La dichiarazione dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge non si estende ai rapporti esauriti Costituisce regola di carattere generale, affermata anche da questo Consiglio di Stato (tra le altre: Sez. VI, 5 settembre 2005 n. 4513; sez. III, 14 marzo 2012, n. 1429), quella secondo cui la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù, tra l’altro, della definitività dei provvedimenti amministrativi da cui esse sono sorte. Ad opinare in senso contrario, come fa la congregazione religiosa odierna appellante allorché invoca la nullità degli atti amministrativi regionali, si determinerebbe l’effetto di decentrare il sindacato di costituzionalità, attraverso lo strumento della disapplicazione, dall’unico organo titolare al giudice comune. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.4.2013, n. 2215)
Sanità: la maggiore retribuzione per mansioni superiori spetta al dipendente a condizione che vi sia stato un atto formale di incarico relativo alla copertura temporanea di un posto vacante in organico, e sempreché tale atto provenga dall’organo competente ad emanare i provvedimenti in materia di stato giuridico e trattamento economico del personale Per giurisprudenza consolidata nel comparto sanitario, ai sensi dell’art. 29 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, nella lettura che di esso hanno dato la Corte costituzionale ed il Consiglio di Stato, la maggiore retribuzione per mansioni superiori spetta al dipendente a condizione che vi sia stato un atto formale di incarico relativo alla copertura temporanea di un posto vacante in organico, e sempreché tale atto provenga dall’organo competente ad emanare i provvedimenti in materia di stato giuridico e trattamento economico del personale, non essendo sufficienti a questo riguardo eventuali ordini di servizio di un superiore gerarchico (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. III, 8 ottobre 2012, n. 5221). La circostanza che nella fattispecie fosse stato comunicato l’ordine di servizio dal Capo Ripartizione Provveditorato, superiore gerarchico della ricorrente, al Segretario generale dell’Ente Ospedaliero, cioè al vertice dell’organizzazione dei servizi non sanitari, (non esistendo presso l’Ente all’epoca il Comitato di Gestione), non modifica il risultato, trattandosi di atto proveniente da organo privo di competenza in materia di conferimento di funzioni superiori. L’incarico formale può, difatti, provenire solo da chi ha istituzionalmente il potere di esprimere la volontà dell’ente ed assumerne l’onere finanziario. Diversamente, se si lasciassero liberi i dipendenti e funzionari, ancorché gerarchicamente sovraordinati, di disporre secondo convenienza di utilizzare i dipendenti per compiti diversi da quelli che a costoro possono essere richiesti in ragione della qualifica funzionale rivestita, verrebbero disattesi i principi di buon andamento e di certezza dell’assetto organizzativo e finanziario delle pubbliche amministrazioni. Resta, in tali casi, la possibilità per il dipendente di rifiutarsi di svolgere mansioni che non gli competono sulla base della qualifica posseduta e non gli vengono conferite con atto formale proveniente da organo competente a deliberare. (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 18.4.2013, n. 2202)
Gli atti adottati dal commissario ad acta nominato per l’esecuzione di un giudicato sono impugnabili in via funzionale dinanzi al giudice che ne ha disposto l’investitura, al quale, pertanto, va riconosciuta una specifica competenza funzionale La ricognizione della funzione del commissario ad acta può essere effettuata sotto due diversi versanti del rapporto con l’amministrazione sostituita e con il giudice. Dal primo punto di vista, occorrerà ricordare (da ultimo ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 21 gennaio 2013 n. 327) come la relazione che s’instaura tra il Comune ed il commissario ad acta, nominato per l’adozione di uno specifico atto, è di natura intersoggettiva, perché il Commissario esercita poteri autonomi, aventi gli stessi effetti verso i terzi di quelli dell’ente sostituito per provvedere in vece di questo e per superare la paralisi dell’azione amministrativa, e non interorganica. Dal secondo punto di vista, va ricordato che, ai sensi degli art. 21 e 114 comma 4 lett. d) del codice del processo amministrativo, il commissario ad acta è un ausiliare del giudice e titolare di un potere che trova diretto fondamento nella pronuncia giurisdizionale da portare ad esecuzione (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 1 marzo 2012 n. 1194). Ne deriva che egli è legittimato, anche al di fuori delle norme che governano l’azione ordinaria degli organi amministrativi sostituiti, ad adottare ogni misura conforme al giudicato che si appalesi, in concreto, idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento effettivo del bene della vita di cui sia stato riconosciuto titolare nella sentenza da portare ad attuazione. Sulla scorta di questa riconosciuta negazione della valenza amministrativa dell’attività svolta, in favore della sua natura di organo ausiliario del giudice esplicante attività giurisdizionale, va sottolineata la conseguente esclusione dell’impugnabilità in sede di giurisdizione generale di legittimità, specie in riferimento a motivi oggetto di accertamento con autorità di giudicato, come nel caso in esame. Ed in effetti, è evidente la tendenza della giurisprudenza a salvaguardare gli ambiti di autonomia del commissario ad acta e a preservare gli ambiti differenziati tra giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza (si