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Tullia Carra

 

SOMMARIO: 1. La nozione di competition advocacy; 2. La competition advocacy in Italia; 3. La legittimazione a ricorrere; 4. Interpretazione del concetto di pubblica amministrazione; 5. Giurisdizione oggettiva e soggettiva; 6. Ruolo e natura del parere; 7. L’autotutela decisoria delle pubbliche amministrazioni destinatarie del parere motivato; 8. Scansione temporale e natura del ricorso; 9. Grado di utilizzo ed efficacia; Conclusioni.

 

  1. La nozione di competition advocacy

Una definizione di competition advocacy è stata elaborata durante la conferenza organizzata dall’International Competition Network[1] tenutasi a Napoli nel 2002.

La competition advocacy consiste in “(…) those activities conducted by the competition authority related to the promotion of a competitive environment for economic activities by means of non-enforcement mechanisms, mainly through its relationships with other governmental entities and by increasing public awareness of the benefits of competition”.

Una prima parte della definizione individua la nozione di competition advocacy “in negativo”: essa è praticamente tutto quello che non rientra all’interno dell’attività di enforcement.

La seconda parte si distingue a sua volta in due branche: la prima identifica tutte quelle iniziative intraprese dall’autorità di concorrenza nei confronti di soggetti pubblici al fine di influenzarne in senso pro-concorrenziale le regolazioni; la seconda si riferisce a tutte le attività, poste in essere dalle autorità di concorrenza, volte ad incrementare la consapevolezza della collettività circa i benefici di una politica concorrenziale nei confronti dei singoli operatori economici e, più in generale, per la società intera[2].

In sostanza, per competition advocacy si intende da un lato, un’attività di natura consultiva e propositiva specificamente rivolta a legislatori e regolatori affinché questi rispettino il principio e le norme di concorrenza ed introducano nel contesto legislativo discipline in coerenza con i principi concorrenziali, tanto a livello nazionale quando a livello europeo; e dall’altro, un’attività più generale rivolta all’intera collettività, al fine di promuovere la cultura della concorrenza[3].

Rivolgendosi la competition advocacy, a differenza attività di enforcement, a soggetti pubblici, appare chiaro che essa muove dalla consapevolezza che la concorrenza non è solo ostacolata dalle pratiche anticoncorrenziali poste in essere da operatori economici privati, ma anche da interventi regolatori del settore pubblico.

L’intervento di advocacy si muove su almeno tre piani distinti, di impatto crescente a seconda del potere di cui l’Autorità, nel caso specifico, ritiene opportuno servirsi: in primo luogo, l’Antitrust incoraggia le pubbliche amministrazioni, o finanche il potere esecutivo e quello legislativo, ad adottare normative ispirate ad intenti pro-concorrenziali; in secondo luogo, li convince ad astenersi dall’adottare misure non necessarie e restrittive della libera concorrenza; in terzo luogo, concorre ad espungere dal quadro normativo del nostro ordinamento le disposizioni anti-concorrenziali, attraverso l’indicazione delle stesse ai soggetti regolatori.

La seconda tipologia di attività di competition advocacy, come già rilevato, consiste nel promuovere e nell’incrementare la cd. cultura della concorrenza, dimostrando i benefici derivanti da una politica improntata su principi pro-concorrenziali sull’intera società.

È generalmente riconosciuto che tali attività abbiano l’effetto di accrescere la credibilità e l’abilità di convincimento delle autorità di concorrenza nei confronti di legislatori e regolatori inaugurando, in tal modo, un circolo virtuoso di cui la società intera si avvantaggerà.

È stato opportunamente rilevato che la cultura della concorrenza si manifesta in modo diverso da Paese a Paese, in quanto appare strettamente legata alle dinamiche socio-economiche e politiche di matrice squisitamente nazionale.

Non è un caso che mentre i Paesi in via di sviluppo, caratterizzati da altalenanti politiche pubbliche ma anche da una limitata esperienza di enforcement[4], sono connotati da una debole cultura della concorrenza tale da non incidere né sui comportamenti dei soggetti regolatori, tantomeno sui singoli individui[5]; invece, i Paesi caratterizzati da un più consolidato riconoscimento dell’importanza dei principi posti a presidio della libertà di concorrenza mostrano un più elevato livello di sensibilizzazione in tal senso.

La cultura della concorrenza viene stimolata, tanto a livello verticistico quanto a quello plateale, mediante la partecipazione delle autorità di concorrenza a procedimenti legislativi o amministrativi; la promozione e l’intrattenimento di relazioni stabili con le Università e con i centri di ricerca sui comportamenti dei mercati nell’ottica concorrenziale; l’adeguata copertura mediatica di casi particolarmente importanti involgenti pratiche lesive del principio; l’organizzazione di convegni, seminari, tavole rotonde, incontri, lezioni, lavori di gruppo.

Come già rilevato, la competition advocacy è connotata da una dimensione essenzialmente nazionale giacché le singole autorità di concorrenza possono esercitare le loro funzioni nei confronti di legislatori, regolatori e consumatori che rientrano nei confini della nazione di appartenenza.

Diversamente, la Commissione Europea, organo di natura sopranazionale, è dotata del potere di emettere istruzioni a carattere obbligatorio in materia di politica della concorrenza agli Stati membri in casi particolari e in determinati settori economici.

 

  1. La competition advocacy in Italia

In Italia, l’attività di competition advocacy è affidata all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in virtù della legge 10 ottobre 1990, n. 287 recante “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”, istitutiva dell’Autorità.

La legge rappresenta una significativa presa di coscienza da parte del legislatore italiano che pericolose e forti restrizioni del mercato possono provenire sia da soggetti privati che da regolazioni pubbliche, così come rilevato in sede internazionale.

Proprio per tale ragione, la legge fa dell’Autorità Antitrust una promotrice del corretto funzionamento del mercato, conferendole il compito di difendere la concorrenza da ostacoli e limitazioni, da qualsiasi soggetto derivanti.

La funzione di competition advocacy esercitata dall’Autorità consiste, in sintesi, in un’attività di segnalazione al Parlamento, al Governo e alle pubbliche amministrazioni dei casi in cui le normative vigenti o in via di formazione comportino rischi di distorsioni, o finanche comprovate restrizioni, al corretto funzionamento del mercato e alla concorrenza, senza che queste siano giustificate da esigenze di interesse generale[6].

Le misure di advocacy, siano esse indirizzate a legislatori o regolatori in senso lato, sono dirette per un verso a proporre l’adozione di provvedimenti pro- concorrenziali, e per l’altro a sollecitare l’abrogazione o la modifica di provvedimenti già in vigore che costituiscono, a parere dell’Autorità, significativi ostacoli alla libertà della concorrenza e al corretto funzionamento del mercato[7].

L’Autorità Garante esercita l’attività in commento mediante l’emanazione di segnalazioni o pareri, di livello più o meno incidente.

Al di là delle frequenti imprecisioni lessicali, la dottrina è ormai concorde nel ritenere che le segnalazioni sono relative ad atti già formati, mentre i pareri riguardano atti ancora in formazione[8].

