Nell’ambito del Convegno del 26.11.2014 in materia di biodiritto e bioetica, tenutosi presso l’Università eCampus di Roma, alleghiamo per i nostri soci la Relazione scritta dell’intervento del Dott. Ettore William di Mauro sul Diritto del Concepito

Contenuto riservato ai soci

“Qui in utero est,

perinde ac si in rebus humanis esset custoditur,

quotiens de commodis ipsius partus quaeritur”

Paolo (D. 1, 5, 7)

 Il rapporto tra la personalità giuridica ed il concepito

a cura del Dott. Ettore William Di Mauro

Sommario: Premessa; 2. La normativa di riferimento; 3. La capacità, la soggettività giuridica e il nascituro; 4. La titolarità del nascituro di interessi patrimoniali; 5. La titolarità del nascituro di diritti fondamentali; 6. Il diritto a nascere sano e la sentenza Cass., 11 maggio 2009, n. 10741; 7. Il diritto alla salute e la sentenza Cass., 2 ottobre 2012, n. 16754; 8. Gli astrattismi e il qui in utero est.

Premessa. I giuristi romani adoperavano, in riferimento al concepito, una terminologia concreta e semplice e non mere astrazioni concettuali, usate oggi comunemente dalla dottrina o dai legislatori quali, ad esempio il diritto soggettivo, soggetto di diritto, personalità giuridica, capacità giuridica che si allontanano inevitabilmente dalle res humanae[1].

È allora evidente come il sistema giuridico-religioso romano, addirittura pre-cristiano, può ancora essere d’insegnamento dimostrando quanto sia futile la distinzione tra cattolici e laici che emerge ogni volta che si affrontano questi temi.

È utile il pensiero dei giuristi romani i quali hanno tutelato la vita, con efficaci strumenti, senza le moderne tecnologie di oggi. Essi pre-vedevano basandosi sui principi laddove oggi faticosamente i legislatori inseguono le tecnologie.

 

2. La normativa di riferimento.

La problematica soggettività del concepito ha origini più generali comprendendo la figura complessa del nascituro. Il diritto a nascer sani e a non nascere hanno assunto, da tempo nel dibattito scientifico, una condizione di centralità.

Chi affronta un simile tema si trova davanti a diversi nodi da sciogliere. Innanzitutto la interdisciplinarietà della materia, che riguarda non solo, la scienza giuridica, e peraltro più settori di questa[2], ma anche altre materie scientifiche come l’etica, la medicina, la biologia, sociologia e la teologia.

Tanta è la complessità del discutere che si è resa necessaria la «creazione» di una materia in grado di contenere tutte le differenti problematicità ad essa inerenti, come la bioetica.

Il termine «bioetica» racchiude l’essenza, l’oggetto di questa materia, rappresentata, appunto, dalla «vita» che l’essere umano esprime in tutte la sue proiezioni.

Dal «diritto alla vita», largamente inteso, sotto i più vari e imprevedibili profili, si incontra un’altra difficoltà. L’interrogativo se l’Umanità possa disporre, ed in quale misura, giuridica o etica, di simili valori vitali.

Ammesso che un simile compito spetti al giurista, la prima grande difficoltà che lo stesso incontra è la individuazione delle fonti normative che regolano il fenomeno oggetto di indagine, la tutela dei diritti dei nascituri.

Diritti che non sembrano trovare riscontro diretto nella normativa di riferimento, rimanendo in ombra[3].

In tale contesto si fa riferimento alla Costituzione, specialmente agli artt. 2, 3 e 32, che sembra essere più sensibile a tali argomenti, senza però non destare perplessità circa una generalizzata applicazione delle norme costituzionali.

Poi, il quadro normativo, tende a complicarsi ulteriormente, non potendo non guardare le fonti comunitarie ed europee, in particolare all’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’art. 2, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, per i quali «ogni individuo ha diritto alla vita»[4].

Simili diritti non possono esaurirsi in anguste limitazioni territoriali anche di carattere giuridico, ma devono aprirsi anche al contesto internazionale. Sorprende, a tal proposito, come il legislatore europeo, all’art. 1 della citata Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, afferma con forza che la «dignità umana è inviolabile». Utilizzando l’aggettivo «umana» per qualificare la dignità e non quello di «persona umana», permette l’estensione del principio a qualsiasi essere nel quale vi è «vita».

Diversa e meno problematica si rileva la tutela del nascituro in termini patrimoniali. Il codice civile prevede, seppure in non molte norme, la protezione dei diritti patrimoniali dei nascituri.

Questo permette, al fine della ricostruzione di una personalità giuridica del concepito, di tenere ben distinti il profilo «personale» dei diritti fondamentali e quello «patrimoniale» del nascituro.

Sebbene i due profili viaggino su piani diversi è da rilevare come, in entrambe le ipotesi, non sembra affatto decisivo la risoluzione del problema della soggettività giuridica[5] del nascituro al fine dell’imputazione di situazioni giuridiche soggettive, essendo a tal fine sufficiente la sua appartenenza al genus umanità.

In un simile contesto non si può prescindere dall’uso di un linguaggio il più possibile attento e sensibile alla profondità delle questioni, che hanno come fine il riferimento a situazioni esistenziali di tutti i soggetti coinvolti: la mamma, il nascituro, i familiari ed il medico curante, che, in molti casi, porteranno per il resto della loro vita il fardello di una vita toccata da tristi eventi. Un fardello, questo, che può risultare insopportabile con drammatici epiloghi, specialmente «in una società a solidarietà immatura, soprattutto nei confronti dei soggetti deboli[6]».

 

3. La capacità, la soggettività giuridica e il nascituro.

Prima di affrontare più dettagliatamente la questione, sembra opportuno soffermarsi sulla tutela del nascituro sotto il profilo della titolarità dei rapporti giuridici patrimoniali, in relazione alla quale sembra indifferente l’essere il nascituro considerato o meno «persona».

L’art.1 del codice civile italiano, frutto di un processo culturale conseguente alle grandi rivoluzioni liberali europee, recita così: «La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento nascita».

Cosa significa, dunque, capacità? Intorno a tale termine si è costituita una larga frangia di idee imprecise ed eterogenee, fonti di oscillazioni e di incertezze[7]?.

Le difficoltà terminologiche sono dovute alla straordinaria varietà dei sensi che la voce capacità esprime, non solo nel linguaggio quotidiano da cui il linguaggio giuridico più direttamente deriva, ma persino nel linguaggio scientifico. Nei discorsi correnti la capacità si riporta a concetti come possibilità, potere, facoltà, abilità, disposizione. Di capacità si parla inoltre in quasi tutte le scienze: in fisica (capacità termica, elettrica), in chimica (capacità di saturazione), in fisiologia (capacità vitale), in psicologia (capacità intellettuale) ecc…

Tuttavia in fondo a queste varie nozioni scientifiche esiste una base comune: l’idea di comprensione o di continenza che è suggerita del resto dall’etimologia della parola: capacità deriva da capax – che contiene – e da capere – prendere, comprendere, contenere.

