Corte Costituzionale sentenza 12 dicembre 2012 n 280
Termine decadenziale dll’azione risarcitoria

La corte costituzionale
Presidente Quaranta – redattore Criscuolo

Sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo
30, comma 5, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104
(Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69,
recante delega al Governo per il riordino del processo
amministrativo), promosso dal Tribunale amministrativo
regionale per la Sicilia, nel procedimento vertente tra C.G. e il
Ministero della salute, con ordinanza del 7 settembre 2011,
iscritta al n. 269 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 54, prima serie speciale,
dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 20 novembre 2012 il
Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto in fatto
1.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di
Palermo (d’ora in avanti, TAR), con ordinanza depositata il 7
settembre 2011, ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 24,
103 e 113 della Costituzione – questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 30, comma 5, del decreto
legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della
legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al Governo per il
riordino del processo amministrativo).
2.— Il rimettente premette che, con ricorso per esecuzione di
giudicato notificato il 25 marzo 2011, depositato il successivo
31 marzo, il prof. C.G. ha chiesto l’esecuzione della sentenza
pronunciata dal medesimo TAR il 20 dicembre 2006, n. 4140,
confermata con decisione del Consiglio di giustizia
amministrativa per la Regione Siciliana del 15 dicembre 2008,
n. 1042.
Come il giudice a quo riferisce, il prof. C.G. ha esposto la
seguente vicenda:
egli, in data 5 aprile 2006, era stato designato componente
del collegio sindacale dell’Azienda Ospedaliera «Civico-

Fatebenefratelli-M.Ascoli-DiCristina», quale rappresentante del
Ministero della salute;
lo stesso Ministero, con nota del 29 maggio 2006, aveva
revocato la designazione; la revoca, impugnata dal designato, era stata annullata dalla
citata sentenza del TAR, n. 4140 del 2006, confermata dalla
detta pronuncia del Consiglio di giustizia amministrativa per la
Regione siciliana;
il prof. C.G. era stato insediato quale componente del
collegio sindacale soltanto in data 21 luglio 2007, ma non gli
erano stati corrisposti i compensi relativi alla menzionata
funzione, concernenti il periodo dal 16 ottobre 2006 (data
d’insediamento dell’organo) al 31 luglio 2007.
Su tali premesse il prof. C.G., con il ricorso indicato, ha chiesto
che, in esecuzione del giudicato formatosi sulle citate
sentenze di primo e di secondo grado, il Ministero fosse
condannato al pagamento: a) della somma di euro 11.641,05
(corrispondente ai compensi non riscossi), oltre interessi e
rivalutazione, ai sensi dell’art. 112, comma 3, del codice del
processo amministrativo; b) delle spese del giudizio di
annullamento della revoca, liquidati in complessivi euro
1.500,00, mai corrisposti dall’amministrazione (con interessi e
rivalutazione).
3.— Il giudice a quo continua ad esporre che, nel processo
così instaurato, il Ministero della salute si è costituito,
chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o
improcedibile sulla base delle seguenti argomentazioni: 1)
l’Amministrazione ha pienamente ottemperato alla sentenza
che ha annullato la revoca della designazione, provvedendo
ad immettere il ricorrente nelle relative funzioni; 2) per
conseguenza, non vi sarebbe materia per il giudizio di
ottemperanza, in quanto il ricorrente in realtà non lamenta la
mancata esecuzione del giudicato di annullamento, ma
domanda il risarcimento per equivalente monetario del
danno da illegittimo esercizio della funzione; 3) l’art. 112,
comma 3, cod. proc. amm.vo non sarebbe invocabile, in
quanto nella fattispecie non si discuterebbe di un danno da
mancata esecuzione o da violazione o elusione del giudicato
(dal momento che il ricorrente è stato reintegrato nella
funzione addirittura prima dell’intervenuta formazione del
giudicato di annullamento, conseguente alla sentenza di
secondo grado, e quindi già in sede di esecuzione della
sentenza di primo grado, gravata, ma non sospesa); 4) il
quarto comma del citato art. 112, in astratto invocabile,
sarebbe però in concreto rimedio non percorribile, stante la
proposizione della domanda ben al di là della scadenza del
termine decadenziale di 120 giorni dalla formazione del
giudicato di annullamento, stabilito dall’art. 30, comma 5, del codice del processo amministrativo, richiamato dal comma 4,
dell’art. 112.
4.— La causa è stata riservata per la decisione all’udienza
camerale del 5 luglio 2011.
5.— Tanto premesso, il TAR, «in punto di qualificazione della
domanda e di conseguente individuazione del suo regime»,
osserva «come la prospettazione posta a fondamento della
memoria dell’Amministrazione sia pienamente condivisibile».
Invero, se si eccettua «la parte (del tutto marginale) relativa al
mancato pagamento delle spese del processo di cognizione,
che inerisce ad un profilo di mancata esecuzione del
giudicato formatosi all’esito di tale giudizio, la domanda
proposta con il ricorso in esame non attiene propriamente né
alla esecuzione del giudicato di annullamento, né ad un
danno da mancata esecuzione del giudicato».
Ad avviso del giudice a quo, la statuizione caducatoria
contenuta nella sentenza resa all’esito del giudizio di primo
grado, confermata in appello, risulterebbe eseguita mediante
attuazione dell’effetto ripristinatorio. Infatti, l’attuale ricorrente
sarebbe stato reintegrato nella funzione nel corso del giudizio
di appello, sicché il detto giudicato di annullamento sarebbe
stato già eseguito in relazione a tutti i suoi effetti.