Dalle due tipologie di atti emerge una differenza essenziale: mentre la segnalazione consiste in mere indicazioni onde risolvere le disfunzioni applicative in termini concorrenziali di una normativa vigente, il parere invece contiene suggerimenti al fine di rendere un disegno di legge o una bozza normativa conforme ai principi del diritto della concorrenza[9].

Sul piano pratico, gli interventi dell’Antitrust – siano essi segnalazioni o pareri – nei confronti di disposizioni adottate o in via di formazione ritenute contrarie alla concorrenza, vengono predisposti secondo tre profili: a) la natura e la motivazione dell’intervento; b) l’esito dello stesso, conseguente alla valutazione compiuta dall’Autorità sulla regolazione; c) tutte le possibili ragioni per un’opzione sfavorevole all’adozione dello strumento regolatorio.

Sulla base dei risultati rilevati, l’Autorità valuta quale, tra gli strumenti a sua disposizione, persegua nel modo più efficace la tutela della concorrenza[10].

Benché nell’originaria formulazione, la legge 287/1990 lasciasse intendere che l’advocacy costituisse una prerogativa strategica[11], immaginata come propulsore per un profondo miglioramento del nostro sistema giuridico[12], la normativa si era inspiegabilmente limitata a prevedere una funzione meramente consultiva, oggi considerata superata alla luce delle più recenti modifiche.

Difatti, il ruolo consultivo dell’Autorità Garante si è sensibilmente rafforzato, trasformandosi in un intervento meglio supportato e più incisivo grazie a due fattori principali ed interdipendenti: l’introduzione di strumenti più ampi e penetranti ed un mutato atteggiarsi dei reciproci rapporti politico-istituzionali.

Ed infatti, tra le recenti novità che hanno apportato un sensibile rafforzamento dei poteri di advocacy, spiccano due significative ed interessanti modifiche: la prima, introdotta nel 2009 all’art. 23 l. n. 287/1990, che si riferisce alla legge annuale per il mercato e la concorrenza; la seconda, avvenuta nel 2012 ad opera dell’art. 21-bis della medesima legge, che ha attribuito all’Autorità la legittimazione ad impugnare, davanti ai Tribunali Amministrativi Regionali competenti nel caso di specie, gli atti generali, regolamenti e provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che producano distorsioni della concorrenza o che violino, senza essere giustificate da esigenze di carattere generale, le norme poste a tutela della stessa.

Ciò ha condotto molti osservatori a ravvisare nell’esperienza italiana una competition advocacy connotata da una maggiore modernità ed incisività rispetto ad altri ordinamenti giuridici posti a confronto, privi di strumenti tanto innovativi[13].

Conseguentemente, ha assunto importanza un diverso modo di interpretare il ruolo di advocacy da parte dell’Autorità, ricercando meglio e con maggiore frequenza quel dialogo con il sistema politico-istituzionale, tipico dei poteri di advocacy e conferendo loro una nuova spinta propulsiva[14].

Il nuovo modus operandi è emblematicamente caratterizzato dalla trasmissione periodica di documenti, articolati e approfonditi, al legislatore.

Tale trasmissione, che era tradizionalmente volta a segnalare in negativo le singole restrizioni o distorsioni della concorrenza da rimuovere, negli anni più recenti si ispira piuttosto ad un approccio pro-attivo[15], volto ad indicare, mediante la formulazione di vere e proprie sezioni propositive facenti parte dei documenti trasmessi, “le azioni positive da compiere per favorire la concorrenza e la crescita[16].

Tale prassi, da un lato, ha consolidato la competition advocacy e, dall’altro, ha rinnovato il volto e l’azione dell’Autorità, qualificandola, nei rapporti con i suoi interlocutori, come un “soggetto naturalmente competente a suggerire, su un piano squisitamente tecnico”, disposizioni rivolte a modificare in senso pro- concorrenziale il tessuto normativo del nostro ordinamento[17].

Ad ogni modo, la scelta del legislatore di conferire poteri consultivi all’Antitrust non costituisce un inedito nel quadro normativo italiano poiché già con la legge 2 agosto 1982, n. 576, si era voluto conferire analoghi poteri all’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private (ISVAP) e, in forza dell’art. 2, comma sesto, della legge 14 novembre 1995, n. 481, alle Autorità nazionali competenti per la regolazione e il controllo dei servizi di pubblica utilità istituite nel nostro ordinamento[18].

Tuttavia, le funzioni consultive in commento rendono l’Antitrust un’autorità indipendente unica rispetto alle altre, innanzitutto perché la concorrenza, essendo una materia trasversale, attraversa interamente diversi rami del diritto come quello dell’economia, dei consumatori, del lavoro, riguardando dunque qualsiasi attività economica e qualsiasi produzione e circolazione di qualsivoglia bene o servizio: da ciò si desume che le competenze dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sono molto più ampie rispetto a quelle, per così dire, settoriali delle altre autorità.

In secondo luogo, giova ricordare che tali poteri furono attribuiti in un contesto storico-normativo segnato da una sostanziale inesistenza della cultura della concorrenza e che, anzi, era ancora permeato da rimanenze corporativistiche di derivazione fascista: per ovviare a tali inconvenienti, si introdusse la possibilità che l’Autorità antitrust, nello svolgimento delle sue funzioni consultive, si indirizzasse non solo a Governo e Parlamento, come previsto per le altre autorità amministrative, ma anche ai Ministeri, alle altre amministrazioni ed enti locali e territoriali[19].

  1. La legittimazione a ricorrere

Il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 recante Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici e convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, oltre ad istituire una nuova autorità amministrativa indipendente, l’Autorità di Regolazione dei Trasporti, o ART, competente per la regolazione dei trasporti e dell’accesso alle relative infrastrutture ed ai servizi accessori[20], ha modificato la legge n. 287/1990, introducendovi l’art. 21-bis.

Tale disposizione, rubricata non a caso “Potenziamento dell’antitrust”, recita: “1. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato. 2. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, se ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l’Autorità può presentare, tramite l’Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni”.

Lo strumento in parola contribuisce significativamente a rafforzare i poteri di advocacy dell’Autorità nella lotta contro l’emanazione di misure amministrative che restringono o ostacolano la concorrenza all’interno del mercato[21].

Esso è sicuramente da considerare lo strumento più incisivo di competition advocacy.

  1. Interpretazione del concetto di pubblica amministrazione

È pacifico che il fondamento della norma vada rintracciato nel ruolo fondamentale, riconosciuto dal nostro ordinamento, al valore della concorrenza, considerato “talmente rilevante da far ritenere insufficiente la tutela rimessa solo all’iniziativa dei privati”, nella consapevolezza che “questi ultimi agiscono per fini meramente individuali e non di certo di sistema[22].

Peraltro, come si è detto, tale potere di impugnativa è stato conferito all’Autorità Garante a seguito della considerazione che le distorsioni del principio della concorrenza possono provenire anche dal soggetto pubblico che introduce, mediante le regolazioni, restrizioni alla concorrenza non necessarie e non proporzionate all’interesse generale in conflitto, che invece è meritevole di protezione da parte dell’ordinamento giuridico.