Con il termine capacità, non si vuole affermare l’esistenza di un concetto generale di capacità, di cui le varie figure (capacità giuridica, d’agire, processuale, penale ecc.) costituirebbero esemplificazioni e sottocategorie. L’essenza del termine ha soltanto lo scopo di raccogliere in una esposizione sistematica i più generali modi di essere del soggetto nel mondo giuridico e perciò le fondamentali manifestazioni della soggettività giuridica.

Le fondamentali manifestazioni della soggettività giuridica si raccolgono intorno alle due figure di capacità giuridica e di capacità d’agire.

Tralasciando la seconda, per i nostri fini, sembra opportuno analizzare la prima.

Attraverso la capacità giuridica si ha ingresso nell’ordinamento giuridico, diventando soggetti di diritto.

Il nesso che congiunge le due idee, di capacità giuridica e di soggettività giuridica, è così evidente e intrinseco da fare apparire immediatamente chiara e non bisognosa di alcuna dimostrazione la necessità di fondare la prima nella seconda: di derivare, cioè, la capacità dai modi di essere più generali e costanti del soggetto giuridico.

Definendo la capacità giuridica come la posizione generale del soggetto in quanto destinatario di effetti giuridici si evidenza come soggettività e capacità vadano di pari passo.

L’esigenza logica inderogabile, per cui non è concepibile un sistema di norme di condotta che non si richiami ad un soggetto come a suo punto di riferimento, sta in ciò che, consistendo ogni condotta regolata dalla norma in un determinato tipo di attività e dovendo ogni attività essere compiuta da un agente, ossia da un soggetto umano, è chiaramente contraddittorio, per la necessità empirica e pratica del rapporto atto-agente, parlare di norme e di sistemi normativi non collegati ad un soggetto.

L’esistenza o meno di soggetti che sono punti di collegamento globali di tutto un ordinamento giuridico dipende ancora da un fenomeno essenzialmente pratico.

Dipende dal grado di formazione e di elaborazione che un sistema normativo ha raggiunto e dal livello più o meno alto di compiutezza interna e autosufficienza che gli si può attribuire. Nella misura in cui questo grado e questo livello aumentano si estende la posizione del soggetto nel mondo giuridico: dalla posizione minima, in cui la soggettività è riferita a circoscritti campi di norme, alla posizione massima che abbraccia la totalità del sistema normativo.

Già a partire dal diritto romano si manifesta la tendenza a configurare l’individuo fisico come punto di collegamento globale dell’intero sistema normativo. Questa tendenza ha poi incontrato, nelle varie epoche, limitazioni e restrizioni, connessi al sesso o agli status.

Cadute via via queste restrizioni, può dirsi che negli ordinamenti moderni, improntati al fondamentale principio della eguaglianza, il soggetto fisico è considerato, in astratto, punto di collegamento di tutte le norme del sistema.

La semplice qualità umana è dunque sufficiente a rendere il soggetto portatore potenziale di tutti gli interessi giuridici tutelati dal sistema, nonché titolari di un insieme di diritti e di garanzie che si collegano immediatamente alla sua personalità.

Concepita globalmente, la qualità di soggetto giuridico consiste, dunque, nella posizione di destinatario di effetti giuridici di un ordinamento, senza distinzioni od esclusioni di campo. Concepita in tal modo, la soggettività giuridica viene a coincidere con la capacità giuridica. Di conseguenza per essere soggetti di diritto, occorre avere acquisito la capacità giuridica. Essa, come già rilevato, si acquista con l’evento nascita.

La protezione del nascituro sembra stare in funzione del verificarsi della nascita, tuttavia il legislatore non rimane inerte, sotto il profilo di titolarità di situazioni giuridiche soggettive, per l’evolversi dell’individuo ancora non nato. Il sostantivo nascituro, nel suo significato lessicale, sta ad indicare chi è per nascere; nel significato giuridico, indica colui che potrà nascere anche se non vi è un concepimento in atto[8].

Gli interessi, alla tutela dei quali, il diritto ispira la sua disciplina, sono molteplici: del nuovo soggetto, per l’eventualità che venga ad esistenza; della società nella quale si esprime la naturale tendenza dell’uomo a proiettarsi verso l’avvenire; dei terzi i quali potrebbero derivare diritti dal nascituro, se diventasse soggetto giuridico. Il legislatore considera i diritti riconosciuti al nascituro concepito, ma anche quello non concepito non rimane privo di tutela, se pure limitata.

 

4. La titolarità del nascituro di interessi patrimoniali.

Un’analisi del tema sembra dovere iniziare da un breve esame delle norme di riferimento, presenti nel codice civile italiano, in materia di tutela del concepito o nascituro.

L’art. 1 c.c., in una simile prospettiva, può essere considerata come una norma «fondamentale».

L’acquisto di diritti da parte del concepito e dal nascituro, subordinato all’evento nascita, viene ricondotta a diverse ricostruzioni teoriche[9].

Prescindendo, in questa sede, da un approfondimento delle diverse ricostruzioni è opportuno chiedersi il perché della scelta normativa di subordinare all’evento nascita l’attribuzione della capacità giuridica, lasciapassare per il riconoscimento del soggetto all’interno dell’ordinamento giuridico.

La ragione sembra consistere nella circostanza che, nell’evento nascita, il soggetto diventa individuo, si completa quel processo di individualizzazione necessario al fine dell’attribuzione di diritti.

Si giustificano, in tal modo, disposizioni, quali l’art. 320, comma 1, c.c. che attribuisce ai genitori la rappresentanza e l’amministrazione dei beni spettanti ai figli nati e nascituri in tutti gli atti civili; l’art. 462 c.c., che riconosce in favore del concepito ed anche del non concepito la capacità a succedere; l’art. 463 c.c., in materia di amministrazione di beni ereditari in caso di eredi nascituri; l’art. 715 c.c., in materia di divisione ereditaria alla quale partecipino anche nascituri; l’art. 768 bis c.c. in materia di patto di famiglia; gli artt. 784 – 785 c.c. in materia di donazione in favore dei nascituri.

Da una lettura sistematica di tali norme, sembra emergere che l’ordinamento prescinda dalla soluzione del quesito «se il concepito sia o non sia persona: giudizio che da un lato presuppone l’esame dei dati normativi, dall’altro non condiziona la verifica della rilevanza neanche di una tutela riferita allo stesso concepito»[10]. Infatti sottopone l’efficacia delle citate norme al fatto giuridicamente rilevante della nascita, che opera come condizione di diritto sospensiva.