Pertanto, si sarebbe fuori dall’ambito applicativo dell’art. 112,
comma 3, cod. proc. amm.vo. In questi casi, l’effetto
conformativo del giudicato di annullamento, e quello
ripristinatorio, non si spingerebbero «al punto da imporre
all’amministrazione, oltre al reintegro, anche la corresponsione
degli emolumenti economici per la durata dell’efficacia del
provvedimento annullato (nel qual caso la pretesa sarebbe
azionabile in sede esecutiva entro il termine decennale
consentito dall’actio iudicati): tale adempimento attiene alla
refusione di danno da provvedimento illegittimo e non
costituisce effetto naturale del giudicato di annullamento
(anzi, è proprio la non riparabilità di tale pregiudizio mediante
la rimozione del provvedimento lesivo a rendere necessario il
ricorso alla tecnica di tutela complementare a quella
caducatoria, consistente nel ripristino per equivalente
monetario delle situazioni lese)».
Secondo il TAR, il ricorrente chiederebbe, in realtà, proprio il
risarcimento del danno patrimoniale subito per effetto
dell’emanazione di un provvedimento amministrativo (poi
dichiarato) illegittimo, per il periodo in cui detto
provvedimento ha avuto esecuzione. Tale fattispecie,
inerente ad un danno non risarcibile né risarcito (per ragioni
diacroniche) mediante la mera esecuzione del giudicato di annullamento, si inquadrerebbe perfettamente nell’ambito
precettivo dell’art. 112, comma 4, cod. proc. amm.vo, che
così dispone: «Nel processo di ottemperanza può essere altresì
proposta la connessa domanda risarcitoria di cui all’art. 30,
comma 5, nel termine ivi stabilito. In tal caso il giudizio di
ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del
processo ordinario».
In questo quadro, il rimettente osserva che andrebbe
disposta, in primo luogo, la conversione del rito, ai sensi
dell’ultimo periodo della norma ora trascritta. Tuttavia, la
praticabilità di tale soluzione (vale a dire, l’ammissibilità
dell’azione risarcitoria mediante conversione del rito) sarebbe
subordinata alla verifica del rispetto del termine decadenziale
stabilito dall’art. 30, comma 5, cod. proc. amm.vo, ai sensi del
quale «Nel caso in cui sia stata proposta azione di
annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata
nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni
dal passaggio in giudicato della relativa sentenza».
Nel caso in esame, il ricorso risulta notificato il 25 marzo 2011:
pertanto, il detto termine risulterebbe superato sia che si
assuma come dies a quo il passaggio in giudicato della
sentenza (coincidente con la pubblicazione della decisione in
grado di appello: 15 dicembre 2008), sia che si faccia
decorrere il medesimo termine dalla data di entrata in vigore
del processo amministrativo (16 settembre 2010).
Invece l’azione risarcitoria sarebbe tempestiva se, in assenza
del termine decadenziale posto dal citato art. 30, essa fosse
subordinata soltanto al rispetto del termine quinquennale di
prescrizione. Da ciò deriverebbe la rilevanza, ai fini del
decidere, della questione di legittimità costituzionale dell’art.
30, comma 5, cod. proc. amm.vo, non essendo neppure
condivisibile l’opzione ermeneutica orientata a sostenere che
il termine di decadenza previsto dalla disposizione censurata
trovi applicazione soltanto per i giudicati di annullamento
formatisi dopo l’entrata in vigore del codice del processo
amministrativo.
Al fine di mitigare il rigore delle conseguenze derivanti
dall’entrata in vigore (16 settembre 2010) del nuovo codice in
materia risarcitoria nelle fattispecie di illecito
provvedimentale, che si pongono a cavallo di tale data, si
potrebbe ritenere che il dies a quo sia spostato in avanti, cioè
al momento di detta entrata in vigore, sicché i centoventi
giorni andrebbero a scadere il 14 gennaio 2011. Tuttavia,
poiché nel caso in esame il ricorso è stato notificato il 25
marzo 2011, «neppure questa possibile opzione esegetica consente di eludere l’interrogativo di fondo connesso al
dubbio di legittimità costituzionale della disciplina del citato
termine decadenziale».
6.— La non manifesta infondatezza della questione
deriverebbe, ad avviso del giudice a quo, dalla irragionevole
compressione, ad opera della norma censurata, del diritto di
difesa in giudizio della parte che ha subito il danno, con
violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost.
Richiamato il disposto dell’art. 30, commi 3 e 5, cod. proc.
amm.vo (il comma 5 «oggetto specifico del dubbio di
legittimità costituzionale con riferimento alla fattispecie
dedotta nel presente giudizio»), il TAR si sofferma sulla ratio
posta alla base dei termini di decadenza previsti in materia di
annullamento di atti giuridici emanati da poteri pubblici e da
soggetti privati: «si tratta dell’esigenza di certezza del diritto e
di stabilità dei rapporti giuridici, connessa al rilievo che l’atto
pone un assetto di interessi rilevante sul piano
superindividuale». Il bilanciamento tra il diritto degli interessati
ad un sollecito sindacato giurisdizionale sull’atto e l’interesse a
definire in modo del pari sollecito la relativa vicenda
consentirebbe d’individuare nella previsione di un termine
d’impugnazione a pena di decadenza un soddisfacente
punto di equilibrio del sistema, «purché il relativo termine sia
ragionevole e non renda eccessivamente difficile l’esercizio
del diritto».
L’azione risarcitoria, già sul piano strutturale, si porrebbe al di
fuori di questa problematica: l’esposizione del debitore,
pubblico o privato, alla domanda di risarcimento non
inciderebbe sulla dinamica dei rapporti giuridici di cui lo stesso
soggetto è titolare, né sulla certezza delle situazioni e posizioni
giuridiche correlate, rilevando soltanto sul piano della
reintegrazione patrimoniale dello spostamento di ricchezza
conseguente all’illecito.
