Convenzione Europea del diritti dell’uomo e diritto civile

Avv. Salvatore Magra

L’esame dei punti di intersezione fra CEDU e diritto civile presuppone una digressione sulla configurabilità di una categoria di diritto privato, che possa considerarsi di respiro più ampio, rispetto alla territorialità dei singoli Stati. Al riguardo, l’elaborazione dottrinale ha progressivamente ammesso la presenza della categoria del “diritto privato europeo”, a partire da un più o meno implicito riparto di competenze tra legislazione statale e legislazione extrastatale, soprattutto ai fini di un’armonizzazione, volta tuttavia a mantenere la peculiarità delle disposizioni reciprocamente integrate. La categoria prescinde dal requisito della statualità, in quanto ha una dimensione sovranazionale, in cui è assente il connotato della territorialità (si rifletta sul fatto che alcuni interpreti hanno proposto di impiegare l’antico diritto romano come paradigma per la costruzione del diritto privato europeo). Tale recupero dell’ius commune può rendere opaco l’interesse per le dinamiche internazionali del mercato, che spesso utilizzano strumenti “ad alta tecnologia”, in una dimensione globalizzante e/o globalizzata. E’ pur vero che spesso i paradigmi del passato sono più meditati e meno automatizzati, rispetto al “fiume in piena” odierno, ma anche il diritto romano sconta un riferimento alla materialità, spinto alle estreme conseguenze, nel senso che nel medesimo non potevano essere considerate le realtà “virtuali”, che caratterizzano l’epoca odierna (può riflettersi sulle fattispecie contrattuali telematiche) e non sempre l’adattamento delle categorie romanistiche può avvenire con profitto, per un’adeguata codificazioni di realtà, appartenenti a un’altra epoca tecnologica, a meno che l’ingegneria giuridico-internazionalista raggiunga livelli di eccellenza. L’elaborazione e l’effettiva presenza di un diritto privato europeo pone l’esigenza di sintetizzare le peculiarità dei Paesi di common law e di civil law.

La CEDU, attraverso una lettura non in superficie dei valori immanenti alla stessa, anche superando gli elementi, desumibili dalla lettera delle disposizioni, appare uno strumento orientato nel senso della creazione di una dimensione internazionale del diritto privato civile[1]. La realizzazione del Trattato di Lisbona del 13 Dicembre 2007, che rafforza il principio democratico e la protezione dei diritti fondamentali, va considerata una tappa fondamentale, in rapporto alla corretta interpretazione ella CEDU, nel senso che lo stesso Trattato funge da paradigma di “interpretazione autentica” della CEDU, così come va adeguatamente presa in considerazione la Carta Fondamentale dei diritti dell’Unione Europea, che viene menzionata nel Trattato.

Esiste un patrimonio di princìpi immanenti nella dimensione umana, quali quelli afferenti alla protezione della personalità, che vanno condivisi non solo in una dimensione statuale e territoriale, ma anche in un assetto globalizzante e globalizzato.

Le disposizioni della CEDU derivano da un Trattato internazionale e, attraverso l’art. 117 Cost., così come modificato dalla Riforma del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3-2001), diventano vincolanti per lo Stato e le Regioni, in rapporto all’esigenza di rispetto, da parte dei medesimi enti, dell’obbligo di rispettare i trattati internazionali, così come disposto dal medesimo art. 117. Secondo il Consiglio di Stato, sentenza n. 1220 Sezione IV e TAR Lazio, Sezione II bis n.11984-2010, alle norme CEDU si applica un regime identico a quello delle norme comunitarie, in rapporto all’espresso riferimento alle medesime contenuto nel Trattato di Lisbona[2]. La tesi, peraltro è stata criticata, argomentando nel senso che i vincoli derivanti dalla CEDU valgono come vincoli internazionali.