veda ad esempio, Consiglio di Stato, sez. III, 22 febbraio 2012 n. 954 in merito alla inammissibilità dell’appello quando investe determinazioni esecutive o attuative riservate allo stesso organo autore del giudicato, promananti dal commissario ad acta suo ausiliare, rispetto alle quali non è ipotizzabile quella revisione prioris instantiae che ontologicamente presuppone un precedente giudizio; oppure Consiglio di Stato, sez. V, 28 dicembre 2011 n. 6953, dove si afferma che gli atti adottati dal commissario ad acta nominato per l’esecuzione di un giudicato sono impugnabili in via funzionale dinanzi al giudice che ne ha disposto l’investitura, al quale, pertanto, va riconosciuta una specifica competenza funzionale, per cui è il giudice che lo ha nominato che conosce di tutte le questioni relative alla esatta adozione del provvedimento richiesto, compresi i provvedimenti adottati). Sulla scorta di tale inquadramento, deve sicuramente affermarsi che la contestazione dell’operato del commissario da parte di soggetti terzi rispetto al giudizio coperto dal giudicato, come nel caso oggi in esame, deve rispettare gli stessi parametri, tenendo peraltro presente i limiti di validità dell’accertamento giudiziale compiuto, atteso che questo non può produrre effetti verso i terzi, secondo la regola dei limiti soggettivi del giudicato codificata dall’art 2909 c.c. Nell’odierna decisione, si assiste all’impugnativa, da parte di un soggetto risultato estraneo sia alla lite definita con sent. n.6243/04 che al relativo giudizio di ottemperanza, di una vicenda in cui avrebbe dovuto rivestire la posizione di controinteressato in senso sostanziale, quale proprietario di area ricadente nella stessa maglia oggetto dell’impugnato titolo edilizio e quindi di titolare di interesse qualificato ed attuale al mantenimento dell’atto di diniego di permesso a costruire originariamente gravato ed annullato con la sentenza n.6243/04. Peraltro, nella valutazione dei motivi di ricorso, l’odierno appellante, già originario ricorrente, incide solo apparentemente sul provvedimento adottato dal commissario, deducendo invece vizi di illegittimità che, in concreto, sono rivolti avverso la sentenza n.6243/04 e la collegata decisione n.2908/06 e mirando a rimettere in discussione rapporti giuridici già coperti dal giudicato, atteso che la sentenza da cui discende il permesso di costruire apparentemente gravato ha già statuito in ordine alle questioni che fondano l’appello della parte. Deriva dalla svolta ricostruzione che l’attuale appellante, quale terzo controinteressato in senso sostanziale rimasto estraneo nel giudizio amministrativo vertente sull’annullamento di diniego di titolo edilizio, ha certamente il potere di contestare quanto dedotto nel giudicato di annullamento, non gravando il provvedimento emesso dal commissario ad acta, ma esclusivamente valendosi del rimedio dell’opposizione di terzo ordinaria, ora disciplinata dall’art 108 del codice del processo amministrativo, da proporre nel termine di sessanta giorni, ora disciplinato in via generale dall’art. 92 del codice, ma che già precedentemente era stato riconosciuto come valevole dalla giuriprudenza (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 26 settembre 2011 n. 5367), decorrente dall’avvenuta conoscenza della sentenza opponenda. Detto termine, di natura certamente decadenziale, evidenzia l’esistenza di una differenza tra l’opposizione di terzo in sede civile, ex art 404 comma 1 c.p.c., di carattere facoltativo ed alternativo rispetto all’azione autonoma di accertamento (si veda, Corte di Cassazione, sez. un., 26 luglio 2002 n. 11092), e quella in sede processuale amministrativa, dal marcato tenore impugnatorio. La ragione appare palmare quando si sottolinea, da un lato, che, qualora il termine non fosse così stringente, la posizione sostanziale di interesse legittimo azionata avrebbe una tutela maggiore di quella conseguibile con il ricorso di carattere impugnatorio e, dall’altro, che il termine mantiene le sue caratteristiche qualunque sia la tipologia di azione esercitata in sede giurisdizionale amministrativa (si veda Consiglio di Stato, sez.VI, 9 febbraio 2009 n.717 in merito all’azione di accertamento da parte del terzo in merito alla sussistenza dei presupposti normativi per attività edilizia soggetta a DIA). (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.4.2013, n. 2184)
I criteri di equipollenza dei titoli di studio validi per l’ammissione ai pubblici concorsi debbono risultare dal bando o da disposizioni normative Mentre i criteri di equipollenza dei titoli di studio, validi per l’ammissione ai pubblici concorsi, debbono risultare dal bando o da disposizioni normative, l’affinità tra materie d’insegnamento – ove valutabile ai fini dell’esperienza maturata – può essere oggetto di apprezzamento discrezionale, sindacabile sotto gli ordinari profili della corretta rappresentazione della realtà e della ragionevolezza (cfr., in tal senso, per il principio, Cons. St., sez. VI, sent. 11 ottobre 1990 n. 903 e sent. 28 dicembre 2011 n. 6898). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.4.2013, n. 2179)
L’oggetto del giudizio di ottemperanza è rappresentato dalla puntuale verifica da parte del giudice dell’esatto adempimento da parte dell’Amministrazione dell’obbligo di conformarsi al giudicato L’oggetto del giudizio di ottemperanza è rappresentato dalla puntuale verifica da parte del giudice dell’esatto adempimento da parte dell’Amministrazione dell’obbligo di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all’interessato l’utilità o il bene della vita già riconosciutogli in sede di cognizione (C.d.S., sez. V, 3 ottobre 1997, n. 1108; sez. IV, 15 aprile 1999, n. 626; 17 ottobre 2000, n. 5512). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.4.2013, n. 2172)