Se la discrezionalità legislativa avesse inteso porre un limite
temporale all’esercizio dell’azione risarcitoria, compatibile con
la natura del rimedio, avrebbe potuto ragionevolmente farlo
attraverso l’individuazione di un congruo termine
prescrizionale (in tesi diverso da quello stabilito dal diritto
comune, ove sussista una congrua e ragionevole
giustificazione per tale diversità).
Infatti, un ininterrotto e coerente orientamento già sul piano
istituzionale chiarirebbe che «mentre la prescrizione ha per
oggetto un rapporto (azione o diritto sostanziale) che per
effetto di essa si estingue, la decadenza ha per oggetto un
atto che per effetto di essa non può più essere compiuto». La disciplina dell’azione di risarcimento del danno, dunque,
sarebbe «ragionevolmente compatibile con la prima e non
con la seconda»
Inoltre, ancor più rilevante sarebbe il rilievo che, sul piano
della teoria generale del diritto, «la differenza strutturale ed
effettuale fra prescrizione e decadenza denota una precisa –

e diversa – connotazione funzionale dei due istituti, così da
non consentirne (se non violando il canone di ragionevolezza)
un’applicazione indifferenziata».
Il rimettente richiama il principio secondo cui, «mentre la
prescrizione è in qualche modo legata all’inerzia del titolare
del diritto, la decadenza esprimerebbe “un’esigenza di
certezza del diritto così categorica da essere tutelata
indipendentemente dalla possibilità di agire del soggetto
interessato”».
Tuttavia, in materia di risarcimento del danno una simile
esigenza di certezza non sembrerebbe affatto sussistente,
tanto più in ipotesi, come quella in esame, di azione
risarcitoria non autonoma, ma conseguente alla proposizione
dell’azione di annullamento del provvedimento lesivo.
Uno schema logico di utile riferimento si troverebbe nella
disciplina posta dall’art. 1495 del codice civile, in materia di
risarcimento dei danni per vizi della cosa venduta: là dove la
denunzia del vizio deve avvenire entro un brevissimo termine
di decadenza (correlato all’esigenza di certezza dei traffici),
mentre la successiva azione risarcitoria, subordinata alla
tempestiva (e pregiudiziale) denunzia, ma di per sé ormai
estranea all’esigenza posta alla base del termine
decadenziale, soggiace coerentemente ad un termine di
prescrizione annuale.
La situazione sarebbe «strutturalmente identica a quella
dell’illecito da atto della pubblica amministrazione, nell’ipotesi
– qui ricorrente – in cui l’azione risarcitoria sia preceduta dalla
pregiudiziale impugnazione della statuizione lesiva: con la
significativa differenza, tuttavia, che il termine decadenziale
per impugnazione del provvedimento è giustificato dalla
funzione cui lo stesso provvedimento assolve, mentre,
diversamente dalla sistematica del codice civile, la successiva
azione risarcitoria è nel codice del processo amministrativo
anch’essa soggetta ad un termine decadenziale, peraltro
infrannuale (con significativa compressione del diritto di difesa
del danneggiato, in assenza di un reale e giustificato interesse
antagonista)».
Nel caso di azione risarcitoria autonomamente proposta (art.
30, comma 1, cod. proc. amm.vo) l’accertamento, sia pure incidentale e, quindi, senza effetti sostanziali sul rapporto,
dell’illegittimità del provvedimento lesivo potrebbe, in tesi,
giustificare la previsione di tale termine, mentre la definitiva
certezza giuridica prodotta sul rapporto dal giudicato
priverebbe di qualsiasi giustificazione razionale la previsione di
un brevissimo termine di decadenza per la proposizione
dell’azione risarcitoria.
Dopo aver riassunto i contributi critici mossi dalla dottrina alla
soluzione dettata dalla norma oggetto di censura, il
rimettente osserva che, a parte ogni considerazione «sulla
effettiva eziologia storico-giuridica del regime censurato»,
esso sarebbe compressivo, in modo irragionevole e
ingiustificato, del diritto del danneggiato a richiedere il
risarcimento del danno.
Il profilo di irragionevolezza, che vizierebbe la disposizione in
esame, sarebbe attinente, quindi, sia alla previsione di un
termine stabilito a pena di decadenza, al di fuori dei
presupposti legittimanti una così incisiva compressione
dell’esercizio del diritto, sia nella concreta fissazione di tale
termine in centoventi giorni.
Inoltre, mancherebbe un tertium comparationis, idoneo a
giustificare l’introduzione di una simile disciplina.
La relazione al codice del processo amministrativo afferma
che il detto termine si giustificherebbe «sul presupposto che la
previsione di termini decadenziali non è estranea alla tutela
risarcitoria, vieppiù a fronte di evidenti esigenze di
stabilizzazione delle vicende che coinvolgono la pubblica
amministrazione». Tuttavia, quanto alla prima parte
dell’affermazione, non sarebbe dato trovare riscontri alla
stessa, se non in riferimento al diverso profilo dell’esistenza,
nell’ambito della complessa disciplina dei rimedi contro
l’illecito, di termini decadenziali relativi ad attività
propedeutiche alla proposizione dell’azione di danno, ma da
questa distinte sul piano strutturale e funzionale (ciò che, nel
processo amministrativo, sarebbe garantito dal termine per la
sollecita impugnazione del provvedimento lesivo, e,
nell’esempio tratto dal diritto civile relativo alla garanzia per
vizi della cosa venduta, dalla tempestiva denuncia della
scoperta del vizio).