In ogni caso, attraverso l’art. 117, occorrerà tener conto delle disposizioni della CEDU, in relazione alla protezione della personalità, attraverso l’interpretazione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

VITA PRIVATA E FAMILIARE

Vanno considerati con attenzione gli artt. 8 e 14 della CEDU, i quali si propongono di proteggere la vita privata e familiare, con il contestuale divieto di discriminazioni irragionevoli.[3]

In una decisione del 1° Aprile del 2010 la Corte di Strasburgo ha adottato una lettura ampia della nozione di “vita privata”, fra cui deve includersi la libertà di scelta in rapporto alle modalità di procreazione (la questione si è posta in rapporto alla c.d. fecondazione eterologa). E’ stato condivisibilmente affermato che la sentenza in esame, ancorché formulata in riferimento al divieto di fecondazione eterologa presente nella legislazione austriaca, ha rilievo anche per l’ordinamento italiano, in quanto la legge 40 del 2004 vieta la fecondazione eterologa (art. 4 comma 3°).E’ stato, peraltro, rilevato che la fecondazione eterologa nell’ordinamento italiano è vietata in qualunque sua manifestazione, quando, invece, nell’ordinamento austriaco erano vietate solo alcune tipologie di tale fecondazione, con la conseguenza che la Corte di Strasburgo ha intercettato un possibile trattamento discriminatorio, in rapporto all’assenza di un giustificato motivo, a base dell’individuazione di quali tipologie di fecondazione eterologa . l’argomento si è dimostrato non decisivo, in quanto la Corte di Strasburgo (Costa et Pavan c. Italie, II sezione, arrêt 28 agosto 2012) all’unanimità ha condannato il nostro Paese per violazione dell’art. 8 CEDU, il quale include anche la tutela della libertà di scelta dei componenti della coppia, in rapporto al se divenire o non divenire genitori. La Corte di Strasburgo intercetta una lacuna nell’ordinamento italiano, in quanto in esso è consentita l’interruzione della gravidanza (legge 194 del 1978) ed è esclusa la diagnosi preimpianto, con l’eccezione delle coppie, che abbiano accesso alla procreazione medicalmente assistita), con la presenza di un conseguente trattamento discriminatorio sul diritto all’autodeterminazione della vita familiare. Viene, pertanto, individuata un’incoerenza fra la legge 194, riguardante l’interruzione della gravidanza e la legge del 2004, anche se è stato obiettato che fra le due ipotesi esiste una sostanziale diversità.  E’ stato osservato che si arriverebbe a ipotesi in cui coppie che per situazioni ambientali o per età siano in un’ipotesi di gravidanza a rischio, le quali potrebbero scegliere l’interruzione della gravidanza o intravvedere un’alternativa nella diagnosi pre-impianto, con ulteriore possibilità di sottoporsi a procreazione medicalmente assistita.

Con l’ordinanza 150-2012 la Corte costituzionale ha restituito gli atti ai Giudici a quibus, i quali avevano sottoposto la questione di legittima costituzionale, in rapporto al divieto di fecondazione eterologa, contenuto nella legge n. 40 del 2004.   Con l’ordinanza 29-2013 la I Sezione civile del Tribunale di Milano ha rimesso alla Corte costituzionale la problematica, sottolineando come occorra valutare la sopravvenuta giurisprudenza della Corte di Strasburgo e come occorra riflettere anche sugli argomenti della Grande Chambre, che hanno portato la Corte di Strasburgo a rendere meno incisiva la Decisione della Prima Sezione il 1° Aprile 2010. Di conseguenza, si è di nuovo prospettata la possibilità di una violazione della CEDU.