Al tal proposito, si è osservato che a volte un assetto concorrenziale è garantito forse anche meglio proprio dall’assenza di una legislazione particolarmente stringente[23], sicché i poteri di advocacy possono risultare più efficaci rispetto ad una normazione troppo dettagliata. Dunque, l’istituto è diretto ad eliminare tutte quelle condotte ingiustificatamente restrittive della concorrenza e del libero mercato poste in essere da qualsiasi amministrazione pubblica sia centrale sia locale.

Ed infatti, il comma primo, nell’elencare gli atti suscettibili di impugnativa, sembra voler ricomprendere “qualsiasi provvedimento (che) possa promanare dalla pubblica amministrazione[24].

In tale contesto, la delineazione dei limiti e della portata del concetto di pubblica amministrazione non appare di secondaria rilevanza posto che questa consente di ampliare o viceversa di restringere il novero degli atti suscettibili di essere impugnati, a seconda che si voglia abbracciarne una nozione più o meno estesa.

Secondo una prima interpretazione, la nozione di pubblica amministrazione è stata nel corso del tempo oggetto di ampliamento tanto che, da un insieme di enti e soggetti pubblici preposti allo svolgimento di funzioni sostanzialmente amministrative, la giurisprudenza amministrativa è andata a ricomprendere anche soggetti formalmente privati che svolgono funzioni pubblicistiche onde conseguire il soddisfacimento di un interesse collettivo[25]. Di contrario avviso è una seconda interpretazione, che nega la possibilità di ricondurre all’interno della categoria di pubblica amministrazione tutti quei soggetti che, pur avendo una forma privatistica, perseguono finalità pubblicistiche come ad esempio le imprese pubbliche e gli organismi di diritto pubblico[26].

Un secondo problema interpretativo si è parimenti imposto nel dibattito dottrinale con riguardo alla definizione in chiave estensiva, o viceversa restrittiva, del concetto di norme poste a tutela della concorrenza, cui l’art. 21-bis si riferisce. Una parte della dottrina ne ha proposto una interpretazione in senso piuttosto restrittivo, ritenendo che, essendo il nuovo potere inserito all’interno della legge n. 287 del 1990 intitolata appunto “Norme a tutela della concorrenza e del mercato”, le norme a tutela della concorrenza fossero solo quelle rintracciabili nella detta legge (di conseguenza, l’Autorità potrebbe esercitare il nuovo potere solo nel caso in cui le pubbliche amministrazioni violassero i divieti di intese restrittive, abuso di posizione dominante e di concentrazione) e che, se anche si volesse estendere l’ambito di applicazione della disposizione in questione, “manca nell’ordinamento nazionale una definizione precisa di quali siano le norme a tutela della concorrenza e del mercato eventualmente richiamate dall’art. 21-bis[27]. Secondo la medesima interpretazione dottrinale, essendo le disposizioni appena richiamate contenute nella l. n. 287/1990 e indirizzate a soggetti privati, non si può configurare una lesione diretta di tali normative da parte delle pubbliche amministrazioni. Pertanto, l’art. 21-bis potrebbe essere applicato solo nel caso in cui le pubbliche amministrazioni abbiano indotto le imprese a violare tali disposizioni, imponendo o suggerendo alle imprese destinatarie di atti amministrativi generali, regolamenti e provvedimenti, di violare le norme a tutela della concorrenza e del mercato[28]. Altra parte della dottrina sostiene invece una interpretazione estensiva, sostenendo che quella restrittiva sia probabilmente troppo lontana dalle intenzioni del legislatore e dalla tendenza affermatasi nell’ordinamento che ormai riconosce una tutela rafforzata al principio della concorrenza; secondo tale opinione, l’art. 21-bis ricomprendendo quindi non soltanto le disposizioni contenute all’interno della l. n. 287/1990, ma anche tutte le quelle che sono volte a tutelare e promuovere la concorrenza tanto a livello nazionale quanto a livello europeo[29].

A testimonianza della preferenza accordata a tale tendenza interpretativa, si nota che, nella pratica, quando l’Autorità antitrust si rivolge al giudice, si riferisce sic et simpliciter al generale principio della concorrenza o ai principi europei a presidio della concorrenza, invocandone la tutela.

  1. Giurisdizione oggettiva e soggettiva

Diverse criticità emergono inoltre dal comma primo dell’art. 21-bis, sia con riferimento alla stessa legittimazione a ricorrere, sia riguardo alla legittimità costituzionale di tale facoltà.

Con riguardo al primo profilo, si tratta di chiarire se l’art. 21-bis introduca o meno una forma di giurisdizione oggettiva improntata alla tutela di un interesse generale di salvaguardia della concorrenza che mal si concilierebbe con la tradizionale giurisdizione soggettiva del giudizio amministrativo, tipicamente volta alla tutela di situazioni giuridiche soggettive individuali.

Sul punto la dottrina è divisa.

Una parte di essa ritiene che il valore della concorrenza più che come interesse generale al rispetto della legalità, debba essere considerato come una situazione giuridica qualificata e differenziata: qualificata, in quanto oggetto di particolare considerazione da parte dell’ordinamento e, dunque, anche differenziata rispetto a quella di altri soggetti[30].

In sostanza, la tutela e la promozione della concorrenza consisterebbe in un interesse protetto dall’ordinamento, di natura particolare e differenziata, affidato in via diretta all’Autorità Garante. L’interesse in parola si soggettiverebbe in capo alla stessa, la quale, per garantirne la tutela, diventa legittimata a proporre ricorso giurisdizionale.

Pertanto, la legittimazione dell’Autorità nel far valere un interesse che risulta personale, specifico e qualificato[31] al rispetto delle norme sulla concorrenza, non si porrebbe in contraddizione con la natura soggettiva del giudizio amministrativo, poiché la lesione della concorrenza costituirebbe una situazione giuridica soggettiva.

In altre parole, l’Antitrust, affidataria per legge del valore della concorrenza, è effettivamente portatrice di un interesse di natura sostanziale protetto dall’ordinamento nella forma di interesse legittimo che si soggettivizza in capo ad essa.

Ne deriva che l’Autorità riceve l’immediata lesione del suo interesse legittimo tutte le volte in cui vengano adottati, da qualsiasi pubblica amministrazione, atti amministrativi generali, regolamenti e provvedimenti ingiustificatamente restrittivi della concorrenza[32].

Altra parte della dottrina invece è di avviso radicalmente opposto.

La disposizione in esame non configurerebbe altro che una giurisdizione oggettiva volta alla tutela della concorrenza la quale non integrerebbe un interesse particolare e differenziato, bensì un interesse generale al rispetto della legalità: in altre parole, l’Autorità, nel proporre ricorso, non farebbe valere situazioni giuridiche soggettive proprie, ma unicamente l’interesse generale alla concorrenza[33].