Quanto alla seconda parte dell’affermazione stessa, se le
dette esigenze di stabilizzazione delle vicende coinvolgenti la
pubblica amministrazione possono avere qualche rilievo oltre
la prospettiva meramente caducatoria (il che sarebbe
tradizionalmente escluso), ciò, al più, sarebbe riscontrabile
nell’ipotesi di proposizione dell’azione risarcitoria in via autonoma, con contestuale sindacato incidentale circa la
legittimità del provvedimento lesivo, ma non nell’ipotesi (qui
ricorrente) in cui detto sindacato sia stato già compiuto con
efficacia di giudicato.
7.— La violazione degli artt. 24, 103 e 113 Cost. sarebbe
configurabile anche per altra via.
Dopo la sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale,
sarebbe opinione comune che il rimedio risarcitorio sia
inscindibilmente legato a quello caducatorio: la tutela
costituzionale dell’interesse legittimo sarebbe soddisfatta
soltanto se il titolare possa chiedere, oltre all’annullamento del
provvedimento lesivo, il risarcimento per equivalente del
danno.
L’azione di danno, dunque, sarebbe costituzionalmente
necessaria, come potrebbe desumersi anche dalla sentenza
di questa Corte n. 191 del 2006. Tuttavia, la concentrazione
dei rimedi in capo al giudice amministrativo, funzionale alla
contrazione dei tempi processuali, non potrebbe avvenire in
condizioni di accesso alla tutela assolutamente (e senza
ragione) restrittiva, perché in tal guisa risulterebbe
contraddetta la stessa previsione dello strumento risarcitorio
accanto a quello caducatorio, nel sistema di tutela
dell’interesse legittimo. In altre parole, sarebbe contraddetta
l’esigenza di pienezza ed effettività della tutela.
invero, la richiamata giurisprudenza costituzionale è
intervenuta in presenza di una disciplina dell’accesso al
rimedio risarcitorio nei confronti della pubblica
amministrazione regolata dal diritto comune: dal che
discenderebbe il quesito circa la perdurante attualità di
quelle considerazioni «in punto di conformità allo standard di
tutela posto dall’art. 24 della Costituzione, alla luce della
disciplina introdotta dal codice del processo amministrativo, e
in particolare della disposizione censurata».
In questo quadro, sarebbe estranea alla prospettazione del
vizio di legittimità costituzionale la qualificazione, in termini di
diritto soggettivo o di interesse legittimo, della situazione
giuridica soggettiva del danneggiato, che domanda il
risarcimento dei danno da illegittimo esercizio della funzione
amministrativa.
8.— Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel
giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 17
gennaio 2012, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile o, in subordine, manifestamente infondata. Sotto un primo profilo, la difesa dello Stato adduce
l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza. A suo
avviso il rimettente avrebbe violato il principio processuale
della corrispondenza tra chiesto e pronunciato perché, al fine
di ritenere la rilevanza della questione di legittimità
costituzionale nei confronti di norma mai invocata dalla parte
ricorrente, avrebbe dichiarato di dover procedere a nuova
qualificazione della domanda da quest’ultima parte azionata,
incorrendo però in un evidente vizio di ultrapetizione, e
spingendosi a modificare il petitum, così ipotizzando una «lite
finta», ovvero una lite diversa da quella prospettata.
In particolare, andrebbe posto in evidenza che, per poter
denunciare la norma ritenuta non conforme a Costituzione, il
TAR per la Sicilia, pur dando atto sia della non fondatezza
della domanda volta all’esecuzione del giudicato, sia
dell’inapplicabilità dell’art. 112, comma 3, cod. proc. amm.vo
(invocato dal ricorrente per richiedere il risarcimento dei
danni), aveva affermato, con improprio esercizio del potere di
qualificazione, che la fattispecie al suo esame si inquadrava
perfettamente nell’ambito precettivo dell’art. 112, comma 4,
cod. proc. amm.vo.
Sulla base di tale norma avrebbe dovuto far luogo alla
conversione del rito, cui però era di ostacolo il disposto
dell’art. 30, comma 5, cod. proc. amm.vo, il quale stabilisce il
termine di decadenza di centoventi giorni dal passaggio in
giudicato della sentenza di annullamento per dare ingresso
alla domanda risarcitoria, termine nella specie decorso. Così il
Tribunale amministrativo era pervenuto a sostenere la
rilevanza della questione di legittimità costituzionale, relativa
al citato art. 30, comma 5, del d.lgs. n. 104 del 2010.
Dopo avere ricostruito la fattispecie all’esame del collegio,
l’Avvocatura generale dello Stato rimarca che la domanda
formulata dal ricorrente davanti al TAR era diretta ad
ottenere, ai sensi dell’art. 112, comma 3, del codice, la
condanna del Ministero della salute al pagamento di una
somma di denaro, a titolo di risarcimento del danno
imputabile «al ritardo nella esecuzione o/e violazione o/e
inosservanza» del giudicato formatosi sulla sentenza n. 4140
del 2006, emessa dal Tribunale amministrativo di Palermo.
Tale vizio, ad avviso dell’interveniente, si tradurrebbe in
evidente irrilevanza della questione posta in sede di giudizio di
legittimità costituzionale, in quanto la norma denunciata non
sarebbe applicabile, perché estranea al petitum azionato dal
ricorrente medesimo. Sotto altro profilo, la censura del giudice a quo si rivelerebbe
inammissibile, perché il rimettente non potrebbe affidare a
questa Corte l’individuazione in concreto di un diverso
termine per l’esercizio di un diritto o un’azione, senza indicarlo.