In tale prospettiva è, altresì, utile tenere distinta l’attribuzione in favore di un nascituro già concepito da quella a favore di un nascituro non concepito. Nel primo caso, si avrebbe l’ipotesi di fattispecie a formazione progressiva e complessa, destinata a completarsi, in tutti i suoi elementi, con la nascita, essendovi una spes homini. Nel caso del nascituro non concepito, si configurerebbe una pura fattispecie condizionale, subordinata alla condicio iuris sospensiva della nascita[11].

Le richiamate norme del codice civile sembrano, tuttavia, andare in senso opposto alla necessità di riconoscere al nascituro, anche concepito, di una discutibile capacità giuridica anticipata, dal momento che al di fuori dei casi tassativamente previsti dal legislatore non sembra riconoscersi ai nascituri una soggettività e/o capacità giuridica generalizzata, nel senso di titolarità di pretese patrimoniali.

L’assenza di produzione immediata di effetti giuridici in favore del nascituro, concepito e non, sembra indurre a ritenere fictio iuris il riconoscimento di una soggettività «anticipata» in favore del medesimo che si mostra neutra sotto il profilo della protezione di tal soggetto da parte dell’ordinamento, a prescindere dal considerarlo o meno «persona», seppure in fieri[12].

 

5. La titolarità del nascituro ai diritti fondamentali.

Questa titolarità potrebbe assumere particolare rilevanza in tema di accertamento del momento dell’inizio, o, della nascita della vita.

Strettamente collegata all’individuazione dell’inizio della vita sono collegati il diritto a nascere, diritto a nascere sani, diritto a non nascere e il diritto a non nascere se non sani[13]. Tutti diritti trattati all’interno della materia «nascita indesiderata» ed oggetto specifico di una recente decisione del 2012 della Suprema Corte[14].

L’ipotesi di omessa informazione, durante la gravidanza, di possibili malformazioni del feto sono ipotesi in cui ci si è chiesti se sussista un diritto al risarcimento del danno da nascita, appunto, «indesiderata». Cioè il danno derivante da «nascita indesiderata» di un bambino nato con malformazioni è un danno risarcibile in favore della madre, che non lo avrebbe «desiderato», nonché in favore degli altri componenti il nucleo familiare (padre e fratelli) ed anche in favore del nato malformato, che avrebbe preferito non nascere.

L’ordinamento ha preminente cura di assicurare il diritto alla salute della madre in relazione al profilo della carenza adeguata di informazione da parte del medico ginecologo circa la situazione di salute del feto, con la conseguente lesione contrattuale, data dal rapporto medico/paziente, del diritto di scelta consapevole (autodeterminazione) circa l’interruzione della gravidanza[15].

La legge sull’aborto del 1978 non consente l’aborto eugenetico, ma soltanto quello a fini terapeutici cioè, nel caso in cui continuare la gravidanza, possa esporre a grave rischio la salute psico-fisica della madre. Sembra quindi che la legge sull’aborto tutela più la salute della madre che quello del nascituro, il cui stato di salute pare essere preso in considerazione solo indirettamente, cioè, intermini riflessi, e ricadute sulla salute, anche solo psichica, della madre.

In una simile prospettiva l’informazione circa lo stato di salute del feto può risultare determinante del consenso alla prosecuzione o meno della gravidanza al fine di assicurare, insieme con il consenso informato della gestante, una maternità cosciente e responsabile.

Problematico resta l’accertamento del nesso di causalità, dovendosi, cioè, valutare se, ove vi fosse stata l’informazione, la madre avrebbe o meno interrotto ugualmente la gravidanza.

Gli artt. 4, 6 e 7 della l. 194 del 1978 non ammettono l’aborto eugenetico,, come già rilevato, ma soltanto quello finalizzato alla protezione della salute della donna, seppure previa adozione di ogni misura atta ad assicurare la vita del feto[16].

In tal caso, accertata la sussistenza del nesso di causalità tra omessa informazione nascita indesiderata, secondo la logica del «danno conseguenza», può ammettersi il risarcimento del danno in favore della donna, vittima, in tal caso, di un inadempimento contrattuale, ancor prima che di un illecito aquiliano.

Per quanto riguarda la risarcibilità del danno in favore degli altri familiari (in particolare, il padre e i fratelli), l’analisi diventa complessa, perché la legge sull’aborto attribuisce la titolarità del diritto, fondamentale e personalissimo, solo alla donna, non assumendo alcuna rilevanza il consenso del padre/marito. Analoga soluzione sembra potersi ritenere anche con riferimento alla l. 40 del 2004, in materia di riproduzione assistita.

Solo la giurisprudenza, pur dopo tentennamenti[17], ha invece riconosciuto che il contratto di assistenza medico/sanitaria tra la madre ed il medico curante, è un contratto terapeutico con effetti protettivi a vantaggio anche del coniuge e degli altri componenti il nucleo familiare, che, quindi, possono subire le conseguenze di una nascita indesiderata. Si è riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da «nascita indesiderata» anche verso il marito/padre e degli altri figli.

In Francia, la delicata problematica è stata affrontata nella decisione della Suprema Corte del 17 novembre 2011, che ha affermato il diritto al risarcimento del danno in caso di omessa informazione sulla malattia prenatale, non soltanto in favore della madre, ma anche in favore del nato malformato, affermando, con massima determinazione, l’esistenza di un diritto a non nascere o, meglio ancora, un diritto a non nascere se non sani. La decisione ha determinato l’approvazione da parte del parlamento francese della legge, 4 marzo 2002, n. 303 che, però, ha negato il risarcimento del danno, in favore del nascituro, per il solo fatto della nascita malformata e, dunque, indesiderata, riconoscendolo solo in caso di errore medico da accertarsi secondo un rigoroso nesso di causalità.

 

6. Il diritto a nascere sano e la sentenza della Cass., 11 maggio 2009, n. 10741.

L’evoluzione della giurisprudenza sembra svilupparsi attraverso un confronto serrato fra la necessaria tutela offerta dalla legge nei confronti dell’integrità psicofisica e della libertà di scelta della madre, e la legittima aspettativa a nascere e godere della propria integrità psicofisica da parte del concepito nascituro. In seguito alla legge n. 40 del 2004, la rilevanza del concepito è accresciuta e difficilmente conciliabile con la tutela offerta agli altri soggetti coinvolti. Collateralmente i giudici civili ritengono che il concepimento sia dapprima «oggetto del diritto di procreare»  e che i genitori siano titolari di interessi paritari. Nel 2006 la Corte di Cassazione con la sentenza n. 16123 arriva ad affermare che il contratto di spedalità intercorrente tra la gestante e la struttura sanitaria sia come un contratto con effetti protettivi a favori di terzi (id est del nascituro), il quale pone obbligo di non arrecare danni a terzi estranei al contratto.

Nel 2009 la Suprema Corte è andata oltre e, in tema di diritto dell’uomo a nascere sano e di obblighi di informazione medica su eventuali malformazioni del feto, afferma la soggettività giuridica del nascituro concepito limitatamente alla titolarità di alcuni interessi protetti[18].