Si sostiene perciò che “non è possibile ritenere che l’Autorità, in quanto tale, sia titolare di un interesse legittimo in senso proprio, potendo (e dovendo) attivarsi per la tutela e la realizzazione dell’interesse generale alla concorrenza che, per un verso, finisce per coincidere con una sommatoria di interessi di mero fatto ascrivibili alla collettività, e, per altro verso, restando così generico, non soddisfa di certo i caratteri di una situazione soggettiva imputabile ad un soggetto di diritto[34]47.

Tra le due impostazioni, quella che sembra maggiormente convincere dottrina e giurisprudenza è la prima.

La stessa giurisprudenza, a conferma del fatto che la concorrenza sia andata nel tempo ad assumere un ruolo sempre più fondamentale nel contesto economico nazionale tanto da essere considerata un bene giuridico di primaria importanza, tutelato sia a livello nazionale che a livello comunitario, ha affermato che la legittimazione dell’Autorità Garante a ricorrere non determina alcuna dissonanza con il processo amministrativo[35].

La sentenza cui si fa principalmente riferimento è la n. 2720/2013 del TAR Lazio[36], laddove viene precisato come l’Autorità sia “portatrice di un interesse pubblico, benché individuale e differenziato rispetto all’interesse generale e diffuso […]; e proprio detto interesse, che è pubblico nella tutela apprestata dalle norme che fissano i poteri e le attribuzioni dell’AGCM, vale a fondare la legittimazione processuale di cui all’art. 21bis”.

Da segnalare perché parimenti illuminante, è anche la pronuncia del Consiglio di Stato 30 aprile 2014, n. 2246, che ha affermato che l’articolo 21-bis “attribuisce una peculiare legitimatio ad causam all’Autorità nei confronti degli atti amministrativi generali, dei regolamenti e dei provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza”.

Pertanto, coerentemente con il bene giuridico protetto (tutela della concorrenza e corretto funzionamento del mercato) e con le finalità perseguite (la crescita e lo sviluppo economico), la legittimazione dell’Autorità “trascende l’interesse specifico del singolo operatore del mercato […], il che giustifica la disposizione nella parte in cui ammette sostanzialmente una legittimazione ad agire concorrente, dell’Autorità e dei singoli interessati”.

Il secondo profilo, infine, concerne la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21-bis sollevata dalla Regione Veneto, con ricorso notificato il 21 febbraio 2012, nel quale l’ente regionale ha contestato che la disposizione di cui all’art. 35 d.l. n. 201/2011 (che ha introdotto il citato art. 21-bis), darebbe ingresso nel nostro ordinamento ad “un nuovo e generalizzato controllo di legittimità su iniziativa di un’autorità statale” nei confronti – anche – di atti regolamentari e amministrativi regionali.

La Consulta ha tuttavia osservato, nella sentenza n. 20/2013, l’inesattezza di tale considerazione chiarendo che non si tratta né di un controllo nuovo – perché la norma, andando ad integrare i poteri conoscitivi e consultivi in virtù degli artt. 21 e seguenti della l. n. 287/1990 già attribuiti all’Autorità, “prevede un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato” –, né generalizzato, giacché il suo ambito applicativo investe soltanto quegli atti amministrativi che violano le norme pro- concorrenziali.

Inoltre, la Corte ha richiamato l’attenzione sulla circostanza che l’art. 21-bis attribuisce all’Autorità solo un potere di azione nei confronti di atti adottati da enti territoriali, essendo poi demandata al giudice amministrativo la decisione finale in ordine alla effettiva legittimità dell’atto.

Pertanto, il giudice costituzionale ha rilevato l’esistenza di un “perimetro ben individuato”, cioè quello della concorrenza, che tra l’altro rientra nelle materie appartenenti alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Per tali fondamentali motivi, la Corte ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Regione Veneto.

  1. Ruolo e natura del parere

Chiarita la portata della nozione di pubblica amministrazione e superati i dubbi di legittimità costituzionale, occorre ora soffermarsi su due rilevanti aspetti attinenti alla disposizione in esame: il ruolo e la natura del parere motivato che l’Autorità antitrust emana allorché riscontri una violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato nell’attività di una pubblica amministrazione. In tal caso questa emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, comprensivo delle violazioni riscontrate.

Nel caso in cui la pubblica amministrazione non si conformi nei sessanta giorni successivi alla ricezione del parere motivato oppure non faccia pervenire una risposta, l’Autorità può presentare ricorso tramite l’Avvocatura dello Stato nei successivi trenta giorni.

Numerose appaiono le questioni che necessitano chiarimenti.

In primo luogo, appare opportuno richiamare l’attenzione, data la sinteticità del dato letterale della disposizione, sull’esatta sequenza procedimentale che l’Antitrust è chiamata a seguire illustrando la relazione intercorrente tra il parere motivato e il ricorso, atti entrambi riservati all’Autorità.

In altre parole, il nodo da sciogliere è se l’Autorità Garante possa proporre ricorso subito dopo essere venuta a conoscenza di un atto amministrativo in contrasto con i principi concorrenziali, o se invece questo debba essere necessariamente preceduto dall’emanazione di un parere motivato nei confronti della pubblica amministrazione che avrebbe, secondo l’Antitrust, violato le disposizioni in tema di concorrenza.

A favore della prima tesi si sono schierati studiosi che ritengono fondata la diretta impugnabilità degli atti ingiustificatamente restrittivi provenienti dalle pubbliche amministrazioni, sulla base del tenore letterale della norma che, al comma primo, prevedrebbe la ricorribilità in via diretta ed al comma secondo introdurrebbe soltanto una alternativa di procedere[37].

Viceversa, a favore della seconda tesi si colloca la maggioranza della dottrina che, sebbene consapevole degli innegabili vantaggi derivanti dalla teoria dell’alternatività[38], sostiene la tesi dell’obbligatorietà del parere motivato[39].

Tale interpretazione, peraltro, appare meglio conciliarsi sia con il principio di leale collaborazione tra le amministrazioni – giacché l’ente, vedutosi recapitare il parere, potrebbe sottoporre all’attenzione dell’AGCM dati e informazioni a sostegno della propria posizione, di cui magari l’Autorità non era al corrente al momento dell’emanazione del parere[40]–, sia con il principio di economicità dei mezzi giuridici[41]: il parere infatti potrebbe sortire l’effetto sperato, e cioè svolgere quell’attività di moral suasion cui tutti i poteri di advocacy, ivi compreso quello di cui all’art. 21-bis, sono orientati, con l’effetto di convincere l’ente destinatario del parere a conformarsi alla posizione espressa dall’Autorità, senza che quest’ultima sia costretta a ricorrere al giudice amministrativo.

Anche la recente giurisprudenza amministrativa e costituzionale si è schierata a sostegno della tesi dell’obbligatorietà del parere motivato, confermando la necessarietà di tale parere prima della proposizione del ricorso giurisdizionale[42]55.

Invero, la decisione della Consulta nella richiamata sentenza n. 20/2013 ha sottolineato la natura bifasica del potere ex art. 21-bis articolato in una prima fase a carattere consultivo, rappresentata dalla comunicazione del parere motivato, e in una seconda fase, di impugnativa, distinta dalla precedente per il suo carattere eventuale ed esercitabile appunto nei soli casi in cui la pubblica amministrazione non si conformi o non faccia pervenire alcuna comunicazione all’Autorità.

