Cass. civ. Sez. II, 25/05/2012, n. 8352

La diseredazione meramente negativa

Massima e Nota a cura della dott.ssa Maria Maltese

MASSIMA

L’art. 587, primo comma, cod. civ., dispone che il negozio di ultima volontà ha la funzione di consentire al testatore di disporre di tutte le proprie sostanze, o di parte di esse, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, questa funzione si esplica anche attraverso la dichiarazione di una volontà meramente negativa, ablativa o destitutiva, la possibilità per il testatore di diseredare un erede legittimo è espressione della sua libertà e sovranità.

La disposizione con la quale il testatore escluda alcuno dalla propria successione è valida anche se non accompagnata da altra disposizione attributiva o istitutiva.

NOTA

La diseredazione è la clausola, contenuta in un negozio mortis causa, con la quale il testatore esclude alcuno dalla propria successione.

Il codice vigente, così come il codice civile del 1865, non disciplinano l’istituto in parola, questo non ha impedito il sorgere di questioni, che hanno animato il dibattito.

In primo luogo quanto all’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto. Non ha senso porsi il problema per quanto riguarda la diseredazione di estranei, in quanto la loro inclusione tra i successibili è frutto della sola volontà del testatore.

Il problema allo stato non sembra porsi nemmeno per i legittimari (anche se più avanti vedremo che non è così pacifico questo assunto), poiché, una disposizione siffatta, contrastando con i princìpi fondamentali del diritto positivo non è consentita al testatore, tanto da essere sanzionata con la radicale nullità.

L’ambito applicativo in parola va dunque soggettivamente circoscritto rispetto ai soli eredi legittimi, coloro ai quali la legge devolve, in mancanza di diversa volontà del testatore, l’eredità.

Chiarito l’ambito soggettivo di applicazione (anche se ci torneremo alla fine di questa riflessione), va chiarito in quale misura sia compatibile la disposizione negativa con i principi dell’ordinamento.

Secondo un parte della dottrina non è ammissibile una disposizione con la quale si escluda alcuno, seppur non legittimario, dalla propria successione (CICU, FERRI, ANDREOLI, CARIOTA-FERRARA), il testatore avrebbe il potere sì, di disporre liberamente dei suoi beni quando non lascia legittimari e può quindi escludere le persone designate dalla legge, ma lo strumento tecnico che l’ordinamento prevede e gli consente di adoperare perché egli possa raggiungere questo risultato è la disposizione positiva di tutti i suoi beni o di parte di essi, non essendo sufficiente la mera disposizione negativa, o, forse meglio, sotto l’aspetto tecnico, la designazione negativa, l’esclusione, la diseredazione  di un successibile per legge.

Secondo altra parte della dottrina, invece, la diseredazione è disposizione ben ammissibile nel nostro ordinamento (TORRENTE), Come il testatore può disporre di tutto o in parte dei suoi beni escludendo così in tutto o in parte i successori legittimi (disposizione positiva dei suoi beni) così egli, esercitando il suo potere di autonomia, potrebbe escludere con un’espressa ed apposita dichiarazione uno o più dei suoi congiunti ai quali la successione sarebbe devoluta per legge (disposizione negativa).

Con qualche differenza di posizione, la validità della predetta clausola è subordinata alla presenza disposizioni positive e attributive, anche solo implicite (MESSINEO) (in giurisprudenza si veda Cass. Civ. n. 1217 del 1995, n. 1458 del 1967).

Secondo altra parte della dottrina un testamento a contenuto solo negativo sarebbe ben ammissibile (BIGLIAZZI GERI, DELLE MONACHE, SCHLESINGER), stante il principio di libertà di disporre dei propri beni, che si manifesti anche nel non voler disporre in favore di persone determinate.

La sentenza in commento per la prima volta riconosce la validità di un testamento olografo nel quale sia contenuta una disposizione meramente negativa, respingendo tutte le avverse tesi.