La sentenza n. 10741 del 2009 continua sulla ormai consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui il diritto alla salute, che trova fondamento e tutela, non solo come interesse della collettività, bensì come fondamentale diritto dell’individuo, nell’art. 32 Cost., non è da limitarsi alle attività che si esplicano dopo la nascita o a queste condizionate, dovendo ritenere esteso anche il dovere di assicurare le condizioni favorevoli per l’integrità del nascituro nel periodo che la precede. La Suprema Corte riconosce necessaria favorire il più possibile la nascita e la salute del concepito. Infatti asserisce come non si possa «riconoscere all’individuo concepito la titolarità di un interesse protetto senza attribuirgli la soggettività», e questo sulla base di due considerazioni di fondo.

La prima considerazione poggia sul fatto che, con l’avvento della Costituzione, assurgendo la persona umana a valore centrale dell’ordinamento giuridico[19], vi sia una erosione della matrice patrimoniale del diritto civile, dovuta all’esaltazione del principio personalistico e alla lettura costituzionalmente orientata dei principi civilistici, verso una loro depatrimonializzazione[20]; del pari, con la sempre maggiore incidenza interna delle fonti normative, anche giurisprudenziali, comunitarie e internazionali si determina un procedimento di decodificazione[21] con la conseguente rivalutazione della necessità di ricorrere ai principi generali del diritti, come valori ordinamentali espressi in formule generiche che il legislatore trasmette all’interprete per consentirgli di «attualizzare» il diritto, anche mediante l’individuazione di nuove aree di protezione di interessi[22].

La seconda considerazione è strettamente collegata alla prima e trova conforto della funzione nomofilattica svolta dalla Suprema Corte, attuato dalla riforma procedurale del 2006, con cui si è stabilita la forza vincolante del principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite per le Sezioni Semplici.

Proprio la funzione interpretativa del giudice ricondotta all’assetto costituzionale e, nel caso di specie, alla clausola generale della centralità della persona umana, che il giudice di legittimità giunge a ritenere il nascituro soggetto giuridico[23].

Questa soggettività è più ampia rispetto alla capacità giuridica delle persone fisiche, con conseguente non assoluta coincidenza, sul piano giuridico, tra soggetto e persona, e di quella di personalità giuridica.

La Suprema Corte afferma, quindi, essere soggetti giuridici i titolari di interessi protetti a vario titolo anche sul piano personale e, in tale contesto, il nascituro concepito risulta comunque dotato di autonoma soggettività giuridica, perché titolare sul piano sostanziale di alcuni interessi personali in via diretta, quali il diritto alla vita, alla salute o integrità psicofisica, all’onore e alla reputazione, all’identità personale, rispetto ai quali l’avverarsi della condicio iuris della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio per il risarcimento.

È da evidenziare come la Suprema Corte nell’affermazione del principio abbia soltanto accolto quelle ipotesi costruttive già espresse in dottrina.

La premessa di fondo dalla quale muove è da individuarsi nella distinzione tra soggetto e persona che, riflettendo su come «a monte del diritto positivo vi è un diritto della società, insito nella medesima come principio e regola della coesistenza», attribuisce al diritto positivo il compito del «riconoscimento del soggetto» e al diritto sociale il «riconoscimento della persona»: il diritto positivo può così «creare soggetti anche diversi dalla persona», potendo peraltro negarne la soggettività, laddove il diritto sociale, riconoscendo come persona l’uomo, pur potendo dare «rilievo anche a realtà diverse dall’uomo, realtà che il diritto positivo riconosce come soggetti, non può considerare persona altro che l’uomo». Ed inteso in tal modo, seppure può limitare o negare la soggettività, non può negare l’uomo, inteso come chi ha forma e sostanza di uomo e possibilità di vita davanti a sé[24].

Di conseguenza il diritto alla vita, alla dignità umana, alla integrità psicofisica, ecc., « prima che diritti soggettivi, nel senso di diritti del soggetto, [sono] diritti della persona» non sono «beni elargiti dall’ordine giuridico positivo, ma discendono dall’appartenenza a una società». E, se l’uomo è «persona per la sua esistenza nella società», sebbene «l’embrione non è una persona […] questo nulla toglie alla dignità di una realtà nella quale vi è già tutto l’uomo futuro»[25].

Dunque la Suprema Corte accoglie quelle riflessioni di quanti sono giunti ad individuare nei princípi costituzionali sull’uomo il substrato sul quale fondare l’equiparazione tra embrione e uomo, e, per altro lato, affermano che la tutela della vita umana prenatale non si esaurisce nella protezione di un valore, bensì è rivolta «ai diritti fondamentali di cui un essere umano – l’individuo concepito – venga riconosciuto titolare alla stregua di principi fondamentali previamente individuati e univocamente interpretati»[26].

Anche quando si intende il comma 2 dell’art. 1 c.c. come costitutivo in capo al concepito una situazione di mera aspettativa, ponendo sotto condizione i diritti che la legge riconosce a suo favore, non vi è chi non veda come l’aspettativa sia la condizione in cui viene a trovare colui che aspetta, non colui che è aspettato[27]. Infatti, se l’aspettativa rientra all’interno delle situazioni giuridiche soggettive, questa implica in nuce l’esistenza attuale di un «soggetto» titolare di essa; «soggetto» di cui si può attendere il perfezionamento, ma che deve avere una sua attualità. Il che induce a riflettere sulla possibile soggettività del concepito, almeno come titolare di una aspettativa.

«L’attuale mancato riconoscimento della capacità giuridica generale in capo al concepito non sia di ostacolo alla configurazione di una soggettività giuridica dello stesso»[28].

A fondamento dell’affermazione depongono le ipotesi in cui è possibile individuare una soggettività alla quale non si accompagna una personalità giuridica, come nelle associazioni non riconosciute o nelle società di persone.

Dunque l’art. 1 c,c, si pone in funzione di elemento formale di qualificazione giuridica del soggetto, il cui elemento materiale è individuato per scelta normativa nel nato. È per il solo fatto naturale della nascita che l’uomo viene accolto nel diritto come soggetto in senso giuridico.

Ma, se l’essere uomo è legato in toto al fattore genetico umano che si determina nell’embrione, quest’ultimo non è mera spes homini, bensì è species hominis, trovando collocazione nel continuum del processo evolutivo imano che inizia con la fusione dei gameti e termina con la morte[29]. La questione non riguarda necessariamente la nascita dell’uomo; essa, giuridicamente intesa come distacco dall’utero materno, è uno stadio dell’esistenza, al pari di qualunque altro stadio evolutivo biologico, che ha indubbio principio nel concepimento. Può evolvere solo ciò che è, essendo da escludersi in nuce capacità evolutiva di una astratta potenza non già in atto[30].

