifica, una eventuale, trascurabile imprecisione nella pratica applicazione dei criteri sopra ricordati non può determinare sua responsabilità. In altre parole, è solo la macroscopica violazione delle regole della ars medica quella che può fondare una pronuncia di addebito nei confronti del sanitario. Dunque: la colpa assume connotati di grave entità unicamente quando l’erronea conformazione dell’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalla necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente. Può, pertanto, parlarsi di colpa grave solo quando i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono delle prassi accreditate assumono un chiaro rilievo, che non lasci residuare alcun dubbio plausibile sulla necessità di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente.”.

[15] Cfr. Cass. pen. sez. IV, 1 luglio 2015, n. 45527, Rv. 264897; Cass. pen. sez. IV, 9 ottobre 2014 n. 47289, Rv. 260739.

[16] Pag. 12 della sentenza in commento.

[17] Pag. 13 della sentenza in commento.

[18] Pag. 14 della sentenza in commento.

[19] Pag. 15 della sentenza in commento.

[20] Cass. Sez. IV, 9 ottobre 2014, dep. 17 novembre 2014, n. 47289, con nota di Roiati, Prime aperture interpretative a fronte della supposta limitazione della Balduzzi al solo profilo dell’imperizia, in Diritto Penale Contemporaneo, 23 marzo 2015.

[21] Pag. 8 della sentenza in commento.

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