Se il provvedimento e’ divenuto inoppugnabile, l’Amministrazione a fronte della domanda di riesame, non ha alcun obbligo di rispondere I provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale che l’Amministrazione non ha alcun obbligo di attivare e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile; pertanto, una volta che il privato, o per aver esaurito i mezzi di impugnazione che l’ordinamento gli garantisce, o per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un provvedimento inoppugnabile a fronte del quale può solo sollecitare l’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione, quest’ultima, a fronte della domanda di riesame, non ha alcun obbligo di rispondere (Cons. Stato, V, 3 maggio 2012, n. 2548). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.4.2013, n. 2141)
Contratto a tempo determinato: l’illegittima apposizione del termine al contratto si risolve in un vizio dell’atto costitutivo del rapporto, e conseguentemente va impugnato nei termini di decadenza, e non di prescrizione Per consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28 giugno 2008, n. 3209; Cons. Stato, sez. VI, 11 ottobre 2005, n. 5646; Cons. Stato, sez. VI, 4 luglio 1991, n. 412; Cons. Stato, Ad. Plen. 15 dicembre 1981, n. 11) nella disciplina pubblicistica del rapporto di lavoro l’eventuale illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro a tempo determinato si risolve in un vizio dell’atto costitutivo del rapporto, e conseguentemente, impingendo su una posizione soggettiva configurabile come interesse legittimo, e non come diritto soggettivo, vanno impugnate nei termini di decadenza, e non di prescrizione; ciò non è accaduto nel caso di specie, visto che il ricorrente è stato assunto nel 1991 e la contestazione dell’illegittima apposizione del termine è avvenuta solo nel 1993, in occasione del ricorso proposto contro la risoluzione anticipata del rapporto. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.4.2013, n. 2138)
Indennità di prima sistemazione e spese di viaggio tardivamente corrisposte: niente interessi legali sulle somme dovute a titolo d’indennità di trasferimento ex legge n. 100 del 1987 L’Istituto nazionale per la previdenza sociale chiede nel giudizio in esame la riforma della sentenza con la quale il T.a.r. per il Lazio ha riconosciuto il diritto della ricorrente alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali su somme a titolo d’indennità di prima sistemazione e per spese di viaggio tardivamente corrisposte. L’appello è stato ritenuto fondato dal Consiglio di Stato. La giurisprudenza è, infatti, da tempo orientata per la natura non retributiva dell’indennità di trasferimento prevista dalla legge n. 100 del 1987, attesa la sua finalità di ristoro dei disagi derivanti da una nuova sistemazione del dipendente (per tutte, C.S., sez. IV, sent. 6 novembre 2009 n. 6935). Pertanto, al relativo credito non è applicabile il principio desumibile dall’art. 429, c.p.c., operante invece per quelli che abbiano natura retributiva, direttamente collegati all’avvenuta prestazione del lavoro e contemplante, in caso di condanna al pagamento di somme di denaro per spettanze di lavoro, il cumulo tra gli interessi nella misura legale ed il maggior danno eventualmente subìto dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.4.2013, n. 2133)
Nessuna assimilazione tra medici gettonati e ricercatori universitari  Il Consiglio di Stato ha chiarito, con giurisprudenza consolidata, che “sia su un piano generale sia con riguardo alla medesima fattispecie in esame decisa con riferimento all’appello proposto dall’Università degli Studi di Napoli Federico II – che l’assimilazione fra medici gettonati e ricercatori universitari non può essere condivisa, in quanto incompatibile con il principio fondamentale, riconducibile all’art. 97, commi 1 e 2, della Costituzione, in forza del quale qualifiche e funzioni, così come il corrispondente trattamento retributivo, debbono essere definiti in base alla legge” (sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 6195). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.4.2013, n. 2135)
Abilitazione all’insegnamento: il mancato versamento dei contributi non può comportare l’automatica esclusione dalla selezione per l’immissione nelle graduatorie permanenti E’ requisito di ammissione alla sessione di esami per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento l’aver prestato servizio in qualità di docente per i periodi indicati dalla norma, ritenuti congrui ai fini della maturazione della specifica esperienza professionale nel settore didattico utile all’inserimento nelle graduatorie permanenti. In base alla giurisprudenza (per tutte, sez. VI, 27 giugno 2006, n. 4101), ai sensi dell’art. 2 comma 4 legge 3 maggio 1999 n. 124 costituisce requisito di ammissione alla sessione di esami per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento l’aver prestato servizio in qualità di docente per i periodi indicati dalla norma, ritenuti congrui ai fini della maturazione della specifica esperienza professionale nel settore didattico utile all’inserimento nelle graduatorie permanenti. Una volta data dimostrazione della prestazione con carattere di effettività del servizio predetto, l’assolvimento da parte dell’ente datore di lavoro degli obblighi di contribuzione previdenziale si configura come elemento esterno rispetto al requisito di