Infatti, così facendo, solleciterebbe l’esercizio di un potere
discrezionale riservato al legislatore.
Infine, omettendo di formulare un petitum specifico, si
lascerebbe indeterminato il possibile intervento della Corte:
«In tali circostanze l’eventuale accoglimento della questione
sfocerebbe in una pronuncia additiva a contenuto non
costituzionalmente obbligato, la quale presupporrebbe
l’esercizio di valutazioni discrezionali, che esulano dalle
funzioni del Giudice delle leggi» (è richiamata l’ordinanza n.
233 del 2007).
Nel merito, la difesa dello Stato, dopo aver descritto il quadro
normativo di riferimento, ritiene che la questione sarebbe
manifestamente infondata, in quanto il termine di decadenza
previsto per l’esercizio dell’azione risarcitoria (sia autonoma,
sia conseguente alla pronuncia di annullamento) sarebbe del
tutto congruo.
In primo luogo, la previsione di tale termine non sarebbe una
novità nell’ambito della giustizia amministrativa. Infatti, si
tratterebbe del doppio di quello previsto per il ricorso
giurisdizionale amministrativo; inoltre, esso sarebbe analogo a
quello stabilito per il ricorso straordinario al Capo dello Stato.
Ad avviso della difesa dello Stato, la ratio sottesa all’opzione
legislativa si fonderebbe su un comprensibile compromesso
tra superamento della cosiddetta pregiudiziale amministrativa
e necessità della finanza pubblica. Tale intenzione del
legislatore emergerebbe con evidenza dall’esame delle linee
guida indicate nella relazione di accompagnamento della
bozza di decreto legislativo inviata alle Commissioni
parlamentari, la quale, ricostruendo i tratti essenziali di tale
scelta, afferma tra l’altro che la previsione di termini di
decadenza non è estranea alla tutela risarcitoria, ancor di più
a fronte di evidenti esigenze di stabilizzazione delle vicende
coinvolgenti la pubblica amministrazione.
Infine, la difesa dello Stato richiama l’insegnamento del
giudice comunitario, che ha ritenuto ammissibile l’azione
risarcitoria in via autonoma, però ridimensionandone la
portata in concreto con l’imposizione al giudice di vagliare
nel merito l’incidenza che una corretta e tempestiva iniziativa
rimediale avrebbe potuto sortire sotto il profilo della riduzione
del pregiudizio (Corte di giustizia dell’Unione europea,
sentenza del 14 febbraio 1989, in causa C-346/87). Pertanto, in ambito europeo sarebbe fortemente avvertita
l’esigenza di evitare che la validità degli atti amministrativi
comunitari e la certezza dei sottostanti assetti d’interessi
possano essere messe in discussione al di fuori di un termine di
decadenza.
Anche la Corte di cassazione, sezioni unite civili, con sentenza
del 28 dicembre 2008, n. 30254, ha affermato che è nella
disponibilità del legislatore disciplinare la tutela delle situazioni
giuridiche soggettive, assoggettando a termini di decadenza
l’esercizio dell’azione, come accade in materia societaria per
il risarcimento del danno derivante da una delibera
assembleare che il socio non è legittimato ad impugnare.
Peraltro, sarebbe consolidato l’orientamento di questa Corte,
secondo cui l’art. 24 Cost. non esige che la tutela dei diritti e
interessi sia regolata dal legislatore ordinario con uniformità di
requisiti ed effetti, né vieta che l’esercizio di tale tutela sia
sottoposto a termini di decadenza o di prescrizione, nei limiti in
cui tale regolamentazione non risulti manifestamente
irragionevole o non imponga oneri tali da compromettere in
modo irreparabile la tutela stessa (sono richiamate le sentenze
n. 210 del 1998, n. 461 del 1997, n. 406 del 1993 e n. 77 del
1974). Inoltre, l’interveniente osserva che il termine di quattro
mesi non appare tale da rendere oltremodo difficoltosa la
tutela giurisdizionale.

Considerato in diritto
1.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia (d’ora in
avanti, TAR), sede di Palermo, con l’ordinanza indicata in
epigrafe, dubita – in riferimento agli articoli 3, 24, 103 e 113
della Costituzione – della legittimità costituzionale dell’articolo
30, comma 5, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104
(Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69,
recante delega al Governo per il riordino del processo
amministrativo).
Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe i
parametri costituzionali sopra indicati, in quanto:
a) posto che alla base dei termini di decadenza, previsti in
materia di annullamento di atti giuridici emanati da poteri
pubblici e da soggetti privati, vi è l’esigenza di certezza del
diritto e di stabilità dei rapporti giuridici (connessa al rilievo
che l’atto esprime un assetto d’interessi rilevante sul piano
superindividuale), non sarebbe ragionevole prevedere un
termine a pena di decadenza, anziché un congruo termine di
prescrizione – anche diverso da quello stabilito dal diritto
comune (ove sussista una ragionevole giustificazione per la differenziazione) – per l’esercizio dell’azione risarcitoria. Ciò
perché l’esposizione del debitore alla domanda di
risarcimento non inciderebbe sui rapporti giuridici di cui lo
stesso soggetto è titolare, né sulla certezza delle situazioni e
posizioni giuridiche correlate, rilevando soltanto sul piano della
reintegrazione patrimoniale conseguente all’illecito;
b) l’ipotesi in esame, in cui l’azione risarcitoria è preceduta
dalla pregiudiziale impugnazione del provvedimento lesivo,
configurerebbe una situazione «strutturalmente identica» a
quella di cui all’art. 1495 del codice civile (in tale fattispecie la
denunzia del vizio deve avvenire entro un brevissimo termine
di decadenza, correlato all’esigenza di certezza dei traffici
giuridici, mentre la successiva azione risarcitoria, subordinata
alla tempestiva e pregiudiziale denuncia, soggiace al termine
di prescrizione di un anno), ma, diversamente da quanto
previsto in tale caso, troverebbe nella previsione del termine
decadenziale per l’esercizio dell’azione risarcitoria una
ingiustificata compressione del diritto di difesa del
danneggiato;
c) mentre nell’ipotesi di azione risarcitoria proposta
autonomamente, ai sensi dell’art. 30, comma 1, cod. proc.