Dal canto suo, la giurisprudenza amministrativa, nell’intento di ribadire che il parere motivato costituisce una vera e propria condizione di ammissibilità e di procedibilità del ricorso[43], ha affermato che una corretta interpretazione logico- sistematica della disposizione impone che il potere di impugnativa sia preceduto da una “fase pre-contenziosa, caratterizzata dall’emissione da parte dell’Autorità, di un parere motivato rivolto alla pubblica amministrazione[44].

Nella medesima pronuncia il Consiglio di Stato ha poi ritenuto che il parere svolge una duplice funzione: da un lato, mira a sollecitare la pubblica amministrazione a riconsiderare le proprie posizioni e a conformarsi al volere dell’Autorità, attraverso uno speciale esercizio del potere di autotutela, in modo che la tutela dell’interesse pubblico sia assicurata anzitutto all’interno della stessa pubblica amministrazione e restando il ricorso all’autorità giudiziaria amministrativa l’extrema ratio[45]; e, dall’altro, costituisce un valido strumento per la deflazione del contenzioso, onde evitare che due soggetti pubblici si rivolgano direttamente al giudice per la tutela di un interesse pubblico.

Molto inoltre si è dibattuto sulla natura giuridica del parere motivato previsto dall’art. 21-bis.

Invero, alcuni commentatori hanno sostenuto che il parere in esame si atteggi sostanzialmente a diffida[46].

Normalmente le diffide sono atti di cui si serve l’Autorità una volta rilevata una violazione in materia di intese restrittive o abuso di posizione dominante da parte di soggetti privati i quali, una volta ricevuta la diffida, hanno a disposizione un certo periodo di tempo, ivi specificato, per eliminare l’infrazione. Così come sorge un obbligo di conformazione alla diffida da parte dei soggetti privati, allo stesso modo sorgerebbe il medesimo obbligo in capo alle pubbliche amministrazioni destinatarie del parere-diffida dell’Autorità. In caso di mancata conformazione, le conseguenze consisteranno, nel caso, per così dire, tradizionale, nel potere di irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10% del fatturato; nel secondo caso, nel potere di proporre ricorso dinanzi al giudice amministrativo.

Secondo altri autori si è invece in presenza di un mero preavviso di ricorso, volto a “consentire all’amministrazione di modificare un provvedimento amministrativo che è già stato adottato[47].

  1. L’autotutela decisoria delle pubbliche amministrazioni destinatarie del parere motivato

Benchè l’art. 21-bis non ne contenga alcun riferimento, la configurabilità dell’esercizio del potere di autotutela della pubblica amministrazione, in forza del quale la stessa può revocare o annullare un provvedimento amministrativo già adottato, impone qualche ragionamento in più.

Infatti, ai fini dell’autotutela, la pubblica amministrazione destinataria del parere motivato dovrà non solo tener presente le sollecitazioni dell’Autorità, ma anche verificare se esistono o meno le condizioni previste dalla legge per l’esercizio del potere di annullamento dell’atto.

Tali valutazioni, guidate da un’esigenza di bilanciamento degli interessi pubblici, potranno condurre l’amministrazione pubblica in presenza dei requisiti legali a conformarsi, annullando d’ufficio l’atto adottato, oppure, nel caso di assenza dei requisiti, a non conformarsi.

Mentre il primo caso non desta particolari problemi interpretativi, il secondo è invece meritevole di un approfondimento.

Laddove la pubblica amministrazione non si conformi, resta ferma la possibilità dell’Autorità di agire in giudizio: a questo punto, vi è da chiedersi se il ricorso possa essere accolto, nonostante la mancanza dei requisiti di cui all’art. 21-nonies della legge n. 247 del 1990 per l’esercizio dell’autotutela, oppure se debba essere, per gli stessi motivi, respinto.

Autorevole dottrina ha affermato che “una volta accertato che non esistono i presupposti di legge per l’esercizio dell’autotutela decisoria, anche il potere di ricorso dell’AGCM dovrà arrestarsi a questo dato[48]: l’Autorità potrà dunque agire ma il giudice, qualora ritenga fondata la valutazione compiuta dalla pubblica amministrazione, dovrà rigettare il ricorso.

Un possibile esito alternativo si configura nel caso in cui, dopo la non conformazione della pubblica amministrazione, l’Autorità si trovi, a causa della carenza dei requisiti, a condividere le considerazioni dell’amministrazione e decidere di non proporre ricorso: potrebbe ben darsi che emergano nuovi elementi di fatto che inducano l’Autorità a modificare la propria opinione.

Una considerazione finale merita la circostanza che normalmente una sollecitazione esterna non determina la nascita in capo all’amministrazione pubblica dell’obbligo di provvedere. Ciò accade invece a seguito dell’invio del parere motivato che dell’Autorità che obbliga l’amministrazione ad avviare un procedimento amministrativo volto a verificare la sussistenza dei requisiti per l’esercizio dell’autotutela decisoria. A tal proposito di è parlato di circostanza inedita[49].

  1. Scansione temporale e natura del ricorso

Una seconda questione procedimentale da affrontare è quella relativa alla corretta scansione temporale delineata dal legislatore e oggetto, a più riprese, di pronunce amministrative.

Il comma secondo dell’art. 21-bis prevede che l’Autorità antitrust emetta un parere motivato entro il termine di sessanta giorni dal momento in cui è venuta a conoscenza dell’atto ritenuto violativo delle norme a tutela della concorrenza[50].

Specifica il TAR Veneto, sez. I, con la sentenza n. 737/2015[51] (ribadendo l’orientamento giurisprudenziale già abbracciato dal Consiglio di Stato[52]) che il termine di sessanta giorni assegnato all’Autorità inizia a decorrere solo dal ricevimento di una specifica comunicazione contenente gli elementi rilevanti dell’atto che dovrebbero formare oggetto del successivo parere: pertanto, solo da tale momento l’Autorità è nelle condizioni di esercitare la propria competenza, con la conseguenza che una volta decorso inutilmente in termine, il ricorso eventualmente proposto dall’Autorità deve essere dichiarato irricevibile.

Di contrario avviso è il TAR Lazio, che nella succitata sentenza n. 2720/2013 ha escluso che, qualora il parere sia stato emesso una volta decorso tale termine, l’Autorità decada dal potere di azione giurisdizionale.

Infatti, pur costituendo l’espletamento della fase pre-contenziosa una condizione per l’esercizio dell’azione giurisdizionale, l’assenza di una previsione normativa che assegni natura perentoria al termine di sessanta giorni non consente di ritenere che l’eventuale tardività del parere rispetto alla scadenza del termine previsto possa implicare la decadenza del potere di azione e la conseguente inammissibilità del ricorso giurisdizionale proposto direttamente avverso l’atto anticoncorrenziale.

Quindi, entro sessanta giorni dalla ricezione del parere, l’amministrazione deve conformarsi al parere motivato.