ammissione oggetto di accertamento, non avendo il regolare versamento dei contributi alcuna attinenza con il riscontro delle capacità professionali e didattiche dei docenti da selezionare. A siffatta condotta omissiva – sanzionata di per sé da altre norme e rispetto alla quale il lavoratore subordinato è in posizione di estraneità – non può farsi discendere la non valutabilità del periodo di servizio, aggiungendo ulteriori conseguenze negative in danno del soggetto già pregiudicato sotto lo specifico profilo previdenziale ed assicurativo. Nella fattispecie in esame, il ricorrente ha prestato servizio di insegnamento presso la scuola privata parificata Raffaele Danza di Potenza, negli anni scolastici dal 1996 al 1999, per complessivi 820 giorni: indipendentemente dal titolo in forza del quale l’insegnamento è stato prestato (prestazione autonoma, ovvero, come ha ritenuto il primo giudice, rapporto di lavoro subordinato), tale servizio vale a integrare quella specifica esperienza professionale che, come si è detto, costituisce il presupposto per l’ammissione alla procedura di cui trattasi. In conclusione, il mancato versamento dei contributi può assumere soltanto valore di presupposto per l’esercizio di ogni ulteriore accertamento dell’Amministrazione in ordine alle condizioni ed ai periodi in cui il servizio oggetto di certificazione è stato reso, ma non può dare ingresso con effetto di automatismo all’esclusione dalla selezione per l’immissione nelle graduatorie permanenti. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.4.2013, n. 2136)
Concorso pubblico: la composizione della commissione giudicatrice Nel giudizio in esame il ricorrente censura, tra l’altro, la composizione della commissione, a parere dell’appellante inadeguata a selezionare architetti, vista la presenza di un solo ingegnere ed al contrario di un componente laureato in giurisprudenza e un altro laureato in pedagogia. Sul punto il Consiglio di Stato rileva che le prove di concorso dovevano riguardare calcoli in materia di costruzioni e questioni di diritto amministrativo, dunque la presenza di un ingegnere e di una laureata in giurisprudenza collimava perfettamente con le stesse prove; quanto alla laureata in pedagogia, vi è da considerare che la medesima è da tredici anni la responsabile del Servizio appalti del Comune e perciò si deve mettere in evidenza come una simile esperienza pluriennale interdisciplinare tra problematiche tecniche ed amministrative potesse costituire una garanzia per una selezione come quella oggetto del presente giudizio. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.4.2013, n. 2101)
Il rapporto di lavoro di fatto instaurato con la P.A.: gli indici rilevatori del rapporto di lavoro subordinato Se il rapporto di lavoro a termine o a tempo indeterminato, instaurato con la P.A., e’ in contrasto con le disposizioni che lo disciplinano, con conseguente nullità del medesimo, nasce e vive come rapporto di fatto, rispetto al quale gli indici rivelatori del rapporto di pubblico impiego assumono soltanto funzione di astratta qualificazione al fine della determinazione della giurisdizione e della disciplina economica e previdenziale cui devono essere sottoposte le prestazioni lavorative: a tali prestazioni di fatto, rese nell’ambito del rapporto nullo, si applica l’art. 2126 c.c., con tutte le conseguenze retributive e previdenziali connesse, limitatamente al periodo in cui il rapporto di fatto ha avuto esecuzione (cfr., da ultimo, ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 18 aprile 2012, n. 2249)…..va precisato che dal complesso degli atti e dei documenti di causa emerge che l’appellante era stata “assunta” solo in via provvisoria dal Comune per due sole ore lavorative giornaliere; alla luce degli elementi documentali acquisiti agli atti del giudizio, correttamente il TAR ha ritenuto insussistenti gli indici rivelatori dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato di fatto e ha sancito che gli emolumenti ricevuti, parametrati al trattamento economico identico a quello previsto dal CCNL degli Enti Locali, sempre però in rapporto alle ore lavorative svolte, fossero adeguatamente remunerativi della prestazione di fatto svolta a favore dell’Ente locale appellato. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.4.2013, n. 2087)
Se un candidato alla carica di sindaco sia proclamato eletto al secondo turno, alla lista o al gruppo di liste ad esso collegate che non abbia conseguito almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, viene assegnato il 60 per cento dei seggi: come si calcola il 60% Il comma 10 dell’art. 73 del D. Lgs. n. 267 del 2000 prevede tra l’altro che “qualora un candidato alla carica di sindaco sia proclamato eletto al secondo turno, alla lista o al gruppo di liste ad esso collegate che non abbia conseguito, ai sensi del comma 8, almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, viene assegnato il 60 per cento dei seggi, sempreché nessuna altra lista o gruppo di liste collegate al primo turno abbia superato nel turno medesimo il 50% dei conti validi. I restanti seggi vengono assegnati alle altre liste o gruppi di liste collegate ai sensi del comma 8”. E’ pacifico, quindi, che alla coalizione di liste collegate al sindaco vincente spetta il 60% dei 24 seggi di cui nel caso di specie è composto il consiglio comunale di Martina Franca. Poiché aritmeticamente il 60% di 24 corrisponde a 14,4, non possono essere attribuiti alla coalizione vincente 14 seggi, come sostenuto dai ricorrenti in primo grado, in quanto ciò costituirebbe una macroscopica ed inammissibile