In termini generali, si può affermare come in tempi recenti la Corte di Strasburgo abbia interpretato in modo ampio la protezione delle posizioni soggettive dei singoli, in materia matrimoniale. Al riguardo, viene in considerazione l’art. 12 della Convenzione, secondo cui “A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”. In taluni arresti la Corte di Strasburgo (Decisione 24-6-2010) ha ritenuto che la diversità biologica del “compagno” non è una condizione imprescindibile per contrarre matrimonio, prendendo in considerazione, peraltro, l’esigenza di tener conto della peculiarità delle unioni nazionali. Pertanto, si ritiene che i diritti delle coppie omosessuali vadano tutelati, anche in rapporto all’art. 9 della Carta di Nizza, secondo cui “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”.

Merita rilevanza anche la Decisione della Corte di Strasburgo, in riferimento alla necessità di attuare qualsivoglia assenza di discriminazione, anche in rapporto al già citato art. 14 CEDU, fra cognome paterno e cognome materno, in quanto la prevalenza attribuita al primo sul secondo appare discriminatoria, nei confronti del ruolo della donna-madre all’interno della famiglia, con la conseguenza che, in sostanza, si perviene a trattare in modo differenziato due situazioni identiche (questo è il nucleo generale, ricavabile dalla sentenza 7 Gennaio 2014, in cui la Corte ha sostenuto che “nella presente causa la Corte ha concluso per la violazione … a causa dell’impossibilità per i ricorrenti al momento della nascita della comune figlia, di farla iscrivere nei Registri dello Stato Civile con, come cognome, quello di sua madre”. La Corte di Strasburgo intercetta un “cedimento” dell’ordinamento italiano, in rapporto all’impossibilità di pervenire a un’iscrizione dei figli con il cognome materno. Peraltro, si è rilevato che in questa maniera possono sorgere delle difficoltà, nel momento in cui una coppia abbia più figli. Si mette, pertanto, in discussione un modello tipicamente patriarcale, che sembra permeare di sé la realtà italiana.

DIRITTI UMANI, LIBERTA’ ECONOMICA E CEDU

Quanto alla disciplina della concorrenza e del mercato esistono due differenti concezioni, con cui si può accostare all’interpretazione del sistema della CEDU : secondo una prima idea, il mercato non è più inteso forza spontanea ma come motore di sviluppo da regolare entro le strutture dello Stato di diritto, attraverso un incisivo intervento pubblico in economia dello Stato stesso, con un sostanziale abbandono del paradigma della “mano invisibile” di Adam Smith e dei neoclassici. Secondo altra idea, il mercato produce da sé le regole per un’efficace allocazione delle risorse e si autodisciplina (lex mercatoria). In ogni caso, la concorrenza sembra un valore precipuo, da preservare (anche se occorre evitare di cadere nell’eccesso di creare una sorta di monopolio dell’eccesso di protezione della concorrenza da preservare). Pertanto, è attraverso un’attuazione di tali paradigmi, o una sapiente integrazione degli stessi che occorre interpretare le modalità, attraverso cui le libertà economiche attecchiscono all’interno della CEDU e del paradigma interpretativo della Corte di Strasburgo. Occorre individuare il nesso fra la libertà economica e i diritti individuali e collettivi e bisogna cercar di comprendere se il coordinamento fra tali posizioni soggettive sia di eguale tenore nella Costituzione italiana e nelle fonti di diritto internazionale e comunitario, anche perché sono diverse le epoche in cui si colloca la redazione di tali Documenti. Proprio per tale diversità di epoca nella realizzazione dei vari Documenti, non è del tutto peregrino affermare che, pur all’interno di una matrice di condivisione dei valori comuni, possa esservi qualche divaricazione nella concreta estrinsecazione delle posizioni soggettive. Il punto di condivisione è rappresentato dai diritti umani, ma l’ideologia politica, sottesa a questa espressione, può esser oggetto di letture diversificate. La teoria dei diritti umani è il nucleo di base delle democrazie e, sotto certi aspetti, della “statualità” e, pertanto, la medesima teoria può assumere un significato diverso, all’interno della dialettica della CEDU e di altri documenti di provenienza internazionale. I diritti umani rappresentano una componente, che consente di delimitare l’ambito di azione del potere, ma questa delimitazione può estrinsecarsi in modi diversi, secondo che venga in considerazione l’Autorità statale e l’ordinamento internazionale, anche attraverso un processo di sintesi fra “locale” e “universale”. Peraltro, questa componente negativa rappresenta solo una lettura parziale del fenomeno, nel senso che una giusta considerazione del nucleo essenziale dei diritti umani può consentire di individuare anche una funzione di propulsione dei valori della democrazia. Anche sotto questo profilo, si assiste a una divaricazione, quantomeno potenziale, fra la modalità, attraverso cui è possibile percepire tale dimensione “in positivo” dei diritti umani e la realtà internazionale. E’ palese come l’espressione diritti umani ricomprenda sia le posizioni soggettive, maggiormente afferenti alla realtà economica, sia le posizioni soggettive aventi una componente maggiormente “personalista”. In una cornice di questo tipo, i diritti umani diventano una sorta di sostrato, attraverso cui prende corpo la coscienza collettiva e tale coscienza si atteggia diversamente, secondo che si assuma una prospettiva orientata alla statualità e alla territorialità dello Stato, o secondo che ci si orienti all’interno di una dimensione internazionale, qual è quella afferente all’esigenza di interpretare le disposizioni della CEDU. Ove la categoria dei diritti umani si orienti in ambito internazionale, va considerato che il modo di percepire tale entità giuridico-politica deve assumere una considerazione diversa, rispetto al modo come la nozione si atteggia in ambito nazionale, attraverso il superamento di una visione provinciale. La globalizzazione incorpora le società politiche in trasformazione, in un’ottica di superamento della categoria dello “Stato”. L’attuale tendenza all’universalità implica, forse, un “recupero” della dimensione del giuridico in senso stretto, rispetto  a ciò che è principalmente politico e storico-sociale. La realtà extrastatuale costituisce un laboratorio di rilievo per l’emersione di nuovi profili dell’essenza ontologica e della valorizzazione dei diritti umani.