Nel caso di mancata conformazione o mancato riscontro entro i sessanta giorni, l’Autorità potrà presentare ricorso giurisdizionale entro i successivi trenta giorni.

Con riguardo al contenuto del ricorso, si noti che il comma primo della disposizione menziona non soltanto le norme a tutela della concorrenza, ma anche quelle a tutela del mercato. Dovrebbe, pertanto, ritenersi impugnabile qualsiasi provvedimento amministrativo che contrasti, direttamente o indirettamente, con l’esigenza di tutelare e promuovere la concorrenza[53].

Conseguentemente, possono ricompresi nel contenuto del ricorso sia la disciplina antitrust comunitaria di cui agli artt. 101 e 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, sia le violazioni denunciate nell’ambito di interventi di promozione della concorrenza di cui agli artt. 21 e 22 l. n. 287/1990[54].

  1. Grado di utilizzo ed efficacia

Nel corso del 2018 l’Autorità ha proseguito il lavoro di monitoraggio della propria attività di advocacy, avviato nel 2013, al fine di poter rilevare il livello di efficacia dei propri interventi di segnalazione e consultivi. Con riferimento ai soli pareri resi ai sensi all’art. 21-bis, sui 56 interventi (inclusi i pareri ex art. 21-bis TuSPP), il tasso di successo nel periodo considerato è stato del 48% (27 esiti positivi), da intendere nel senso che l’atto è stato modificato a seguito del parere reso dall’Autorità, a fronte di 38% di esiti negativi (21 casi), 14% non valutabili (8 casi). Tale dato è migliorato rispetto al monitoraggio del biennio precedente (2015-2016, in cui era 44%) e potrebbe ancora migliorare stante la pendenza dei giudizi in corso, per cui un esito definitivo potrà essere espresso soltanto una volta concluso il contenzioso.

Nel corso del 2018, l’Autorità ha effettuato 21 interventi ai sensi dell’art. 21-bis della l. 287/90. In particolare, in 8 casi di intervento ai sensi dell’art. 21-bis, a fronte dell’esito negativo del parere, l’Autorità ha deciso di impugnare l’atto amministrativo presso il Tar competente.
In generale, gli interventi di advocacy hanno riguardato, in prevalenza, leggi o atti amministrativi relativi al settore dei servizi turistici (13 casi) e al comparto dei servizi pubblici, con particolare riferimento ai servizi di trasporto (9 casi), di gestione dei rifiuti (6 casi), dei servizi energetici (5 casi), delle telecomunicazioni (5 casi) e dei servizi postali (4 casi)[55].

Conclusioni

L’attività di competition advocacy, ancorché di notevole significato e rilevanza all’interno del nostro ordinamento, non sembra aver avuto il risalto che merita nel complessivo dibattito dottrinale sulle tematiche antitrust, dibattito che risulta preferibilmente orientato all’analisi dei poteri di enforcement ed alla verifica della loro efficacia nell’economia dei mercati.

Sul rapporto tra enforcement e advocacy, definiti due ruoli complementari[56] dell’Autorità Garante, è stato autorevolmente affermato che “advocacy grants the context for the interactions between players, while enforcement focuses more on the interactions themselves. As it is easy to understand, the context provided by the advocacy is essential for the interactions to happen in a pro-competitive way[57].

Eppure, l’advocacy caratterizza l’attività dell’Autorità Garante al pari di quella volta all’accertamento e alla repressione delle violazioni della libera concorrenza, ed anzi negli ultimi anni essa ha avuto un ruolo determinante nel dar vita ad un mutamento strategico dei modelli operativi dell’Autorità antitrust, la quale ha ampliato la propria attività prognostica realizzando quello che è stato definito “il salto verso una dimensione strategica[58].

I poteri di advocacy operano in tale importante direzione non soltanto perché sono integrati da particolari tipologie di intervento in grado di inserirsi nei processi decisionali, in maniera da poter indirizzare o correggere le scelte regolatorie, ma anche perché mirano a promuovere la cd. cultura della concorrenza, accrescendo nella communis opinio l’idea che la libera concorrenza rappresenti in primo luogo un valore da proteggere e preservare ed in secondo luogo uno strumento essenziale per la crescita dell’economia e del benessere dei consumatori.

Tra i poteri di advocacy, quello di gran lunga più incisivo e di maggior impatto sulle regolazioni è sicuramente il potere di legittimazione ad agire dell’Autorità previsto e disciplinato dall’art. 21-bis l. 287/1990, norma a sua volta introdotta dal decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, cd. Salva Italia.

Seppur accolta da una minoranza della dottrina con sospetto, la scelta di introdurre nel nostro ordinamento la legittimazione a ricorrere dell’Autorità antitrust (come anche, più in generale, l’insieme delle prerogative da ricondursi all’interno del più ampio contesto della competition advocacy), muove dalla consapevolezza che la concorrenza non è solo ostacolata dalle pratiche commerciali poste in essere da soggetti privati che operano all’interno di uno specifico settore di mercato, ma anche – e questo è il rilievo che interessa ai fini del presente lavoro – da interventi regolatori del pubblico.

Se infatti è vero che in alcuni casi le regolazioni pubbliche sono necessarie e giustificate da esigenze di ordine generale, in altri è parimenti fondato ritenere che queste possono andare oltre lo stretto necessario, finanche impedendo la concorrenza in determinati settori.

Invero, non solo sovente si assiste ad una sovrabbondanza di regolazioni tanto che qualcuno ha sostenuto la dannosità di un’eccessiva regolazione, ma anche alla frequente introduzione nel contesto normativo di regolazioni fortemente limitative della libertà di concorrenza, di cui il soggetto pubblico non sempre è consapevole.

Mentre gli illeciti concorrenziali compiuti da privati sono maggiormente visibili e soggetti all’attività di enforcement, l’intervento regolatorio del pubblico, anche se adottato per effetto di una pressione derivante da determinate categorie di individui, è perfettamente lecito – sebbene, se sovrabbondante, dannoso – e per questo motivo è ancora più difficoltoso contenerne l’effetto.

Alla luce di quanto illustrato finora, risulterà senz’altro comprensibile l’esigenza di una saggia implementazione della competition advocacy negli ordinamenti giuridici e gli enormi e palpabili benefici che un uso sapiente e costante di tale attività può apportare a lungo termine.

[1] L’International Competition Network, o ICN, è nato il 25 ottobre 2001 dalla volontà di quattordici giurisdizioni, tra cui quella italiana, ed è dedicato esclusivamente al diritto della concorrenza. Mediante tale organismo internazionale, le autorità nazionali e sovranazionali di concorrenza intrattengono un dialogo attivo e dinamico sulle tematiche concorrenziali cercando di favorire una effettiva cooperazione internazionale a vantaggio dell’economa mondiale e dei consumatori. Giova puntualizzare che l’ICN non esercita alcuna funzione di rule making, limitando il proprio operato all’organizzazione di conferenze annuali, laboratori e progetti di gruppo, oltre all’elaborazione di dati statistici da commentare, onde garantire alle autorità l’opportunità di discutere sui delicati aspetti concorrenziali. Quando una determinata pratica concorrenziale raggiunge il consenso in seno all’ICN, le singole autorità di concorrenza decidono se realizzarla o meno anche attraverso l’ausilio di accordi unilaterali, bilaterali o multilaterali.