violazione di legge: 14 seggi infatti corrisponderebbe non già al 60%, bensì al 58,33% dei 24 seggi, il che tradirebbe la ratio della ricordata normativa che, per consentire la migliore governabilità dei medi e grandi comuni, ha ritenuto indispensabile che la lista o la coalizione di liste collegate al sindaco vincente, anche a seguito del ballottaggio, che non abbia raggiunto almeno il 60% dei seggi, consegua l’assegnazione del 60% dei seggi. Le considerazioni precedenti, alla stregua delle quali deve ritenersi corretta nel caso di specie l’assegnazione da parte dell’Ufficio Centrale Elettorale alla coalizione di liste collegate al sindaco vincente di 15 seggi, escludono contemporaneamente in radice la stessa rilevanza delle pur suggestive considerazioni circa l’arrotondamento della cifra decimale risultante dall’operazione aritmetica, tanto più che tali argomentazioni non trovano alcun supporto, neppure a livello indiziario, nella norma in esame. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.4.2013, n. 2086)
Selezione interna per posto di portavoce istituzionale: in virtù della natura fiduciaria della figura professionale la relativa controversia ex art. 63 dlgs n. 165/01 rientra nella giurisdizione del giudice civile Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha rilevato come l’interesse ad ottenere il posto di portavoce istituzionale, in virtù di un incarico diretto ed attesa la natura fiduciaria della figura professionale in questione, ” non attiene in alcun modo alla materia dei concorsi pubblici per l’accesso al pubblico impiego, bensì a posizioni pretensive del dipendente afferenti alla pretesa progressione verticale, indipendentemente da qualsivoglia ipotesi di procedimento concorsuale o selettivo”. E ai sensi dell’art. 63 del decreto leg.vo n.165/2001, vigente al momento della proposizione del ricorso, la giurisdizione su tale tipo di controversie sfugge al giudice amministrativo per rientrare in quella del giudice civile. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.4.2013, n. 2040)
Revoca del contributo per l’Editoria: il procedimento sanzionatorio davanti all’AGCOM non prevede alcun rapporto diretto fra le parti private e i commissari e alle audizioni procede il responsabile del procedimento  Il procedimento sanzionatorio davanti all’AGCOM è disciplinato dal relativo Regolamento che prevede una articolata fase istruttoria, della quale i soggetti interessati devono essere portati a conoscenza e nella quale è prevista anche la possibile audizioni degli interessati davanti agli organi procedenti, ed una fase decisoria nella quale il Consiglio, valutati tutti gli elementi prodotti dal responsabile dell’istruttoria procede alla eventuale irrogazione della sanzione. Il Regolamento prevede quindi che la parte possa essere ascoltata dal responsabile del procedimento, nel corso dell’istruttoria, ma non prevede anche che la parte interessata debba essere ascoltata dal Consiglio che procede alla (eventuale) irrogazione della sanzione sulla base degli atti e della relazione finale predisposta dal responsabile del procedimento. Considerato che, nella fattispecie, il procedimento si è svolto seguendo il percorso dettato dalla indicata procedura, non sussiste, in relazione a tale prima censura, una violazione delle regole procedimentali. Sul punto questa Sezione, con la citata sentenza n. 3136 del 28 maggio 2012, ha già evidenziato che il Regolamento AGCOM sulle procedure sanzionatorie non prevede alcun rapporto diretto fra le parti private e i commissari, mentre alle audizioni procede il responsabile del procedimento il quale ne riferisce poi al Consiglio. E tale disciplina ha la sua specialità rispetto alle diverse discipline dettate in altri settori dell’ordinamento.mLe appellanti hanno insistito nel sostenere l’illegittimità di tale procedura (e dell’art. 9 della delibera n. 136/06/CONS recante la disciplina del procedimento sanzionatorio) anche in relazione a quanto previsto dalla legge sul procedimento amministrativo, alla disciplina dei procedimenti giurisdizionali e di quelli sanzionatori regolati dalla legge n. 689 del 1981. Peraltro questa Sezione ha già affermato (anche nella citata sentenza n. 3136 del 28 maggio 2012) che la disciplina generale sulla partecipazione nel procedimento amministrativo, contenuta nella legge n. 241 del 1990, non prevede l’imprescindibile diritto alla discussione orale davanti all’autorità che adotta la decisione conclusiva del procedimento. Dovendo essere invece comunque garantito il contraddittorio che, nella specie, è assicurato dagli avvisi inviati alle parti interessate che possono poi accedere agli atti della procedura e presentare, in relazione ad essi, propri scritti difensivi ed infine possono essere ascoltati dal responsabile del procedimento. Di questa attività istruttoria deve tenere conto il responsabile del procedimento che sulla base di tutti gli elementi raccolti (e quindi anche degli elementi provenienti dalla parte o dalla parte forniti in sede di audizione) formula poi la sua relazione istruttoria e la sua proposta all’organo (il Consiglio) competente all’irrogazione della (eventuale) sanzione. Il diritto di difesa nel procedimento sanzionatorio davanti all’AGCOM assume poi caratteri diversi rispetto a quelli propri del diritto processuale. E del resto, come pure questa Sezione ha già affermato nella citata sentenza 3136 del 2012, finanche nel procedimento di esame del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica non è prevista la comparizione delle parti davanti al Consiglio di Stato, né tanto meno la discussione orale. (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 22.4.2013, n. 2241)