Quanto descritto evidenzia una soggettività, i cui effetti sono sospensivamente condizionati all’evento nascita, ma il cui riconoscimento consente, non solo di ricondurre ad esso la tutela di quei futuri interessi del nato, che sono attuali interessi del concepito, bensì la titolarità attuale delle situazioni giuridiche di natura esistenziale.

Alla luce di tutto ciò l’art. 1 c.c. deve avere una lettura necessariamente costituzionalmente orientata potendosi così leggere: «la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita, e fin dal momento del concepimento per quanto attiene alla tutela della persona». Ciò garantisce l’attualità della tutela giuridica del concepito che, sotto il profilo personale, l’ordinamento può ben considerare già soggetto.

 

7. Il diritto alla salute e la sentenza della Cass., 2 ottobre 2012, n. 16754.

Con la decisione del 2012, il giudice di legittimità conclude per l’attribuzione direttamente in capo al nascituro del diritto di essere risarcito per il danno alla salute provocato dal medico ginecologo per l’omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata[31], in quanto «l’interesse alla procreazione cosciente e responsabile non è solo della madre ma altresì del futuro bambino, e ciò anche quanto questo si trovi ancora nel ventre materno anche se la lesione inferta al concepito si manifesta e diviene attuale al momento della nascita». Diritto al risarcimento riconosciuto anche al padre e ai fratelli e sorelle del nascituro.

Nel ricercare il fondamento di questo diritto in favore direttamente del nascituro, la Corte sembra abbandonare la tesi del «diritto a non nascere se non sani», e, di conseguenza, la teoretica della «soggettività giuridica anticipata» del nascituro, affermando esplicitamente che il nascituro non è il soggetto, ma l’oggetto di tutela, in quanto: «l’intero complesso normativo, ordinario e costituzionale, sembra muovere nella direzione del concepito inteso come oggetto di tutela e non come soggetto di diritto […] è tanto necessario quanto sufficiente, al contrario, considerare il nascituro oggetto di tutela, se la qualità di soggetto di diritto è attribuzione normativa funzionale all’imputazione di situazioni giuridiche e non tecnica di tutela di entità protette. Nessuna rilevanza sembra assumere il pur fondamentale principio della centralità della persona, universalmente riconosciuto e tutelato a qualsiasi livello normativo, ma inidoneo ex se a rientrare nel novero delle vere e proprie “clausole generali”».

La diretta legittimazione del nato all’esercizio dell’azione risarcitoria è giustificata sulla scorta del riconoscimento al nascituro concepito «di soggetto di diritto ovvero, del tutto specularmente, di oggetto di tutela sino al momento della sua nascita».

Il fondamento di un simile diritto è rinvenuto negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 Cost.: la lesione lamentata dal minore malformato «non è la malformazione in sé considerata, non è, in altri termini, l’infermità intesa in senso naturalistico, bensì lo stato funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata intesa come proiezione dinamica dell’esistenza che non è semplice somma algebrica della vita e dell’handicap, ma sintesi di vita e handicap, sintesi generatrice di una vita handicappata». Non viene in rilievo la nascita, ma «la futura vita handicappata intesa nella sua ampia accezione funzionale di una vita che merita di essere vissuta meno disagevolmente»[32].

Secondo la decisione la questione da affrontare «non è quella della sua venuta al mondo, ma soltanto quella del suo handicap […] gli effetti protettivi del rapporto obbligatorio (contrattuale o da c.d. contatto sociale) instaurato tra la paziente e i sanitari che la assistono durante la gestazione si producono non solo a favore del marito, bensì anche del figlio». L’estensione della tutela in favore del nascituro è effetto della «diffusa sensibilità sociale che sia esteso al feto lo stesso effetto protettivo (per il padre) del rapporto intercorso tra madre e medico; e che come accade per il padre, il diritto al risarcimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio il quale, per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità».

A sostegno di questa ricostruzione interpretativa, la Corte di Cassazione richiama l’attenzione sull’art. 320, comma 1, c.c., in materia di rappresentanza legale dei genitori anche del figlio nascituro, ed afferma che «la singolarità della relazione tra madre e nascituro, che fa di ogni decisione riguardo al figlio una decisione della madre, in una relazione non di alterità ma di immedesimazione , questa sì, realmente organica».

Pur nel rispetto dei diritti di libertà ed autodeterminazione, una rigorosa applicazione dei presupposti per potersi procedere ad aborto terapeutico appare comunque necessaria, sorgendo, in caso contrario, il rischio di favorire la possibilità di aborto eugenetico. Di ciò ne è consapevole il giudice di legittimità che, richiamando l’art. 4 della l. 194/1978 risolve ogni questione: «decisiva appare la considerazione secondo cui al momento stesso in cui l’ordinamento giuridico riconosce alla madre il diritto di abortire, sia pure nei limiti e nei casi previsti dalla legge, si palesa come incontestabile e irrimediabile il sacrificio del diritto del feto a venire alla luce, in funzione della tutela non soltanto del diritto alla procreazione cosciente e responsabile, ma dello stesso diritto alla salute fisica o anche soltanto psichica della madre. Troppo spesso si dimentica che una norma statuale di rango primario più volte legittimata dalla Corte Costituzionale, riconosce alla madre il diritto di interrompere la gravidanza quando questa si trovi in circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito. Il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è dunque attribuito alla sola  madre per espressa volontà legislativa».

 

8. Gli astrattismi e il qui in utero est.

Dalle fonti giuridiche romane, in particolare da un passo di Giuliano[33] e da due passi di Paolo[34], nonché dalla sistematica adottata dai giustinianei per comporre il Digesto[35], emergono due principi in materia di concepito: il principio della constatazione dell’esistenza di una individualità e quello del commodum.

Ma addirittura gli stessi termini utilizzati (qui in utero est, qui in ventre est) sono rilevatori del fatto che il concepito è pensato come un individuo esistente, vivente, e non come una mera parte delle viscere materne.

Il principio del commodum, poi, evidenzia come la condizione giuridica del concepito è equiparata a quella del nato. Infatti: «Colui il quale è nell’utero materno sia ritenuto come se fosse nelle cose umane tutte le volte in cui lo richieda il vantaggio (commudum) dello stesso parto, benché ad altri, prima della nascita, non possa in alcun modo giovare»[36].

Il principio è poi  ribadito, con differente terminologia, nell’ultimo libro del Digesto[37]: «è vera l’affermazione in base alla quale è considerato presente quello del quale si spera la nascita, allorché lo richieda il suo diritto, ma agli altri non è di vantaggio se non colui che è già nato»[38].

Dai frammenti citati si evince che, chi è nell’utero materno, è considerato già nato tutte le volte in cui si tratta del suo commodum. Il commodum non indica soltanto la singola utilità, ma assurge a concetto generale, al tempo stesso definizione del presente e principio guida per il futuro, concetto in forza del quale il concepito è equiparato al nato in tutti i casi in cui venga in considerazione un suo vantaggio, patrimoniale e non patrimoniale.