amm.vo, l’accertamento – meramente incidentale e,
pertanto, senza effetti sostanziali sul rapporto – della
illegittimità del provvedimento lesivo potrebbe giustificare la
previsione di tale termine, la definitiva certezza giuridica
prodotta sul rapporto stesso dal passaggio in giudicato della
sentenza, che annulla il provvedimento, priverebbe di
giustificazione razionale la previsione di un brevissimo termine
di decadenza per la proposizione dell’azione risarcitoria,
incidente unicamente sul profilo della regolazione
patrimoniale delle conseguenze dell’illecito;
d) la norma impugnata sarebbe irragionevole sia perché
prevede un termine di decadenza, sia perché fissa tale
termine in 120 giorni;
e) non esistendo un tertium comparationis idoneo a
giustificare l’introduzione di una simile disciplina, la
disposizione de qua presenterebbe un ulteriore profilo di
irragionevolezza;
f) la previsione del termine decadenziale per l’esercizio
dell’azione risarcitoria presupporrebbe un’esigenza di
certezza tale da implicare una compressione significativa del
diritto del danneggiato di azionare il rimedio, compressione
non giustificabile «tanto più nell’ipotesi di azione risarcitoria
non autonoma ma conseguente alla proposizione dell’azione
di annullamento del provvedimento lesivo»; g) l’introduzione del termine di decadenza, in deroga al diritto
comune, comprimerebbe significativamente le condizioni di
accesso alla tutela risarcitoria e si porrebbe in contraddizione
con la finalità stessa della previsione dello strumento
risarcitorio accanto a quello caducatorio nel sistema di tutela
dell’interesse legittimo, non realizzando l’esigenza di pienezza
e di effettività della tutela stessa, principi affermati dalla Corte
costituzionale con le sentenze n. 191 del 2006 e n. 204 del
2004, in presenza di una disciplina dell’accesso al rimedio
risarcitorio nei confronti della pubblica amministrazione
regolata dal diritto comune;
h) qualunque sia la situazione soggettiva (diritto soggettivo o
interesse legittimo) posta a fondamento della domanda di
risarcimento del danno da illegittimo esercizio dell’azione
amministrativa, la previsione del termine di decadenza non
sarebbe ragionevole: in caso di diritto soggettivo, non
troverebbe ragionevole giustificazione una disciplina diversa
da quella stabilita, per ogni diritto, dalla clausola generale di
responsabilità civile (la pubblica amministrazione sarebbe un
debitore la cui posizione in nulla si differenzia da quella
dell’obbligato ex delicto); in caso d’interesse legittimo, la
natura complementare dei rimedi, evocata dalla
giurisprudenza costituzionale, «ha un senso se si mantiene la
diversità strutturale degli stessi e delle corrispondenti tecniche
di tutela: se invece si assimila, quanto alle condizioni di
accesso, quello risarcitorio a quello caducatorio, la
complementarietà si riduce ad una astratta petizione di
principio, risolvendosi, in concreto, la tutela dell’interesse
legittimo nella sola possibilità di contestare entro un breve
termine di decadenza la legittimità del provvedimento (a fini
caducatori, ovvero a fini risarcitori)».
2.— La questione è inammissibile.
2.1.— Si deve premettere che, in linea di principio, il giudizio
sulla rilevanza di una questione di legittimità costituzionale
spetta al giudice a quo. Questa Corte deve soltanto svolgere
un controllo di plausibilità in ordine al percorso argomentativo
e alla valutazione già compiuti dal detto giudice; e, nel caso
di specie, la conclusione cui il rimettente è pervenuto sul
punto si rivela non plausibile.
Per dare conto di tale affermazione è necessario ripercorrere i
momenti salienti della vicenda, nel cui ambito la questione è
stata sollevata, sulla base delle risultanze dell’ordinanza di
rimessione.
Con ricorso per esecuzione di giudicato, diretto al TAR per la
Sicilia e notificato il 25 marzo 2011, la parte ricorrente ha chiesto che fosse eseguita la sentenza pronunciata dal
medesimo TAR del 20 dicembre 2006, n. 4140, confermata
con decisione del Consiglio di giustizia amministrativa per la
Regione siciliana del 15 dicembre 2008, n. 1042.
A sostegno della domanda il ricorrente ha esposto quanto
segue: il 5 aprile 2006 era stato designato componente del
collegio sindacale di un’azienda ospedaliera come
rappresentante del Ministero della salute; quest’ultimo, con
nota del 29 maggio 2006, aveva revocato la designazione;
l’atto di revoca, impugnato dall’interessato, era stato
annullato con la citata sentenza del TAR adito n. 4140 del
2006, confermata in sede di appello;
il ricorrente era stato insediato come componente del
collegio sindacale in data 21 luglio 2007.
Con il ricorso introduttivo del giudizio di ottemperanza la parte
privata ha lamentato di non aver riscosso i compensi relativi
alla funzione di componente del collegio sindacale dal 16
ottobre 2006 (data d’insediamento dell’organo) al 31 luglio
2007.