Divieto di detenzione di armi: l’intervenuta estinzione per oblazione del reato non incide sul giudizio prognostico di non abuso delle armi da parte del titolare, che ben può essere basato su elementi anche soltanto di carattere indiziario Esercitandosi il potere di vietare la detenzione di armi con riguardo all’interesse pubblico all’incolumità dei cittadini ed alla prevenzione del pericolo che può derivare dall’uso delle armi nonché in riferimento alla condotta ed all’affidamento che il soggetto può dare in ordine alla possibilità di abuso delle stesse, anche un singolo, oggettivamente incontrovertibile, fatto relativo all’abuso delle armi, pur in presenza di una condotta complessivamente esente da mende, è tale da far venir meno il necessario margine assoluto di sicurezza circa il buon uso delle armi, che solo può consentirne la legittima detenzione. Una volta, dunque, che il fatto stesso risulti valutato in termini prognostici di pericolosità senza che emergano elementi di irrazionalità od arbitrarietà, risulta evidente altresì che il lasso di tempo intercorso tra il fatto ed il provvedimento interdittivo non può in alcun modo considerarsi indice di contraddittorietà dell’azione amministrativa, avendo anzi l’Autorità non incongruamente inteso basare la propria valutazione sui fatti come accertati in sede penale (pur con ésiti di archiviazione del relativo procedimento); fatti che rivelano, come s’è detto, quanto meno un’insufficiente capacità di dominio dei proprii impulsi ed emozioni da parte dell’interessato ( cfr.: Consiglio di Stato, sez. VI, 24 novembre 2010, n. 8220; id., 10 dicembre 2010, n. 8707; id., 8 ottobre 2008, n. 4918; id., 18 gennaio 2007, n. 63 ), nella misura in cui essi sono ascrivibili ad “un eccesso colposo di legittima difesa” (v., ancora, in tal senso, l’indicato provvedimento di archiviazione). Né, per finire, indizi favorevoli ad una diversa qualificazione del veduto comportamento dell’odierno appellante sono ricavabili dall’intervenuta estinzione per oblazione del reato di esplosioni pericolose pure a lui ascritto per l’occasione, dal momento che il fatto in sé (l’esplosione di colpi di arma da fuoco, in un luogo abitato e sulla pubblica via, con tutti i rischi ch’esso comporta), nella sua sussistenza e nella sua attribuibilità all’imputato, emerge dalla stessa contestazione e ch’esso si rivela, come già detto, più che sufficiente a sorreggere il controverso giudizio prognostico di non abuso delle armi da parte del titolare, che ben può essere basato su elementi anche soltanto di carattere indiziario ( Consiglio di Stato, Sez. VI, 6.7.2010, n. 4280 ), laddove, nel caso di specie, si è in presenza di elementi aventi connotazione ben più pregnante dei meri indizi. (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.4.2013, n. 2035)
Nell’interpretazione dell’atto amministrativo la sostanza dell’atto prevale sul nomen juris che la P.A. abbia inteso utilizzare Per pacifica giurisprudenza, “ai fini della qualificazione di un rapporto giuridico non deve aversi riguardo tanto al nomen juris speso dalle parti per designarlo, quanto alle caratteristiche da esso effettivamente rivestite nella sua concreta attuazione” (Cons. Stato Sez. V, 19-11-2012, n. 5848); parimenti, è stato rimarcato, quanto alla qualificazione del provvedimento, che “nell’interpretazione dell’atto amministrativo, ai fini della sua qualificazione, si deve tener conto non del nomen juris assegnatogli dall’autorità emanante, ma del suo effettivo contenuto e di quanto esso effettivamente dispone: ciò, in quanto la sostanza dell’atto prevale sul nomen juris che la P.A. abbia inteso utilizzare.”(T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 22-10-2012, n. 791). È costante, infatti, l’indirizzo giurisprudenziale in base al quale, nell’interpretazione dell’atto amministrativo, ai fini della sua qualificazione, si deve tener conto non del nomen juris assegnatogli dall’autorità emanante, ma del suo effettivo contenuto e di quanto esso effettivamente dispone (cfr T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 14 novembre 2011, n. 8828): ciò, in quanto la sostanza dell’atto prevale sul nomen juris che la P.A. abbia inteso utilizzare (v. C.d.S., Sez. V, 16 settembre 2011, n. 5211 ma si veda anche ex multis, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 3 novembre 2009, n. 10782, T.A.R. Lazio, Latina, Sez. I, 21 luglio 2011, n. 614). (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.4.2013, n. 2027)
All’aiuto ospedaliero che esercita le funzioni di primario, su posto esistente in pianta organica e vacante, spetta il trattamento corrispondente all’attività svolta se l’incarico ecceda il periodo di sessanta giorni Il principio di diritto affermato dalla Corte Costituzionale è che l’art. 29 co. 2 del d.P.R. n. 761/1979 vada interpretato nel senso che all’aiuto ospedaliero che esercita le funzioni di primario, su posto esistente in pianta organica e vacante, non spetta alcuna maggiorazione della retribuzione solo quando l’assegnazione temporanea non ecceda il periodo di sessanta giorni, mentre, ove l’incarico ecceda tale periodo, spetta, in via di applicazione diretta dell’art. 36 co. 1 Cost., sulla base dell’art. 2126 co. 1 c.c., il trattamento corrispondente all’attività svolta. Infatti, in deroga al principio generale dell’ irrilevanza, ai fini giuridici ed economici delle mansioni superiori svolte nel pubblico impiego, la retribuibilità delle stesse è ammessa, alla triplice e contestuale condizione:- della esistenza di un posto in