[2] ICN, Advocacy and Competition Policy, Naples, 2002, p. 24

[3] M. D’Alberti, I poteri di advocacy delle Autorità di concorrenza in prospettiva comparata, in Concorrenza e Mercato. Antitrust, Regulation, Consumer Welfare, Intellectual Property, Giuffrè Editore, 2013, p. 872

[4] ICN, Advocacy and Competition Policy, op. cit., p. X

[5] È emblematico il caso del Pakistan, dotato da prima del 1970 di una legislazione in tema di concorrenza che aveva però introdotto diversi monopoli e restrizioni alla concorrenza. Solo nell’ottobre del 2007 è stata emanata una legislazione pro-concorrenziale che sottolinea la fondamentale importanza anche dell’advocacy nell’attività di incrementare la cultura della concorrenza e nell’abbattere le restrizioni della regolazione pubblica. Sul punto, J. Wilson, Competition Advocacy as a Tool for Promoting Competition Culture and Combating Public Restraint: The Case of Pakistan, in Competition Policy International Journal, 2014

[6] Oggetto di intervento dell’Autorità sono stati provvedimenti normativi, statali e regionali, approvati o in corso di approvazione, decreti-legge in attesa di conversione, atti normativi, proposto o approvati.

[7] M. D’Alberti, I poteri di advocacy delle Autorità di concorrenza in prospettiva comparata, op. cit., p. 872

[8] Sul punto, G. Fonderico, Le segnalazioni dell’Autorità antitrust e la politica della concorrenza, in Giornale di diritto amministrativo, 2009, n. 1, p. 84 e P. Troianiello, L’efficacia dei provvedimenti di competition advocacy dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nell’ambite della cooperazione di cui al Regolamento (CE) n. 1/2003, in Diritto Comunitario e degli Scambi Internazionali, 2013, n. 3, p. 497

[9] F. Dell’Aversana, Nota alla segnalazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sulle recenti proposte di legge in materia di concorrenza e liberalizzazioni, in Osservatoriosullefonti.it, 2012, n. 2, p. 3

[10] Per una classificazione sistematica degli interventi dell’Autorità si veda P.L. Parcu, Stato e concorrenza. L’attività di segnalazione dell’Autorità Antitrust: contenuti, efficacia e prospettive, in collana Temi e Problemi a cura di AGCM, dicembre 1995, n. 4, p. 12 ss.

[11] Ibidem

[12] C. Rabitti Bedogni, Introduzione alla legge 287/90, in A. Catricalà, P. Troiano (a cura di), Codice commentato della concorrenza e del mercato, Torino, UTET, 2010

[13] Ex multis, G. Pitruzzella, Saluti introduttivi, Atti del Convegno I nuovi poteri di advocacy dell’Autorità Antitrust: un primo bilancio, AGCM, Roma, 10 dicembre 2015

[14] Sul punto A. Lalli in La valutazione della regolazione distorsiva del mercato: profili amministrativi e giurisdizionali, in Diritto Amministrativo, 2006, p. 641, ha osservato che “grazie a tali poteri, infatti, l’Autorità viene a costituire un interlocutore fondamentale della politica e delle regolazione pro-concorrenziale de iure condito e de iure condendo”.

[15] Sul punto, si veda A. Argentati, Concorrenza e liberalizzazioni: i nuovi poteri dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in Rivista trimestrale di diritto dell’economia, 2012, n. 1, p. 20 e Idem, La giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di “tutela della concorrenza” a dieci anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione, in collana Studi e Ricerche a cura di AGCM, Roma, 2011, p. 14

[16] A. Argentati, Concorrenza e liberalizzazioni: i nuovi poteri dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, op. cit., p. 20

[17] F. Munari, Poteri di segnalazione, legge per la concorrenza, dialogo fra Autorità Garante e Istituzioni, in C. Rabitti Bedogni, P. Barucci (a cura di), 20 anni di antitrust. L’evoluzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Torino, Giappichelli Editore, 2010, p. 268

[18] Ibidem, p. 295 e ss.

[19] Ibidem, p. 296

[20] Tra i suoi compiti rientrano anche la definizione dei livelli di qualità dei servizi di trasporto e dei contenuti minimi dei diritti che gli utenti possono rivendicare nei confronti dei gestori. L’Autorità riferisce annualmente alle Camere evidenziando lo stato della disciplina di liberalizzazione adottata e la parte ancora da definire.

[21] A. Argentati, R. Coco, Succes Rates of Competition Advocacy by Italian Competition Authority: Analysis and Perspectives, in Italian Antitrust Review, 2016, n. 1, p. 116

[22] Si veda a tal proposito R. Giovagnoli, Ricadute processuali a fronte dell’esercizio dei nuovi poteri rimessi all’AGCM ex art. 21-bis della legge 287/1990. Legittimazione al ricorso ed individuazione dell’interesse alla sollecitazione del sindacato, Atti del Convegno Atti amministrativi e tutela della concorrenza. Il potere di legittimazione a ricorrere dell’AGCM nell’art. 21-bis legge 287/1990, Università degli Studi di Milano, Milano, 27 settembre 2012, p. 6

[23] Ex multis, M. Carpagnano, Gli effetti dell’attività di advocacy sulla regolazione pro- concorrenziale dei mercati, Atti del Convegno I nuovi poteri di advocacy dell’Autorità Antitrust: un primo bilancio, AGCM, Roma, 10 dicembre 2015

[24] A. Argentati, Concorrenza e liberalizzazioni: i nuovi poteri dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, op. cit., p. 34.

[25] Ibidem

[26] M.A. Sandulli, Introduzione a un dibattito sul nuovo potere di legittimazione al ricorso dell’AGCM nell’art. 21bis l. n. 287/1990, in Rivista di diritto pubblico italiano, comparato, europeo, 2012, n. 12, p. 17.

[27] A. Heimler, L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e i decreti del Governo Monti, in Mercato Concorrenza Regole, Il Mulino, 2012, n. 2, p. 371.

[28] Ibidem, p. 372

[29] Ex multis, B.G. Mattarella, L’art. 21-bis della legge n .287 del 1990, Atti del Convegno I nuovi poteri di advocacy dell’Autorità Antitrust: un primo bilancio, AGCM, Roma, 10 dicembre 2015

[30] Ex multis, M.A. Sandulli, Introduzione a un dibattito sul nuovo potere di legittimazione al ricorso dell’AGCM nell’art. 21bis l. n. 287/1990, op. cit., pp. 8 ss.; Idem, Il problema della legittimazione a ricorrere in giudizio delle autorità indipendenti, Atti del Convegno Le autorità amministrative indipendenti. Bilancio e prospettive di un modello di vigilanza e regolazione dei mercati, Palazzo Spada, Roma, 28 febbraio 2013.