Pertanto, ha chiesto che, in esecuzione del giudicato
formatosi sulle richiamate sentenze di primo e di secondo
grado, il Ministero della salute sia condannato al pagamento:
a) della somma di euro 11.641,05 (corrispondenti agli
emolumenti non riscossi), oltre interessi e rivalutazione, ai sensi
dell’art. 112, comma 3, cod. proc. amm.vo; b) delle spese del
giudizio di annullamento, liquidate in complessivi euro
1.500,00.
Nel giudizio così promosso si è costituito il Ministero della
salute, rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale
dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato
inammissibile o improcedibile sulla base dei seguenti
argomenti (come riassunti dal rimettente): l’amministrazione
ha pienamente ottemperato alla sentenza che ha annullato
la revoca della designazione, provvedendo ad immettere
l’interessato nella funzione; pertanto, non vi era materia di
giudizio di ottemperanza, perché il ricorrente in realtà non
lamentava la mancata esecuzione del giudicato di
annullamento ma il risarcimento per equivalente del danno;
l’art. 112, comma 3, cod. proc. amm.vo non sarebbe
invocabile in quanto non si discute di un danno da mancata
esecuzione o da violazione o elusione del giudicato («dal
momento che l’odierno ricorrente è stato integrato nella
funzione addirittura prima dell’intervenuta formazione del
giudicato di annullamento, conseguente alla sentenza di
secondo grado, e quindi già in sede di esecuzione della sentenza di primo grado gravata ma non sospesa»); l’art. 112,
comma 4, cod. proc. amm.vo, «in astratto invocabile», è però
in concreto rimedio non percorribile, attesa l’avvenuta
proposizione della domanda ben al di là del termine
decadenziale di centoventi giorni dall’avvenuta formazione
del giudicato di annullamento, stabilito dall’art. 30, comma 5,
cod. proc. amm.vo, richiamato dall’art. 112, comma 4, sopra
citato.
In questo quadro, il rimettente osserva, «in punto di
qualificazione della domanda e di conseguente
individuazione del suo regime», come «la prospettazione
posta a fondamento della memoria dell’Amministrazione sia
pienamente condivisibile».
A suo avviso, la domanda proposta con il ricorso in esame
non sarebbe attinente propriamente (se non per la parte, del
tutto marginale, relativa al mancato pagamento delle spese
processuali) né alla esecuzione del giudicato di
annullamento, né ad un danno da mancata esecuzione di
giudicato. Infatti, la statuizione caducatoria risulterebbe
eseguita mediante attuazione dell’effetto ripristinatorio,
poiché l’interessato è stato reintegrato nella funzione nel
corso del giudizio di appello. Si sarebbe fuori, dunque,
dall’ambito applicativo dell’art. 112, cod. proc. amm.vo,
mentre «l’effetto conformativo del giudicato di annullamento,
e quello ripristinatorio, non si spingono in questi casi, al punto
da imporre all’amministrazione, oltre al reintegro, anche la
corresponsione degli emolumenti economici per la durata
dell’efficacia del provvedimento annullato», in quanto «tale
adempimento attiene alla refusione di danno da
provvedimento illegittimo e non costituisce effetto naturale
del giudicato di annullamento».
Invece, la fattispecie in esame, inerente «ad un’area di danno
non risarcita né risarcibile – per ragioni diacroniche –
mediante la mera esecuzione del giudicato di annullamento
del provvedimento lesivo, si inquadra perfettamente
nell’ambito precettivo dell’art. 112, comma 4, cod. proc.
amm., che recita “Nel processo di ottemperanza può essere
altresì proposta la connessa domanda risarcitoria di cui
all’articolo 30, comma 5, nel termine stabilito. In tal caso il
giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei
termini del processo ordinario”».
A questo punto il rimettente incontra sul suo percorso
argomentativo il detto termine di decadenza, in relazione al
quale giudica rilevante la questione di legittimità
costituzionale che solleva. Al riguardo si deve porre in luce che la difesa dello Stato,
nell’addurre l’inammissibilità per irrilevanza della questione,
afferma che il rimettente avrebbe errato nella lettura delle
eccezioni di parte pubblica, e per dimostrarlo allega all’atto
d’intervento copia del ricorso per ottemperanza e della
memoria depositata dall’Amministrazione nel giudizio a quo.
In realtà, l’affermazione, secondo cui il Ministero avrebbe
asserito che il ricorrente non lamentava la mancata
esecuzione del giudicato di annullamento, ma domandava il
risarcimento per equivalente monetario da illegittimo esercizio
della funzione, non è esatta; e neppure è esatto che esso
abbia ritenuto l’art. 112, comma 4, cod. proc. amm.vo, «in
astratto invocabile», rimedio in concreto non percorribile per
l’avvenuto decorso del termine di decadenza stabilito
dall’art. 30, comma 5, cod. proc. amm.vo.
In effetti, come si evince dalla memoria allegata in copia, il
resistente nel giudizio di primo grado, dopo aver rilevato che
la parte privata, con il ricorso, «chiede che sia data piena
esecuzione al giudicato formatosi sulla sentenza n. 4140/06
del TAR Sicilia, con condanna del Ministero, (esclusivamente)
ai sensi dell’art. 112, comma 3, codice del processo
amministrativo», al pagamento delle somme di cui sopra, ha
negato l’applicabilità della norma ora citata, non essendo in
alcun modo configurabile una mancata esecuzione,
violazione o elusione del giudicato, stante l’avvenuta
reintegrazione della parte privata in seno al collegio sindacale
dell’azienda ospedaliera prima ancora della formazione del
giudicato stesso, su tale base eccependo l’inammissibilità del
ricorso. Il medesimo resistente, poi, ha aggiunto che tale atto
non «potrebbe trovare fondamento sul successivo IV comma
dell’art. 112 cit., che richiama il V comma del precedente art.