Se il nascituro è stato concepito da una donna libera, nasce libero, benché nel frattempo la medesima donna sia divenuta schiava[39]; se il nascituro è stato concepito, e poi partorito, da una schiava, nasce libero nel caso in cui la donna abbia goduto dell libertà tra il momento del concepimento e quello del parto[40]; se il nascituro è stato concepito da una donna unita secondo un giusto matrimonio, nasce cittadino e soggetto alla potestà del pater, benché la donna stessa, in attesa di partorire, venga privata della cittadinanza[41].

Se una donna incinta è catturata dai nemici, al concepito è concesso il postliminio, cioè il diritto di essere restituito nella condizione che aveva al tempo del concepimento, secondo lo stato della madre o del padre[42]; se una schiava incinta è stata sottratta, sebbene abbia partorito presso un compratore di buona fede, il nato, come se fosse furtivo, non può essere acquistato per usucapione[43].

Questi sono solo alcuni delle disposizioni a favore del concepito previsti dai giuristi romani. Addirittura, nell’epoca antica, il nascituro ha diritto, per il nutrimento, agli alimenti, cui deve provvedere un curator ventris. La finalità della nomina del curator è quella di tutelare la donna, il concepito e la res publica. Egli deve assicurare il rispetto delle modalità di adempimento delle prestazioni alimentari fino al momento della nascita. Pertanto la nascita è presa in considerazione, soltanto come termine entro il quale si esaurisce il compito del curator ventris. Egli deve provvedere agli alimenti e alle altre necessità della madre e del figlio. Viene nominato dal magistrato del popolo Romano perché nella tutela del concepito di persegue anche l’interesse pubblico della repubblica[44].

Dagli esempi riportati si evidenzia come il diritto romano fosse particolarmente sensibile alle esigenze di tutela del nascituro concepito, fortemente collegata alla salvaguardia della res publica. Tutelare chi ancora deve nascere, per tutelare la tenuta della Nazione.

Punto di forza, dunque, del diritto romano è la non elaborazione di concetti astratti, se non quando siano estremamente necessari. Il termine qui in utero est resta estremamente concreto. I concetti quali la capacità d’agire e la personalità giuridica sono del tutto estranei alla costruzione romana e si sovrappongono al sistema in età contemporanea, a causa del convergere di concezioni positiviste e soggettiviste del diritto[45].

Il problema della personalità giuridica o della capacità giuridica del nascituro concepito è sorto quando sono stati introdotti nel diritto e nel pensiero giuridico quelli che La Pira chiama «astrattismi»: quando si è voluto domandare, in astratto, se quel concreto essere che sta nel ventre della madre abbia oppure non abbia la capacità giuridica.

Problema che per la giurisprudenza antica non si pone, ma che il giuspositivismo odierno conduce alla soluzione dell’art. 1 c.c.. L’art. citato, del tutto antiromano, rimane coerente nella sua interezza, che deve, però, essere ricostruita al di là dell’abrogazione dell’ultimo comma (“Le limitazioni alla capacità giuridica derivante dall’appartenenza a determinate razze sono stabilite da leggi speciali”). E alla luce dell’art. 32 Cost., si pone con esso in netto contrasto.

Il codice civile del 1942 rovescia il principio romano della parità tra concepito e nati; è evidente che in base al secondo comma dell’art. 1 la difesa dei nascituri concepiti non può riguardare i casi non contemplati dalle leggi. La capacità giuridica è l’attitudine ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive, la quale tendenzialmente coincide con la soggettività[46].

Nell’ordinamento italiano, come si è visto, la generale capacità giuridica è attribuita a tutti gli esseri umani dal momento della nascita. Ne sono esclusi, quindi, i nascituri, ai quali tuttavia il legislatore riconosce la soggettività (art. 1, comma 1, L. 19.2.2004, n. 40). Infatti «anche se non si conviene sull’equiparazione embrione-nato, questo non implica l’esclusione di una soggettività per l’embrione, come peraltro già avviene in diversi sistemi»[47].

In questa prospettiva, la soggettività costituisce il presupposto necessario e sufficiente ai fini della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 Cost., mentre la capacità giuridica attribuisce più specificamente una generale titolarità di diritti e di obblighi, personali e patrimoniali, a quelle che il codice civile qualifica come «persone fisiche». Tutto ciò comporta due conseguenze. La prima è che l’appartenenza al genere umano diventa requisito sufficiente per il riconoscimento della soggettività; la seconda è che, a norma dell’art. 22 Cost., «nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica».

L’evento nascita di per sé non basta per l’acquisto della capacità giuridica: in effetti è essenziale non soltanto che il feto si separi dal grembo materno, ma che l’individuo nasca vivo[48], anche se non è richiesta una durata minima della vita né la cosiddetta vitalità, nel senso di attitudine a rimanere in vita.

Benché, il comma 2 dell’art. 1 c.c. subordini all’evento nascita l’attribuzione dei diritti a favore del concepito, non c’è dubbio che il valore della dignità umana viene in evidenza ben prima[49], sia a livello costituzionale (artt. 2 e 31, comma 2, Cost.), sia a livello di legislazione ordinaria la quale, come si è detto, «tutela la vita umana sin dal suo inizio»[50] e afferma espressamente l’esistenza dei diritti del concepito[51].

Al di là del dibattito dottrinale sulla complessa problematica che si è cercato di tradurre in un discorso di logica organicità ciò che rileva è che «la tutela della vita umana prenatale si prospetta non già come protezione di un “valore” in sé, oggettivamente considerato, ma piuttosto come tutela di diritti fondamentali di un essere umano – l’individuo concepito, appunto – venga riconosciuto titolare alla stregua di principi fondamentali previamente individuati e univocamente interpretabili»[52].

 

Ettore William Di Mauro


[1] M. P. Baccari, Sette note per la vita, in Studi doc. st. dir., LXX, Roma 2004. Sul punto si veda anche R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 404 e ss. e P. Catalano, Diritto, soggetti, oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D. 1, 1, 12, in Iuris Vincula. Studi in onore di M. Talamanca, vol. 2, Napoli 2000. Mentre sulla terminologia romana si veda P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, vol. 1, Torino 1990.

[2] Ad esempio, il diritto romano, il diritto privato, il diritto costituzionale, il diritto penale, il diritto amministrativo, la storia e la filosofia del diritto.

[3] Nonostante la L., 19 febbraio 2004, n. 40 abbia mostrato una timida spinta in avanti da parte del legislatore in tema di riconoscimento di personalità giuridica in capo al concepito, a fronte delle numerose sentenze costituzionali dal 2006 al 2009 che sembrano aver portato ad un vero e proprio restyling della legge. Nello specifico la C. Cost, 8 maggio 2009, n. 151 ha statuito che è costituzionalmente illegittimo, per contrato con gli artt. 3 e 32 Cost., l’art. 14 della l. n. 40 del 2004, nella parte in cui, fermo restando che le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiori a quello strettamente necessario, limita tale numero a quello necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre. È, poi, costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost., l’art. 14, comma3, l. n. 40 del 2004, nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come stabilisce tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna. Cfr., G. Casaburi, Il restyling giurisprudenziale della l. n. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, in Giur. Mer., 2009, 12, p. 3000 ss.