La componente “globalizzante” non deve portare con sé una “massificazione” dell’individuo, in quanto già si è affermato che proprio la categoria dei diritti umani, sia quelli afferenti alla realtà economica, sia quelli, afferenti alla realtà esistenziale, non deve portare a una riflessione sull’individuo in termini astratti, in quanto è l’individuo concreto, che deve emergere. Forse, è proprio il timore di tale massificazione, che crea in certi casi dei dubbi critici, nei confronti della globalizzazione. Pertanto, nella riflessione sulla categoria dei diritti umani, è necessario passare da una visione tendenzialmente “astratta” della persona a una visione centrata sulla persona “in carne e ossa”. L’affermazione dello Stato di diritto tende a misurarsi con un individuo astratto, ma successivamente si è avvertita sempre più l’esigenza di orientare l’attenzione verso l’individuo concreto. Si ritiene che occorra tener adeguato conto di questi spunti di riflessione, al fine di ricostruire in modo adeguato la dialettica fra libertà economica e altri diritti di libertà non solo all’interno della CEDU, ma anche per quanto attiene ai rapporti fra CEDU e Costituzione italiana. Questo approccio alla fondamentale problematica implica delle ripercussioni di ordine generale, anche nell’individuazione dei rapporti fra CEDU e diritto civile. La ristrutturazione dei rapporti fra l’individuo e la collettività sembra debba costituire la base, anche ai fini di eventuali antinomie fra CEDU e diritto interno. In un contesto, nel quale, per certi profili, si assiste al ridimensionamento del ruolo dello Stato come entità efficiente, anche in rapporto alla circostanza che non sempre l’intervento dello Stato in economia implica un miglioramento dell’allocazione delle risorse, rispetto all’adozione di una politica di matrice liberista. Il c.d. “fallimento dello Stato” rappresenta un tassello, per comprendere meglio il processo “globalizzante”.