organico vacante;- del conferimento formale dell’incarico su posto vacante mediante un atto deliberativo dell’organo competente;- del protrarsi delle suddette mansioni per un periodo eccedente i sessanta giorni nell’anno solare (Cons. Stato, sez. V, 25 maggio 2010 , n. 3313; Cons. Stato, V Sez., 24/8/2007 n° 4492). Facendo applicazione di tali principi al caso che occupa, risulta evidente che: a) non possa accogliersi la richiesta di riconoscimento delle mansioni primariali da data anteriore alla istituzione del posto di Primario in pianta organica in quanto, come osservato correttamente dal Tar, all’epoca non poteva considerarsi espletata alcuna funzione primariale non esistendo in pianta organica il relativo posto. b) possa accogliersi il motivo dedotto in appello in ordine alla retribuibilità delle mansioni espletate oltre il periodo di sei mesi. Sotto tale ultimo aspetto le norme di riferimento poste dall’art. 121 del d.P.R. 384/1990 e dall’art. 29 co.1 del DPR n.761 del 1979 non precludono il riconoscimento della spettanza delle differenze retributive quando l’amministrazione, contravvenendo al divieto, rinnovi l’incarico o permetta la prosecuzione dell’espletamento delle mansioni superiori anche oltre il tempo massimo previsto (Cons. Stato, sez. V nn.2292/2009 e 3428/2008). Infatti, ove l’impiego del dipendente in più elevate mansioni si protragga oltre detto limite, si è al cospetto di un illegittimo comportamento dell’amministrazione che non si riflette in un giudizio di illiceità della prestazione la quale pertanto deve essere retribuita (Cons. Stato sez. III, 12 febbraio 2013, n. 836). (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 18.4.2013, n. 2201)
La legittimazione dei consiglieri comunali dissenzienti ad impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato al fine di esaminare l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Comune nei confronti dell’impugnativa proposta da alcuni consiglieri avverso la delibera consiliare di variazione del bilancio ha proceduto ad una ricostruzione del quadro giurisprudenziale formatosi in detta materia osservando che:- per costante affermazione di questa Sezione, la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui esso rimane circoscritto alle ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, quale ad esempio lo scioglimento e la nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discenda ab externo rispetto all’organo di cui fa parte (così la sentenza 31 gennaio 2001, n. 358);- la legittimazione ad agire dei consiglieri non risiede nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una prerogativa del loro ufficio protetta dall’ordinamento generale, occorrendo in ogni caso avere riguardo, a questo fine, “alla natura ed al contenuto della delibera impugnata” e non già delle norme interne relative al funzionamento dell’organo (sentenza 15 dicembre 2005, n. 7122);- conseguentemente, la contestazione dei consiglieri dissenzienti non può quindi limitarsi a censurare l’oggetto o le modalità di formazione della deliberazione senza dedurre che da esse ne sia derivata una lesione dalle loro prerogative, giacché questa non discende automaticamente da violazione di forma o di sostanza nell’adozione di un atto deliberativo (sentenza 29 aprile 2010, n. 2457). In questa prospettiva, per venire ad una fattispecie in termini a quella oggetto del presente giudizio, si è affermato che l’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri dell’ente locale gli atti presupposti ad una proposta di delibera non costituisce lesione delle prerogative inerenti l’ufficio di consigliere comunale, rimanendo la sua tutela circoscritta in un ambito esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui fanno parte affidata all’espressione a verbale del proprio dissenso in quanto corollario del più generale principio sopra affermato (sentenza 21 marzo 2012, n. 1610). Infatti, anche nella presente fattispecie le censure formulate a questo riguardo consistono, in primo luogo, nell’approvazione della delibera senza previo esame nelle competenti commissioni consiliari e, in secondo luogo, nella mancata messa a disposizione tutti gli atti ad essa relativi, come invece previsto dal regolamento consiliare. Peraltro, presso questa Sezione si registrano pronunce maggiormente aderenti alla posizione degli odierni appellanti, e cioè:- la sentenza 3 marzo 2005, n. 832, in cui si è affermata la legittimazione dei consiglieri comunali ad impugnare la delibera di modificazione statutaria che attribuisce alla giunta poteri di disposizione delle partecipazioni nelle società controllate dall’ente comunale, sul rilievo che la sottrazione di tale oggetto alla competenza consiliare (art. 42, comma 2, lett. “e”, t.u.e.l.) sia conseguentemente lesiva delle prerogative dei componenti di tale organo;- la sentenza 9 settembre 2007, n. 5280, parimenti affermativa della legittimazione del singolo consigliere nel caso di deliberazioni collegiali che investano la sua sfera giuridica o siano state adottate con violazione delle norme attinenti al relativo procedimento formativo, in modo che egli non sia posto in condizione di potere svolgere regolarmente il suo ufficio. 