[4] Non può non tenersi conto anche delle principali Carte di diritti fondamentali di altri Paesi. Come la Costituzione di Weimar che, all’art. 2 allude al diritto alla vita e alla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America.

[5] F. Rinaldi, La problematica soggettività giuridica del nascituro, con particolare riguardo al diritto a nascer sani: Bioetica di un recente diritto, in Riv. dir. civ., 2013, p. 1 ss.; G. Oppo, L’inizio della vita umana, in Riv. dir. civ., 1982, 1, p. 499 ss; N. Lipari, La maternità e sua tutela nell’ordinamento giuridico italiano: bilancio e prospettive, in Rass. dir. civ., 1986, p. 568 ss.; A. Falzea, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939; Id., La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941; D. Rubino, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Milano, 1939, p. 73 ss.

[6] F. Rinaldi, La problematica soggettività giuridica del nascituro, con particolare riguardo al diritto a nascer sani: Bioetica di un recente diritto, cit., p. 1 ss.

[7] A. Falzea, Capacità (teoria generale), in Enc. dir., VI, Milano, 1960,  p. 8 ss.

[8] F. Scardulla, Nascituro (dir. civ.), in Enc. dir.,  XXVII, Milano, 1977, p. 538 ss.

[9] Secondo F. Carnelutti, Nuovo profilo della istituzione dei nascituri, in Foro pad., 1954, IV, p. 57 ss. e F. Santoro-Passerelli, Dottrine generali di diritto civile, Napoli, 1945, p. 9 ss., si configurerebbe un’ipotesi di fattispecie a formazione progressiva e complessa, che si completa con l’evento nascita, che opererebbe come una condizione di diritto, senza la necessità di riconoscere in favore del nascituro una soggettività o una capacità giuridica «anticipata». Secondo altri autori, L. Coviello jr., Capacità di succedere a causa di morte, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p. 54 ss e L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, Napoli, 1961, p. 85 ss., l’ordinamento attribuirebbe ai nascituri una vera soggettività giuridica «anticipata», riconosciuta in favore di tali soggetti, attraverso la quale il legislatore avrebbe inteso risolvere ogni tormentata questione in materia, subordinando ogni effetto attributivo alla nascita del soggetto «futuro».

Infine B. Biondi, Le donazioni, in Tratt. dir. civ. Vassalli, Torino, 1961, p. 245 ss., G. Oppo, L’inizio della vita umana, in Riv. dir. civ., p. 1982,  p. 499 ss. e R. Orestano, Diritti soggettivi e diritti senza soggetto, in Jus, XI, 1960,  p. 187 ss., si configurerebbero dei «diritti adespota», cioè dei diritti senza titolare, non ritenendosi necessario ricorrere a quella che, secondo tale impostazione, viene definita una fictio giuridica, qual è la soggettività giuridica anticipata. L’ordinamento avrebbe inteso prescindere dall’esistenza del soggetto, e così di una sua soggettività e/o capacità giuridica, rendendoli, comunque, titolari di diritti patrimoniali. Tale teoria è negatrice della soggettività del nascituro, non ritenuta necessaria al fine dell’imputazione della situazione giuridica soggettiva. Si v. anche A. Falzea, Capacità (teoria gen.), cit., p. 43 ss.

[10] G. Oppo, L’inizio della vita umana, cit., p. 499 ss.

[11] F. Rinaldi, La problematica soggettività giuridica del nascituro, con particolare riguardo al diritto a nascer sani: Bioetica di un recente diritto, cit., p. 1 ss.

[12] fattispecie particolarmente significative a sostegno della non necessità di riconoscere una fictio iuris di soggettività giuridica anticipata in favore dei nascituri sembrano essere gli artt. 462, 643, 784 e 715 c.c.

[13] Su quest’ultimo diritto occorre proporre delle precisazioni. È possibile risarcire un danno consistente nella lesione del diritto a non nascere, considerando come bene della vita la «non vita», ossia, se si preferisce, il diritto alla non nascita, ma esercitabile dal nascituro nel momento in cui è nato? Sembra doversi rispondere negativamente, finendo per affermare l’inesistenza di un simile diritto, almeno per tre ragioni principali. Il primo, consiste nel fatto che non esiste il soggetto titolare del diritto al momento del verificarsi del fatto lesivo. Si configurerebbe un diritto adespota , non essendo individuabile alcun soggetto che possa essere in alcun modo considerato titolare del diritto a non nascere se non sano. Questo perché la capacità giuridica si acquista all’evento nascita che opera come condizione di diritto (almeno secondo la ricostruzione maggiormente seguita, cfr. art. 1, comma 2, c.c.). Anteriormente alla nascita non si ritiene esista nessun titolare del diritto a non nascere, giacché il soggetto, appunto, deve ancora nascere ed il diritto è subordinato alla nascita. Successivamente alla nascita esiste il titolare, ma ontologicamente non esiste più il diritto a non nascere. Il secondo motivo è individuato nel silenzio da parte del legislatore ed è di carattere sistematico, attenendo ad una valutazione complessiva delle scelte di politica legislativa, che il legislatore sembra aver adottato in tale materia. In materia di interruzione di gravidanza, secondo la legge, soltanto ripercussioni negative per la salute della donna, che possono essere determinate dalla malformazione del feto, possono legittimare la sola donna all’interruzione della gravidanza. De iure condito, il legislatore non riconosce alcun diritto del feto a non nascere se non sano. Anzi riconosce al feto il diritto opposto, ossia a pretendere di nascere anche se non sano, se non si verifica alcuna ripercussione negativa alla salute della donna, vietando l’aborto eugenetico, ossia se non a fini terapeutici. Terzo motivo è rappresentato dalla impossibilità di affermare l’esistenza di un danno risarcibile, atteso che simile risarcimento rende necessaria una valutazione di carattere comparativo delle condizioni, cioè, che si sarebbero potute verificare se non si fosse verificato l’illecito rispetto a quelle che, invece, si sono verificate per effetto dell’illecito.

L’illecito rende peggiore la situazione del soggetto danneggiato, rispetto alla situazione preesistente all’illecito stesso. Infatti, è possibile comparare gli effetti peggiorativi derivanti da una malattia provocata da un atto illecito rispetto alla situazione di salute che ci sarebbe stata in assenza di illecito. Ma, poiché nel caso in esame l’alternativa alla nascita è la non nascita, risulta oggettivamente evidente l’impossibilità di una comparazione.