Nella CEDU appare esplicita solo una disciplina delle principali libertà “non economiche”, ma la protezione delle libertà economiche è desumibile dall’art. 33 CEDU, secondo cui “Nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Parte contraente o in base a ogni altro accordo al quale essa partecipi”. La salvaguardia dei diritti dell’uomo già riconosciuti (questa è la rubrica, che preannuncia l’art. 33 della CEDU adesso citato) implica necessariamente l’esigenza di incorporare all’interno della CEDU stessa la protezione delle libertà economiche. Va poi rilevato che la CEDU va interpretata in coerenza con il Trattato di Lisbona e con la Carta dei Diritti in esso inserita, in cui manca una distinzione fra diritti sociali e libertà (ivi comprese quelle economiche) con la conseguenza che deve desumersi l’assenza di limiti tassativi, rispetto all’individuazione degli strumenti di protezione di tali diritti[4]. Emerge il tentativo di attribuire priorità a una protezione dei diritti fondamentali, attraverso una valorizzazione dell’aspetto positivo degli stessi, nel tentativo di delimitare in modo chiaro la disciplina delle regole di convivenza civile nel contesto globalizzato, autonomizzando tale protezione, rispetto a “filtri” ideologici.

Quali sono le conseguenze di questa impostazione in rapporto all’autonomia privata? Può ritenersi che alla medesima vada riconosciuta un ampio raggio d’azione, nell’ottica già delineata del tentativo di sintetizzare realtà normative differenti, tenendo conto delle peculiarità dei singoli ordinamenti. La categoria del contratto andrà “sprovincializzata” e la tutela risarcitoria dell’individuo andrà adeguatamente valorizzata, con la contestuale esigenza di evitare le duplicazioni del danno. Tali princìpi sono estensibili anche al settore “extracontrattuale”. Al riguardo, occorre tener presente che, in ambito internazionale tendenzialmente non esiste distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi e anche di questo profilo occorrerà tenere adeguato conto.

IL DIRITTO DI PROPRIETA’ NELLA CEDU

Un approccio ermeneutico ai rapporti fra diritto civile e CEDU deve necessariamente considerare la disciplina del diritto di proprietà. La Cedu sembra patrimonializzare la natura del diritto di proprietà[5], nel senso che tende a identificare il diritto con il bene, sui cui insiste il medesimo diritto, piuttosto che con la gamma di facoltà, sottesa al diritto stesso. Sotto tale aspetto, sembra emergere uno “spostamento d’asse”, rispetto alla disciplina di diritto interno del diritto di proprietà, nel senso che il Legislatore internazionale è abbastanza chiaro nel non concentrare l’attenzione sul contenuto inerente alla sfera giuridica del titolare del diritto ed è come se fosse attuato un “rinvio” alla disciplina di diritto interno, riguardo a una specificazione dei contenuti del diritto. Emerge, pertanto, una concezione apparentemente materialistica della posizione soggettiva in esame, più focalizzata sull’oggetto, piuttosto che sul titolare della posizione in parola. Peraltro, la tipologia di formulazione si spiega in rapporto al tentativo di non attuare un’invasività in un settore, che, tradizionalmente, è di pertinenza dell’autorità statale. E’ vero che siamo in un’epoca etichettata come “globalizzazione” e che la categoria del “globale”, nelle intenzioni degli artefici di questo percorso planetario, deve prevalere sul “particolare”, ma occorre anche tener conto della circostanza che un’aggregazione delle varie comunità può aversi con profitto solo ove si riscontri il rispetto e il pieno riconoscimento della rilevanza del percorso e dello sviluppo dell’identità culturale di ciascuna civiltà, in quanto, ove si concepisse la globalizzazione come percorso omologante, la medesima sarebbe irrealizzabile.