2. Così riassunto il panorama giurisprudenziale rilevante ai fini della presente decisione, occorre subito fugare i dubbi di contrasto di indirizzi: al di là della citata sentenza 1610/2012 (dalla cui sintetica motivazione non è peraltro possibile saggiare la consistenza delle censure mosse e la deduzione delle conseguenze sull’esercizio dell’ufficio di consigliere), se si approfondiscono le reali rationes decidendi delle sopra menzionate pronunce si può infatti notare che:- la n. 358/2001 concerneva un’impugnativa avverso la delibera di approvazione di un progetto di opera da parte della giunta, in asserita violazione delle norme sulla competenza del consiglio, per cui si verteva pacificamente in una situazione di conflitto interorganico;- la n. 7122/2005 è stata resa in relazione ad una delibera di approvazione del bilancio comunale e della relazione revisionale e programmatica, impugnate per violazioni procedimentali e con l’art. 170 d.lgs. n. 267/2000: le censure si muovevano dunque sul piano della illegittimità per contrasto dell’atto deliberativo rispetto ai relativi requisiti di legittimità, in assenza di una concreta ricaduta sull’ufficio consiliare;- nella n. 2457/2010 la supposta lesione dell’ufficio di consigliere era stata dedotta a causa di asserito scorretto esercizio del diritto di voto di altri consiglieri. Nel caso di specie, per contro, ci si lamenta che per effetto di illegittimità procedimentali non sia stato consentito un consapevole esercizio del voto da parte dei consiglieri sugli oggetti della delibera di variazione del bilancio, essendo mancata la necessaria attività istruttoria e di acquisizione documentale, con il risultato di impedire un dibattito effettivo e l’attivazione degli strumenti di sollecitazione del dissenso all’interno dell’organo consiliare (mozioni, interpellanze, proposte di emendamento, di sospensione et similia). Sul punto va osservato che, come ampiamente noto, in base all’art. 42 t.u.e.l. il consiglio è l’organo di indirizzo politico-amministrativo, competente in ordine agli atti fondamentali per l’ente. Ad esso sono attribuite tutte le decisioni che ineriscono la definizione della politica generale e la realizzazione dei fini istituzionali del governo comunale. I singoli componenti, investiti di legittimazione popolare, “hanno diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio”, nonché di ottenere dai competenti uffici dell’amministrazione “tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato” (art. 43, commi 1 e 2). L’ampia formulazione delle norme in esame si pone in stretta derivazione del principio di partecipazione democratica alle istituzioni rappresentative della sovranità popolare, a partire dal livello di governo più vicino ai cittadini, sostanziandosi nell’esigenza della collettività rappresentata, da cui tale sovranità promana, di venire a conoscenza di tutte le notizie utili sull’attività amministrativa dell’ente esponenziale, grazie alla pubblicità assicurata del dibattito consiliare. In stretta correlazione si colloca la composizione collegiale dell’organo, preordinata allo svolgimento di un dibattito sulle questioni poste all’ordine del giorno, la quale è inoltre quella idonea ad assicurare la necessaria ponderazione e confronto in ordine alle scelte fondamentali da adottare, oltre che di verifica democratica circa la posizione assunta dai gruppi politici e dai singoli componenti in relazione ed esse. Quanto ora osservato consente di lumeggiare le finalità cui le suddette prerogative sono preordinate e la coerenza con essa della sopra accennata ampia formulazione letterale con le quali il legislatore le ha conformate sul piano normativo. Tirando le fila del discorso, il Consiglio di Stato ha affermato che, sulla scorta di questo necessario raffronto tra la consistenza obiettiva dello ius ad officium del consigliere comunale e la prospettazione alla base della presente impugnativa, il TAR abbia esattamente risolto in senso positivo la questione della legittimazione ad agire dei consiglieri odierni appellanti. Infatti, detta impugnativa è stata proposta a tutela delle prerogative inerenti detto ufficio, potendosi pertanto certamente affermarne la legittimazione ad agire, essendo stati enucleati specifici vizi procedimentali aventi concrete ricadute sull’espletamento del mandato consiliare ed inficianti la corretta formazione della decisione dell’organo di cui essi sono parte. È stata quindi respinta l’eccezione preliminare contenuta nell’appello incidentale del comune. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.4.2013, n. 2213)
Come ottenere dal giudice di appello l’integrale rifacimento dell’istruttoria già espletata innalzi al Tribunale  Nell’ambito di una corretta dinamica dei rapporti tra giudizio amministrativo di primo e secondo grado all’insegna del generale divieto di nova in appello, un’integrale rifacimento dell’istruttoria già espletata dinanzi al Tribunale potrebbe giustificarsi solo allorché chi appella abbia fornito, assolvendo ad un preciso onere di allegazione e prova gravante su di sé, elementi tali da persuadere dell’esistenza, nell’istruttoria di prime cure, di vizi tali da comprometterne l’attendibilità, in difetto potendo solo farsi questione della corretta comprensione delle risultanze istruttorie da parte del primo Giudice. Nel caso di specie il Collegio ha ritenuto che appellante, appunto, non è riuscito a fornire elementi atti a mettere realmente in discussione le risultanze della verificazione compiuta dinanzi al T.A.R.: anche perché, è appena il caso di notarlo, il grado di sufficienza esigibile in un’istruttoria va calibrato sulla specifica materia del contendere, in relazione all’esigenza di accertare la presenza, nel titolo, dei vizi di legittimità dedotti dalla parte ricorrente, e non su astratti obiettivi di cognizione integrale della realtà materiale circostante in ogni sua sfaccettatura. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.4.2013, n. 2219)

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