Femminicidio e stalking

Dott. Marino D’Amore

Università L.U.de.S., Lugano (Svizzera)

Femminicidio e stalking rappresentano due  componenti  consequenziali e drammaticamente complementari di una realtà fatta di violenza fisica e psicologica, vessazione e annientamento della vittima, violenza che si rivolge alle donne, le ghettizza, imprigionandole in una gabbia sociale che le isola dalle loro reti relazionali, per poi ucciderle.

Lo stalking è un crimine quasi invisibile, subdolo, infame perché si nutre dell’omertà e della paura delle sue vittime, per la maggior parte donne appunto. Il temine stalking deriva dal verbo inglese to stalk (fare la posta, cacciare in appostamento) mutuato dall’attività venatoria e indica un insieme di comportamenti, reiterati ed intrusivi, di sorveglianza, di controllo, di ricerca e contatto nei confronti di una “vittima” che risulta continuamente infastidita, preoccupata e vessata da tali attenzioni, decisamente pressanti e perciò non gradite. Le dinamiche che caratterizzano lo stalking solitamente vengono messe in atto da un ex partner, un ex coniuge o da un amante respinto, i quali, con condotte minacciose e conseguenti molestie, tentano una riconquista, secondo modalità morbose e irrazionali. Tali condotte si sostanziano in atteggiamenti compulsivi e persecutori come inviare quotidianamente decine di sms, e-mail, fare molte telefonate con una cadenza tempistica molto precisa, attuare pedinamenti e intrusioni di varia natura nella vita privata, fino a sfociare nell’espressione più drammatica di tali comportamenti, nella loro più feroce esasperazione: l’uccisione della persona perseguitata: il femminicidio. Il fenomeno è diventato materia di studio negli Usa sin dagli anni ’80, quando si verificarono casi di persecuzione di star da parte di ammiratori ossessivi. In California la prima legge anti-stalking è nata nel 1991, mentre in Italia la prima legge che affrontasse il problema è stata concepita nel 2009.

I nuovi mezzi di comunicazione come i cellulari o i social network[1], soprattutto Facebook, hanno offerto nuove, concrete possibilità di azione agli stalker e dato luogo a una conseguente recrudescenza di questo tipo di reato che si è arricchito così di altre fattispecie che vanno dalla mera incompetenza sociale, caratteristica del soggetto che ignora la gravità dei suoi comportamenti prevaricatori, sino  al sadic stalking ossia il comportamento messo in atto da quelle persone, solitamente con disagio mentale, che pedinano, assillano molestano la vittima per poi ucciderla. Comunemente si ritiene che lo stalker sia una persona che possiede tratti narcisistici ed ossessivi per cui sviluppa un senso di possesso sulla vittima che diventa nel tempo la sua ossessione. Egli non percepisce la gravità dei suoi gesti, si sente in diritto e ritiene opportuno comportarsi così.

A volte si tratta di persone apparentemente normali, che conducono una vita come tante altre e che, a causa di determinate esperienze, si ritrovano a comportarsi in modi che, probabilmente, non avrebbero neppure immaginato. Altre volte si tratta di individui che hanno sempre avuto qualche disagio, e che per varie evenienze circostanziali focalizzano la loro attenzione psicotica su una o più persone.

La reale portata di questa tipologia di reato nel tessuto sociale è emersa solo dopo l’entrata in vigore della legge che lo punisce (in modo particolare se ne occupa L’art. 612 bis del C.P., introdotto con il decreto legge n°11 del 23 febbraio 2009 convertito in Legge n°38 del 23 aprile 2009), abbattendo quel muro di omertà e paura e facendo emergere centinaia di richieste di aiuto. Ora possiamo affermare con fiducia che tutte quelle vittime prima imprigionate in una gabbia di silenzio ora possono combattere con un’arma davvero efficace: quella legge che può assicurare un ritorno ad una vita serena, normale, un’esistenza degna di questo nome.