L’approccio del Legislatore della Convenzione è difficoltoso, in quanto la disciplina del diritto in parola viene inserita all’interno del Protocollo Addizionale alla Convenzione In ogni caso, emerge un tentativo di effettuare un “salvataggio” dell’impostazione normativa del diritto di  proprietà, scelta dai Legislatori dei singoli Stati. L’inserimento nel Protocollo Addizionale e non direttamente nella Convenzione della disciplina del diritto di proprietà ellitticamente suggerisce all’interprete una certa prudenza, da parte del Legislatore Europeo in rapporto alla scelta dell’impostazione della disciplina di questo istituto. Forse, questo discende anche da una certa ritrosia da parte degli Stati, in rapporto all’adesione, nella maggior parte degli Stati direttamente interessati, di un modello capitalistico, che implica una forte assunzione del ruolo dello Stato come soggetto attivo della legislazione del diritto di proprietà, “motore” del capitalismo. Proprio questo fa comprendere la ragione, per la quale si è alla presenza di una disciplina quasi “mascherata” del diritto di proprietà, in quanto la medesima posizione soggettiva non viene espressamente menzionata nel testo dell’art. 1 del Protocollo Addizionale. Il senso della disposizione è esito di una matrice, esito del compromesso fra concezioni divergenti, secondo uno schema affine a quello dell’elaborazione delle disposizioni costituzionali di diritto interno, quando tentano di sintetizzare in una proposizione normativa non esaustiva delle concezioni ideologico-esistenziali anche diametralmente opposte.

Dato che il presente scritto si propone di sondare i rapporti fra diritto civile nella sua globalità e CEDU, può affermarsi che il criterio seguito dal Legislatore della CEDU, riguardo all’impostazione della disciplina del diritto di proprietà, sia estensibile alla disciplina dei diritti reali, diversi dalla proprietà, nel senso che l’affinità fra questo istituto e i diritti reali minori, “plasmati” avendo come modello e paradigma proprio il diritto di proprietà. Pertanto, la CEDU per questa tematica andrà interpretata nel senso che viene lascato agli Stati la possibilità di lasciare una propria “impronta digitale” alla disciplina dei singoli istituti, in modo da evitare il deleterio processo omologante, come sopra precisato. Ove la limitazione del suddetto processo fosse riservata solo al diritto di proprietà, il percorso di aggregazione descritto rimarrebbe monco.

Va, peraltro, tenuto conto anche dello sviluppo di un indirizzo, che potrebbe sembrare antitetico, sotto certi profili, con l’assetto adesso tracciato. Progressivamente, la Corte di Strasburgo si è proposta di attribuire sempre minor rilievo agli Stati nazionali nell’individuazione dell’esatta portata del diritto di proprietà, nel senso del tentativo di attuare un’inversione di tendenza, rispetto alla possibilità di rivendicazione, da parte delle compagini statali, in ordine all’esatta individuazione della portata dell’istituto. Si tratta di un esito ermeneutico, che costituisce la prosecuzione logica della tendenza alla “globalizzazione”, in cui si tenta di formulare un “discorso normativo unitario”, in rapporto a eventuali diversificazioni fra le concezioni, attinenti ai vari Stati, ma le tendenze alla conservazione dell’identità culturale dei vari Stati membri non possono essere messe da parte e vanno tenute in adeguato conto. In questo contesto, si innesta il concetto di “margine di apprezzamento”, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