[14] F. Parente, Malformazioni fetali e danni esistenziali da procreazione, in Rass. dir. civ., 2005, IV, p. 1003 ss; M. Paradiso, La responsabilità medica dal torto al contratto, in Riv. dir. civ., 2001, p. 325 ss.; G. Ferrando, Libertà, responsabilità e procreazione, Padova, 1999, p. 278 ss.

[15] R. Simone, Danno alla persona per nascita indesiderata, in Danno e resp., 2002, p. 469 ss.

[16] N. Lipari, La maternità e sua tutela nell’ordinamento giuridico italiano: bilancio e prospettive, in Rass. dir.civ., 1986, p. 568 ss.

[17] Cass., 8.3.2012, n. 6914.

[18] E in via consequenziale il nesso di causalità tra il comportamento dei medici (omessa informazione e di prescrizione di farmaci dannosi) e le malformazioni dello stesso nascituro che, con la nascita, acquista l’ulteriore diritto patrimoniale al risarcimento.

[19] P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 2006, II, p. 717 ss; Id., La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972, p. 137.

[20] P. Perlingieri, Depatrimonializzazione e diritto civile, in Rass. Dir. civ., 1983, p. 1 ss.

[21] N. Irti, L’età della decodificazione, Milano, 1999, p. 77 ss.

[22] G. Ballarani, La cassazione riconosce la soggettività giuridica del concepito: indagine sui precedenti dottrinali per la lettura “integrata” dell’art. 1 c.c., in Dir. fam. pers., 2009, III, p. 1159 ss.

[23] Le fonti normative e giurisprudenziali su cui fa leva la Cassazione sono ricollegabili all’art. 1 della l. 14 febbraio 2004, n. 40 sulla procreazione medicalmente assistita; all’art. 1 della l. 22 maggio 1978, n. 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza, in cui si esplicita il principio generale della tutela della vita umana sin dal suo inizio, così come emerso dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 35 del 1997. Quest’ultima attribuisce al concepito il diritto alla vita, dando atto che il principio di tutela della vita umana sin dal suo inizio è oggetto di riconoscimento da parte della Dichiarazione sui diritti del fanciullo dell’ONU del 20 novembre 1959. Inoltre supporto normativo si può trovare nell’art. 254, comma 1, c.c. che consente il riconoscimento del figlio naturale anche solo concepito; nell’art. 32 Cost. che, riferendosi all’individuo quale destinatario della tutela della salute, contempla implicitamente la protezione del nascituro; nell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo dell’ONU del 10 novembre 1940 e nell’art. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000.

[24] G. Oppo, Ancora su persona umana e diritto, in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 259 ss.; Id., L’inizio della vita umana, cit., p. 512; Id., Declino del soggetto e ascesa della persona, in Riv. dir. civ., I, 2002, p. 830; A. Falzea, Capacità (teoria gen.), cit., p. 34 ss.

[25] G. Oppo, Ancora su persona umana e diritto, cit., p. 259 ss.. Sul tema della rilevanza anche N. Irti, Rilevanza giuridica, in Jus, 1967, p. 56 ss.

[26] G. Ballarani, La cassazione riconosce la soggettività giuridica del concepito: indagine sui precedenti dottrinali per la lettura “integrata” dell’art. 1 c.c, cit., p. 1159 ss.; P. Zatti, Quale statuto per l’embrione?, in Riv. crit. dir. priv., 1990, p. 486; F.B. Busnelli, L’inizio della vita umana, in Riv. dir. civ., 2004, I,  p. 550 ss.

[27] G. Ballarani, La capacità giuridica “statica” del concepito, in Dir. fam. pers., 2007, II, p. 1487; A. Falzea, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939, p. 44.

[28] P. Papanti Pelletier, Il problema della qualificazione soggettiva del concepito, p. 233. A favore anche C.M. Bianca, Diritto civile, I, La norma giuridica. I soggetti, Milano, 1990, p. 198 ss.; E. Giacobbe, Il concepito come persona in senso giuridico, Torino, 2003, p. 39 ss.. In senso contrario, invece, si v. F. Gazzoni, Osservazioni non solo giuridiche sulla tutela del concepito e sulla fecondazione artificiale, in Dir. fam. pers., 2005, II, p. 185 ss. e N. Lipari, Legge sulla procreazione assistita e tecnica legislativa, in Rass. par., 2005, p. 201 ss.

[29] F. Carnelutti, Logica e metafisica nello studio del diritto, in Discorsi intorno al diritto, III, Padova, 1961, p. 121 ss. G. Oppo, L’inizio della vita umana, cit., p. 501.

[30] G. Ballarani, La cassazione riconosce la soggettività giuridica del concepito: indagine sui precedenti dottrinali per la lettura “integrata” dell’art. 1 c.c., cit., p. 1159 ss.; F. Scardulla, Nascita (dir. civ.), in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, p. 520 ss.

[31] In conformità su quanto già enunciato dalla Cassazione con la sentenza 11 maggio 2009, n. 10741; sentenza 3 maggio 2011, n. 9700 e sentenza 29 luglio 2004, n. 14488

[32] F. Rinaldi, La problematica soggettività giuridica del nascituro, con particolare riguardo al diritto a nascer sani: Bioetica di un recente diritto , cit., p. 42.

[33] D. 1, 5, 26.: «Coloro i quali sono nell’utero materno sono considerati in pressoché tutto il diritto civile esistenti in natura; infatti, ad essi si deferiscono legittime eredità, se una donna incinta è catturata dai nemici, al concepito è concesso il postliminio […]».

[34] D. 1, 5, 7 e D. 50, 16, 231.

[35] D. 1, 5 (De statu hominum) e D. 50, 16 (de verborum significatione)

[36] D. 1, 5, 7 (Paul. l. sing. de port., quae lib. damn. Conc.).

[37] De verborum significatione D. 50, 16

[38] D. 50, 16, 231

[39] D. 1, 5, 18; I. 1, 4pr.

[40] I. 1, 4pr.

[41] D. 1, 5, 18

[42] D. 1, 5, 26

[43] D. 1, 5, 26

[44] M.P. Baccari, Sette note per la vita, cit., p. 507 ss.

[45] P. Catalano, Capacità giuridica, in Enc. bioetica e scienza giuridica, III, Napoli, 2010.

[46] A. Falzea, Capacità (teoria gen.), cit., p. 14; D. Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, Torino, 1965, p. 146.

[47] S. Rodotà, Bioetica, in Enc. Giur. Treccani, XXI, Roma, 2006, p. 201.

[48] M. Dogliotti, Le persone fisiche, in Tratt. dir. priv. Rescigno, II, Torino, 1999, p. 24.

[49] P. Perlingieri, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972, p. 138.

[50] Art. 1, comma 1, l. n. 194 del 1978.

[51] Art. 1, comma 1, l. n. 40 del 2004.

[52] F.D. Busnelli, L’inizio della vita umana, cit., p. 550

 

 

Lascia un commento

Help-Desk