Il femminicidio, molte volte triste epilogo dello stalking, una sua drammatica esasperazione, si riferisce ad omicidi che hanno alla base cause o motivi relativi all’identità di genere. Solitamente la vittima è stata la moglie del suo aguzzino o ha intrattenuto una relazione sentimentale con l’autore del delitto, oppure l’assassino ha agito perché presumeva che la vittima dovesse iniziare o continuare con lui la relazione suddetta, ricevendo invece un netto rifiuto o una brusca interruzione. In lingua inglese il termine femicide o feminicide veniva usato già nel 1801 in Inghilterra per indicare letteralmente e in senso generale l’uccisione di una donna. Il termine, nel tempo, si è munito delle connotazioni che oggi lo arricchiscono ed è stato utilizzato dalla criminologa Diana Russell nel 1992, nel libro scritto insieme a Jill Radford Femicide: The Politics of woman killing. La Russell identificò nel femminicidio una categoria criminologica vera e propria che si sostanziava in una violenza estrema e tragicamente definitiva da parte dell’uomo contro la donna in quanto donna, una violenza turpe figlia di pratiche misogine. Il termine è stato ripreso e diffuso da numerosi studi di diritto, sociologia, antropologia, criminologia e reso popolare perché utilizzato negli appelli internazionali lanciati dalle madri delle ragazze uccise a Ciudad Juárez in Messico: “Nuestras Hijas de regreso a casa” è il movimento fondato da Marisela Escobedo Ruiz, uccisa nel gennaio 2010 nel corso della sua protesta per ottenere la verità sulla morte della figlia.

Una componente essenziale che si pone alla base della fenomenologia di questo reato è il radicale cambiamento del rapporto tra uomo e donna all’interno di un qualsiasi contesto relazionale e, in particolar modo, domestico. Storicamente la figura maschile è sempre stata quella preponderante all’interno del nucleo familiare, una figura a cui spettava la totale sfera decisionale, senza possibilità di contrattazione della controparte femminile, relegata al mero ruolo di angelo del focolare preposto alla cura dei figli. Un ruolo subordinato, cristallizzato in retaggi culturali di millenni, diffusi trasversalmente, tranne rare eccezioni. Il processo di emancipazione che, negli anni e giustamente, ha interessato il ruolo delle donne ha radicalmente rovesciato equilibri stabilizzati nel tempo, attualizzando rivendicazioni di parità tra i sessi non comprensibili da parte degli uomini, cresciuti secondo modelli educazionali obsoleti, anacronistici, impartiti da generazioni precedenti fossilizzate su quella subordinazione tra i sessi precedentemente citata. In questo modo molti uomini, formati e diventati adulti in un simile ambiente socio-culturale, non sono entrati in possesso dei mezzi, dei codici, degli strumenti cognitivi per comprendere un tale cambiamento. Tutto ciò comporta una sorta di corto circuito emozionale e intellettivo. L’esasperazione circostanziale e reiterata di tale disorientamento conduce, a volte, al verificarsi di questi tipo di reato. Una tale considerazione, lungi dall’essere una giustificazione per ciò che è ingiustificabile, rappresenta una mera componente culturale che tuttavia gioca un ruolo di primo piano in fattispecie del genere, nell’ambito di dinamiche formatrici e socializzatrici.

Un tale deficit di comprensione e di interpretazione riguardo alle logiche relazionali tra uomo e donna può potenzialmente sfociare in episodi fatti di prevaricazione, vessazione e nei casi più gravi, nella violenza più turpe e sanguinosa. La mancanza di codici, di strumenti del comunicare[2] impediscono quindi un’efficace attività della sfera razionale della mente umana maschile, che s’inibisce dando luogo ad una sorta di decodifica aberrante dei comportamenti dell’altro sesso e lasciando spazio alla sfera irrazionale, nella sua declinazione più barbarica e deprecabile: motivazioni e manifestazioni che si pongono alla base di omicidi, come quelli commessi da Luca Delfino[3], e che, a loro volta, possono rappresentare la fase embrionale di drammatiche carriere di assassini seriali come Donato Bilancia.

Allo stato attuale in Italia non esiste un osservatorio nazionale sul femminicidio, mentre in altri paesi, come Spagna e Francia, sono operative realtà che monitorano il verificarsi e l’evolversi del fenomeno. I dati vengono raccolti da associazioni e gruppi di donne basandosi esclusivamente sulle notizie diffuse dai mass-media. Tale metodologia fa ipotizzare una forte sottostima del dati in quanto, come è ovvio, solo una parte degli omicidi sono riportati dalla stampa. Ad esempio il blog Bollettino di guerra  rendiconta i casi di femminicidio tramite un’analisi quotidiana della cronaca nazionale e anche la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna utilizza la medesima metodologia per estrarre i suoi dati finalizzati alla compilazione della loro tabella annuale che ha contato circa 124 donne uccise nel 2012. Operazioni di monitoraggio, queste, che hanno catalizzato molto attenzione, in tempi relativamente recenti, stimolata dalla visibilità che il fenomeno ha raggiunto a livello mediatico. Infatti appare sempre più frequente che il femminicidio e con esso lo stalking precedentemente citato paghino un prezzo troppo alto al giornalismo televisivo, ma anche cartaceo, in termini di mera spettacolarizzazione a danno di un’informazione mirata e dedicata. Certe forme di televisione del dolore, oggi pericolosamente diffuse, sottendono a dinamiche di progressiva desensibilizzazione da parte dell’audiences che assistono a certi servizi o inchieste incentrate su tali tematiche con lo stesso interesse, trasporto o partecipazione rivolta ad un film o ad un programma TV, una partecipazione fruitiva non sentimentalistica, non solidale e nemmeno meramente informativa, ma unicamente legata a esigenze di fruizione seriale. Naturale e conseguente evoluzione socio-relazionale dei rapporti tra individui all’interno di un corpus comunitario,  come evidenziato dalla vicenda che riguardò Kitty Genovese.