[31] R. Giovagnoli, Ricadute processuali a fronte dell’esercizio dei nuovi poteri rimessi all’AGCM ex art. 21-bis della legge 287/1990. Legittimazione al ricorso ed individuazione dell’interesse alla sollecitazione del sindacato, op. cit., p. 3.

[32] A. Schettino, Osservazioni sugli interventi del legislatore dell’emergenza in merito all’attività dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in Concorrenza e Mercato. Antitrust, regulation, consumer welfare, intellectual property, Giuffrè Editore, 2013, p. 476.

[33] F. Cintioli, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e sulla legittimazione a ricorrere della autorità indipendenti, in Concorrenza e

Mercato. Antitrust, regulation, consumer welfare, intellectual property, Giuffrè Editore, 2013, p. 119

[34] Ibidem

[35] A. Schettino, La tutela effettiva della concorrenza nell’azione pubblica: il potenziamento dell’attività di advocacy, in Il Diritto dell’Unione Europea, Giappichelli, 2014, n. 3, p. 528

[36] Il giudizio confluito nella sentenza vede contrapposta l’Autorità Garante ricorrente al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e al Ministero dello Sviluppo Economico ed ha ad oggetto l’annullamento di una serie di provvedimenti violativi dei principi in materia di concorrenza, di libera circolazione delle imprese, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi.

[37] Così M. A. Sandulli “La lettura testuale della disposizione e la perfetta coincidenza oggettiva con il precedente comma 1 non sembrano a mio avviso lasciare spazio ad un ricorso preceduto da un parere. Considerato che peraltro il legislatore non fissa alcun termine per l’espressione del parere, il modello rischia di contraddire all’esigenza di immediatezza della tutela avverso gli atti lesivi della concorrenza” in Il problema della legittimazione ad agire in giudizio da parte delle autorità indipendenti, op. cit. Dello stesso avviso M. Libertini, I nuovi poteri dell’Autorità Antitrust (art. 35, D.L. 201/2011), in Rivista di diritto pubblico italiano, comunitario, comparato, 2011, n. 24, p. 2.

[38] Così A. Argentati “la possibilità di ricorrere alternativamente all’impugnativa immediata dell’atto asseritamente illegittimo ovvero all’emissione di un parere motivato, arricchendo le modalità di azione dell’Autorità, consentirebbe certamente ad essa di agire con la flessibilità richiesta dalla peculiarità delle singole situazioni. Può risultare in alcuni casi proficuo, infatti, avviare un dialogo con l’amministrazione rinviando ad un momento successivo l’eventuale ricorso al giudice”, in Concorrenza e liberalizzazioni: i nuovi poteri dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, op. cit., p. 38.

[39] Ex multis, F. Cintioli, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e sulla legittimazione a ricorrere delle autorità indipendenti, op. cit., pp. 115 ss. e M. Clarich, I poteri di impugnativa dell’AGCM ai sensi del nuovo art. 21bis della l. n. 287/1990, in Concorrenza e Mercato. Antitrust, regulation, consumer welfare, intellectual property, Giuffrè Editore, 2013, pp. 867 ss.

[40] Sul rapporto che si configura tra l’Autorità Garante e le pubbliche amministrazioni destinatarie del parere ai sensi dell’art. 21- bis l. n. 287/1990, è stato condivisibilmente osservato che questo opera “as confrontation field between public administrations, as not all of them conform to the Authority’s opinion and hold on their positions, giving detailed reasons as to how their acts do not restrain competition”. Così M. Carpagnano, The Effects of Competition Advocacy on the Pro-Competitive Regulation of the Market, op. cit., p. 111.

[41] M. Libertini, I nuovi poteri dell’Autorità Antitrust (art. 35, D.L. 201/2011), op. cit., p. 2

[42] Nell’ambito di tale teoria, il parere è stato autorevolmente considerato “as a necessary precursor to instituting a legal case of action, and for the court allowing it to proceed”. Sul punto, A. D’Anna e G. Carovano, Article 21-bis of Law np. 287/1990: An analysis of Recent Administrative Case Law, in Italian Antitrust Review, 2016, n. 2, p. 84.

[43] TAR Lazio, sez. II, sent. 6 marzo 2013, n. 4451, AGCM c. Roma Capitale.

[44] Consiglio di Stato, sez. V, sent. 30 aprile 2014, n. 2246, AGCM c. Roma Capitale.

[45] AGCM, Relazione annuale sull’attività svolta nel 2014, 31 marzo 2015.

[46] Sulla natura di diffida del parere, si veda M. Clarich, I poteri di impugnativa dell’AGCM ai sensi del nuovo art. 21bis della l. n. 287/1990, op. cit., p. 868 e B.G. Mattarella, L’art. 21bis della legge n. 287 del 1990, op. cit.

[47] F. Cintioli, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e sulla legittimazione a ricorrere delle autorità indipendenti, op. cit., p. 138.

[48] Ibidem, p. 116.

[49] Ibidem, p. 117.

[50] È interessante notare che autorevole dottrina, configurando come obbligatoria l’emissione del parere motivato, sottrae discrezionalità all’agire dell’Autorità. Di conseguenza quando la stessa riterrà sussistente la violazione, non potrà far altro che emanare il parere. Sul punto si veda F. Cintioli, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e sulla legittimazione a ricorrere delle autorità indipendenti, op. cit., p. 118

[51] Giova segnalare che tale pronuncia deriva da una impugnazione disposta dall’Autorità Garante a seguito della mancata ottemperanza del Comune di Venezia al parere motivato ex art. 21-bis (AS1138) avverso il diniego da parte dell’ente comunale dell’autorizzazione per il servizio di trasporto commerciale di navigazione destinata al trasporto turistico dei passeggeri su via navigabile, richiesto dalla società Venezia City Sightseeing S.r.l.

[52] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 19 marzo 2015, n. 1171.

[53] Così A. Argentati, Concorrenza e liberalizzazioni: i nuovi poteri dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, op. cit., p. 36

[54] A. Schettino, Osservazioni sugli interventi del legislatore dell’emergenza in merito all’attività dell’Autorità Garante della Concorrenza e del mercato, op. cit., p. 476.

[55] Con riguardo ai dati e alle statistiche relative al tasso di utilizzo e di efficacia del potere di impugnativa, oltre che degli altri poteri di advocacy, concernenti l’annualità relativa al 2018, si veda Relazione sull’attività svolta nel 2018 Capitolo II – Attività di tutela e promozione della concorrenza, pagg. 65 ss.

[56] S. Rebecchini, Competition Advocacy: the Italian Experience, in Italian Antitrust Review, 2014, n. 2, p. 14

[57] M. Carpagnano, The Effects of Competition Advocacy on The Pro-Competitive Regulation of the Markets, in Italian Antitrust Review, 2016, n. 1, p. 110

[58] C. Rabitti Bedogni, L’autorità garante nell’ultimo triennio fra crisi economica e nuovi poteri, in C. Rabitti Bedogni, P. Barucci (a cura di), 20 anni di antitrust. L’evoluzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Torino, Giappichelli Editore, 2010, p. 163

 

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