Tale concetto si riferisce alla possibilità che, sul piano della legislazione statale, siano introdotte delle deroghe, rispetto alla disciplina, che emerga dalla CEDU, in rapporto a determinati istituti. La base è che, ove uno Stato adotti una misura che possa apparire stridente con quanto emerge da un’adeguata interpretazione della normativa, contemplata nella CEDU, tale misura “derogatoria” debba essere adeguatamente ponderata e limitata. Si tratta, forse, dell’esplicazione di un principio di ragionevolezza, nel senso che occorre armonizzare l’esigenza di una sostanziale uniformità di disciplina degli Stati aderenti ed eventuali diversità, da rapportare alle concezioni, afferenti alla peculiarità dei singoli Stati membri. La necessità di delimitare adeguatamente i confini di tale “margine di apprezzamento” è strumentale non solo per percepire con esattezza la concezione del diritto di proprietà, immanente alla CEDU, ma anche per comprendere il rapporto fra CEDU e diritto civile tout court, con l’avvertenza che, specialmente in un’epoca “globalizzante”, il diritto civile non è totalmente “altro”, rispetto agli altri “rami” della scienza giuridica. La contrapposizione fra rapporti di omogeneità culturale e diversità fra ordinamenti civili degli Stati aderenti e firmatari si presenta come un’antitesi da armonizzare (si pensi alle differenti radici culturali dei Paesi di common law e di civil law).

L’art. 1 del Protocollo sul diritto di proprietà (2° c.) contiene un progetto di disciplina della possibile espropriazione del bene per pubblico interesse, mentre viene conferito alle leggi nazionali il potere di disciplina del diritto di proprietà, per fini di interesse generale. Si ritiene che il singolo Stato sia in grado di valutare al meglio l’impostazione del diritto di proprietà per fini, che trascendano la sfera giuridica dei singoli privati. Emerge una visione del diritto civile, non più appiattita sulla sfera giuridica che singoli soggetti dell’ordinamento, concepiti in chiave “atomistica”, e il contestuale tentativo di un allargamento degli orizzonti, per la realizzazione di finalità di più ampio respiro. Vi è una palese consonanza fra la funzione di “utilità sociale” del diritto di proprietà, riconosciuta dalla nostra Costituzione.