30», perché, «a parte il fatto che tale domanda è
esplicitamente esclusa nello stesso ricorso», essa sarebbe
comunque preclusa.
È palese, dunque, che il Ministero non ha inteso certo
introdurre o allegare nel processo una realtà fattuale diversa
da quella addotta dal ricorrente.
2.2.— Tanto chiarito, come risulta dalla sequenza dei fatti
sopra riassunta la parte privata nel processo a quo ha
promosso un giudizio di ottemperanza, chiedendo che il TAR
adito ordini al Ministero della salute «il compimento di atti
necessari a dare piena esecuzione al giudicato formatosi sulla
sentenza n. 4140 del 2006 del 05.12.2006 emesso dal Tribunale
Amministrativo Regionale per la Sicilia di Palermo», nonché
condanni «ex art. 112, comma 3 il Ministero della salute al pagamento della somma di euro 11.641,05, oltre interessi e
rivalutazione, o della somma maggiore o minore che sarà
stabilita dal collegio, a titolo di risarcimento del danno
imputabile al ritardo nella esecuzione o/e violazione o/e
inosservanza dello stesso».
Tale domanda è radicata dal ricorrente nell’art. 112, comma
3, cod. proc. amm.vo, alla stregua del quale nel giudizio di
ottemperanza «può essere proposta anche azione di
condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e
interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della
sentenza, nonché azione di risarcimento dei danni derivanti
dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del
giudicato» (testo vigente alla data dell’ordinanza di
rimessione, poi sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera cc, n. 1,
del decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 195, «Disposizioni
correttive ed integrative al decreto legislativo 2 luglio 2010, n.
104, recante codice del processo amministrativo a norma
dell’art. 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69»).
Nella prospettiva del ricorrente, dunque, il titolo giuridico della
pretesa risarcitoria da lui azionata era da ravvisare nella
ritardata esecuzione del giudicato, sul presupposto – implicito
ma necessario – che nella menzionata sentenza del TAR fosse
compresa anche la condanna al pagamento della somma a
quel titolo richiesta.
Il giudice a quo non ha condiviso tale prospettiva.
Ha ritenuto che la domanda proposta col ricorso in esame
non fosse attinente né alla esecuzione del giudicato di
annullamento né ad un danno da mancata esecuzione di
giudicato. Ha escluso che nel giudicato di annullamento
formatosi sulla citata sentenza del TAR (e già eseguito
dall’Amministrazione) fosse compresa «anche la
corresponsione degli emolumenti economici per la durata
dell’efficacia del provvedimento annullato», rimarcando che
«tale adempimento attiene alla refusione di danno da
provvedimento illegittimo e non costituisce effetto naturale
del giudicato di annullamento», ed ha ritenuto che la
fattispecie «si inquadra perfettamente nell’ambito precettivo
dell’art. 112, comma 4, cod. proc. amm.» (norma oggi
abrogata dall’art. 1, comma 1, lettera cc, n.2, del d.lgs. n. 195
del 2011, ma vigente all’epoca dell’ordinanza di rimessione).
Tuttavia, così operando, il TAR ha trascurato di considerare
che non si limitava ad una semplice qualificazione giuridica
della domanda, rientrante senz’altro nei poteri del giudice
prescindendo dalle indicazioni di parte o dalla loro assenza,
ma dava luogo ad una modifica sostanziale della causa petendi azionata dalla parte privata, così incorrendo nel vizio
di extrapetizione e sostituendo la domanda proposta con una
diversa, in violazione dell’art. 112 del codice di procedura
civile, pacificamente applicabile anche al processo
amministrativo e comunque oggetto del rinvio di cui all’art. 39
del relativo codice (Nella giurisprudenza è, infatti, costante
l’affermazione del principio di diritto secondo cui il giudice ha
il potere-dovere di qualificare giuridicamente l’azione e di
attribuire al rapporto dedotto in giudizio un nomen juris diverso
da quello indicato dalle parti, purché non sostituisca la
domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti
costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta né
allegata in giudizio dalle parti, (ex plurimis: Corte di
cassazione, sezione terza, sentenza 3 agosto 2012, n. 13945;
sezione seconda, sentenza 17 luglio 2007, n. 15925; sezione
prima, sentenza 12 aprile 2006, n. 8519 e sezione quinta,
sentenza 1° settembre 2004, n. 17610; Consiglio di stato,
sezione quinta, sentenza 27 dicembre 2011, n. 3191; sezione
quinta, sentenza 17 febbraio 2010, n. 910; sezione quinta,
sentenza 2 novembre 2009, n. 6713).
Sulla base dei rilievi che precedono, la valutazione di rilevanza
effettuata dal giudice a quo non appare plausibile, perché
egli ha denunciato una norma – l’art. 30, comma 5, del d.lgs.
n. 104 del 2010 – della quale non doveva fare applicazione, in
quanto estranea al tema sottoposto al suo esame.
Ne deriva l’inammissibilità della questione.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 30, comma 5, del decreto legislativo 2 luglio 2010,
n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009,
n. 69, recante delega al Governo per il riordino del processo
amministrativo), sollevata – in riferimento agli articoli 3, 24, 103
e 113 della Costituzione – dal Tribunale amministrativo
regionale per la Sicilia, sede di Palermo, con l’ordinanza
indicata in epigrafe.

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