Catherine Susan Genovese, nota come Kitty Genovese, era una donna di New York che fu accoltellata a morte nei pressi della sua casa nel quartiere di Kew Gardens, distretto del Queens, New York. Le circostanze del suo assassinio e la mancanza di reazione da parte dei suoi vicini furono riportate da un articolo di giornale pubblicato due settimane dopo e avviarono un filone di indagine sul fenomeno psicologico suddetto che divenne noto come effetto spettatore, complesso del cattivo samaritano o anche  sindrome Genovese. Una vicenda analoga a quella di James Bulger, non per il tipo di vittima ovviamente, ma per la tipologia, il contesto e l’indifferenza in cui avvennero i due delitti[4].

Ovviamente un atteggiamento fruitivo del genere, in varie declinazioni di intensità, è consapevolmente catalizzato dal comportamento di certi operatori della comunicazione che schiavi dei numeri e dei feedback del pubblico non esitano ad essere i maggiori artefici di quella spettacolarizzazione e di quella depauperazione di solidarietà e sentimenti che si palesa nella trattazione giornalistica di questa  fenomenologia di eventi. Un modus operandi che coinvolge anche coloro che sono vicini alle vittime, come parenti o amici, catapultati nel mondo dello spettacolo, che in cambio di pochi minuti di visibilità e di popolarità smarriscono, in alcuni casi, la concezione del reale valore di una perdita tanto grave e devastante. Inoltre il sensazionalismo giornalistico-televisivo fine a se stesso va ad inficiare il segreto d’ufficio e il lavoro di mesi degli inquirenti solo e semplicemente per il mero apparire davanti a una telecamera o sulla prima pagina di un quotidiano e far conquistare alle trasmissioni che li ospitano qualche punto percentuale di share e ai giornali qualche copia venduta in più.

Diventa perciò necessario e inderogabile mettere in campo un processo educativo, pedagogico e formativo in questo senso rivolto agli operatori della comunicazione tout court e ai loro fruitori, per abbandonare definitivamente queste squallide forme di voyeurismo mediatico e riattivare istanze produttive e fruitive caratterizzate da deontologia informativa e consapevolezza critica[5].Tali istanze devono costituire la base, il punto di partenza per riportare al centro dell’attenzione il rispetto per la vittima, per il tremendo dolore della sua famiglia e soddisfare le improrogabili e quanto mai doverose esigenze di verità e giustizia che ne conseguono.


[1] S. Palmer, Television Disrupted, The Transition  from Network to Networked tv, Elsevier, Oxford 2006.

[2] M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967.

[3] Luca Delfino, 32 anni, nel 2007 massacrò in strada a Sanremo l’ex fidanzata Maria Antonietta Multari con circa quaranta coltellate mentre fu assolto, per insufficienza di prove, riguardo all’uccisione di Luciana Biggi l’anno prima, nonostante tutti gli elementi d’indagine portassero a lui unico indagato.

[4] L’omicidio di James Bulger (nato a Liverpool  il 16 marzo 1990) fu un celebre caso che sconvolse l’Inghilterra nel 1993: il rapimento e l’uccisione di un bimbo di due anni di Kirkby, James Bulger, da parte di due ragazzini di soli 10 anni, Jon Venables e Robert Thompson (entrambi nati nell’agosto del 1982). Quando si chiarirono le circostanze della morte, i tabloid inglesi denunciarono l’indifferenza le persone che avevano visto James Bulger che veniva trascinato per la città e non erano intervenute, come i “38 di Liverpool”.

[5] K. R. Popper, Cattiva maestra televisione, Reset, Milano 1994.

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