Emerge una consonanza di disciplina, tra Costituzione italiana (art. 42 Cost.) e CEDU quanto alla possibilità di prevedere un’espropriazione del bene, in rapporto alla funzione sociale della proprietà. La giurisprudenza costituzionale italiana, in un primo momento, ha aderito alla tesi che l’indennità per il diritto di proprietà non dovesse necessariamente coincidere con il valore venale del bene espropriato. La Corte costituzionale già con la sentenza n. 61-1957 ha sostenuto che il termine “indennizzo”, di cui all’art. 42 Cost., non vada interpretato in senso letterale, con la conseguenza che può adottarsi anche un ammontare dell’indennizzo inferiore al valore venale del bene oggetto di espropriazione. La Corte EDU ha interpretato l’art. 1 del Protocollo Addizionale, nel senso che la previsione dell’indennizzo dell’espropriazione deve corrispondere al valore venale del bene, con conseguente affermazione di un indirizzo antitetico, rispetto a quello, affermato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, che anche in tempi più recenti, rispetto alla sentenza degli anni ’50 sopra citata ha sostenuto che l’indennità di espropriazione deve costituire un serio ristoro per il titolare del diritto, anche se la regola dell’integrità della riparazione, secondo la Consulta, non ha rilevanza costituzionale (cfr. sentenze 5/1980, 223-1983, 148-1999). L’indirizzo della giurisprudenza della Corte Europea può far riflettere su un tentativo di attribuire rilievo alla rilevanza delle posizioni soggettive di diritto civile cristallizzate, come il diritto di proprietà, rispetto alla posizione “autoritativa” dello Stato, con la formulazione da parte della Corte Europea di una giurisprudenza, maggiormente all’avanguardia, rispetto a quanto è emerso dai contenuti delle pronunzie della Consulta, la quale ha talora inteso riferirsi all’adozione di un criterio storico-sistematico, come razionalizzazione a posteriori per giustificare l’idea che l’indennità di espropriazione dovesse e potesse essere di consistenza inferiore al valore venale del bene espropriato. La stessa Consulta ha invertito la propria tendenza nel 2007, assumendo un orientamento con il quale ha recepito la giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo, sostenendo che l’interpretazione, che questa effettui delle disposizioni della CEDU, vada letta come una “norma interposta” rispetto all’art. 117 Cost. Nonostante tale avvicinamento, permane una divaricazione fra la concezione propria della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella della Consulta italiana. Più precisamente, la Corte costituzionale, con le sentenze n. 348 e 349 del 2007, anche in conseguenza delle sollecitazioni, provenienti dalla giurisprudenza della Corte Europea, la Consulta italiana, dichiarando illegittimi i criteri per la determinazione dell’indennità di esproprio dei suoli edificabili e del risarcimento per occupazione acquisitiva illegittima, stabiliti dall’articolo 5-bis del decreto legge 1I luglio 1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359. Le pronunzie citate contengono un importante riferimento alla rilevanza nell’ordinamento interno delle norme della CEDU, attraverso il richiamo, contenuto nell’art. 117 Cost., in cui è esplicitato l’obbligo del rispetto degli obblighi internazionali. Questa premessa ha costituito l’antecedente logico, da cui è scaturito il nuovo orientamento della Corte costituzionale, nel senso che alla medesima è stata sottoposta dal Giudice a quo la questione se il criterio di calcolo, fondato sula media fra il valore venale del bene e il reddito dominicale rivalutato possa reputarsi compatibile proprio con l’art. 1 del primo Protocollo CEDU. Da questo primo assetto della questione, è derivato l’esame, da parte della Corte costituzionale dei contenuti della giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, la quale ha un ruolo determinante nell’esatta individuazione dei contenuti delle disposizioni della CEDU e dei relativi Protocolli. Un consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte Europea ha reputato non compatibile con l’art. 1 Prot. CEDU il preesistente orientamento della Consulta, in base al quale l’indennità di esproprio, pur dovendo costituire un serio ristoro, non deve essere rapportato al valore di mercato del bene. La Consulta ha, pertanto, riconosciuto la necessità di adoperare come parametro, per la determinazione dell’indennità di esproprio, il valore venale (o di mercato) del bene espropriato, ma sembra permanere una diversità, rispetto all’avviso dei Giudici di Strasburgo, nel senso che non è necessario che vi sia una coincidenza fra indennità e valore di mercato. Pertanto, occorre effettuare una valutazione economica non astratta, ma che tenga conto delle caratteristiche specifiche del bene, oggetto di espropriazione. Viene fatta salva la possibilità di introdurre regimi differenziati di determinazione dell’indennità in parola, a condizione che si rispetti un parametro di ragionevolezza, in relazione alla diversa gradazione e modulazione, in cui emerga in concreto il fine di utilità sociale, che giustifica il provvedimento ablatorio.

La Corte costituzionale ha tentato di consolidare l’”allineamento” con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo anche con la successiva sentenza 349-2007, con la quale la stessa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 bis, comma 7 bis del DI. 333-1992, il quale prevedeva, per l’occupazione acquisitiva, un risarcimento pari all’indennità di esproprio, senza la riduzione del 40%, e con un aumento del 10%. Pure in tale ipotesi, per il tramite dell’art. 117 Cost., nella parte in cui prevede l’esigenza di rispetto degli obblighi internazionali, si è affermata l’incompatibilità della disciplina sopra citata con la disciplina dell’art 1 Protocollo CEDU, a proposito del diritto di proprietà.



[1] Cfr. MAZZAMUTO, Il contratto di diritto europeo, 2012, Giappichelli , passim

[2]Cfr.  L’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (post Lisbona), il quale prevede che : “L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

[3]  Art. 8 CEDU ARTICOLO 8

Diritto al rispetto della vita privata e familiare

1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.

2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla

pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

ARTICOLO 14

Divieto di discriminazione

Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza,  il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.

[4] Cfr. Vettori, “I princìpi comuni del diritto europeo dalla CEDU al Trattato di Lisbona”, passim, in  http://www.europeanrights.eu/public/commenti/VETTORI.pdf

[5] Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni.

Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.

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