In particolare si respinge la tesi della implicita e contestuale volontà attributiva, rilevando la intrinseca contraddizione, tra una esplicita disposizione meramente negativa e la diretta e immediata (ma implicita) volontà attributiva del testatore.

La sentenza in parola offre, al di là della novità precettiva sopra esposta, lo spunto per affrontare il diverso problema, annunciato sopra, della ammissibilità di una disposizione che in via diretta ed immediata escluda un legittimario dalla successione.

L’argomento è da tempo sotto l’osservazione della dottrina, non soddisfa e non convince più la tesi di una disposizione con la quale si diseredi un legittimario.

La crisi della dogmatica giuridica ed il diverso modo di concepire la posizione dei legittimari, e la legittima oggi impongono una riflessione in questo senso.

Sembra, infatti che la comminatoria della nullità dipenda più dalla concezione paternalistica del diritto successorio e dal preconcetto, sempre meno solido, della sacralità della legittima.

Il legislatore non consente la via immediata della reintegra ma quella mediata dall’azione giudiziaria.

La lesione delle ragioni del legittimario viene tutelata con l’azione di riduzione, azione di impugnativa negoziale (la lesione ovvero la pretermissione del legittimario non violano alcuna norma di validità), che si prescrive nel termine decennale ordinario.

Il legittimario pretermesso, si osserva, non è neppure erede. Sicché, quando agisce con l’azione di riduzione, chiede che venga accertata la sua qualità di erede e, in forza di quella, che gli vengano attribuiti beni ereditari in misura sufficiente a integrare o costituire la sua quota di riserva.

Ancora, egli non è erede anche quando, nel rispetto dell’ordinamento, gli venga attribuito un legato in sostituzione di legittima (che ha sempre natura di attribuzione particolare e non universale).

Pertanto tecnicamente sembra essere più corretta la tesi per la quale la diseredazione del legittimario non sia nulla, ma valida ed efficace, salva la possibilità, per il legittimario diseredato di agire con l’azione di riduzione (BARBA, DI FABIO).

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 25 maggio 2012, n. 8352

(Pres. Triola – Rel. Petitti)

Svolgimento del processo

Il (OMISSIS) decedeva in XXXXXXX I.S., la quale aveva disposto in vita con testamento olografo del 5 giugno 1977, del seguente testuale tenore: “Io sottoscritta S.I. scrivo le mie volontà sana di mente. Escluso da ogni mio avere i miei cugini E.G. fu A. – C.E. fu D. – C.P. fu D. Nella tomba con i miei altrimenti compramene una”.

Il testamento veniva pubblicato il 4 maggio 1982 e in data 18 dicembre 1982 veniva presentata denuncia di successione recante l’indicazione dei successori, in virtù del testamento, nelle persone di C.D. e Ci.Pa., altri cugini della de cuius. Deceduto Ci.Pa. gli succedevano la moglie Bo.Gi. e le figlie Ci.Ca. e A.

E.G. conveniva allora in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Savona, C.D. nonché le eredi di Ci.Pa., per sentir dichiarare la nullità della clausola di diseredazione contenuta nel testamento di S.I., e per sentir conseguentemente dichiarare che essa attrice era coerede legittima della de cuius ed aveva quindi diritto alla devoluzione pro quota dell’eredità.

Si costituivano C.D., Bo.Gi. , Ci.Ca. e An. chiedendo il rigetto della domanda.

All’esito del giudizio, nel quale interveniva anche C.E. associandosi alla domanda dell’attrice, l’adito Tribunale respingeva la domanda dell’E. e dell’intervenuto.

Avverso questa sentenza proponeva appello B.A., erede di E.G., a sua volta deceduta.

Con sentenza depositata il 7 novembre 2000, la Corte d’appello di Genova dichiarava che B.A. , erede di E.G., era erede pro quota, per rappresentazione, di S.I. , e titolare della quota di legge dei beni caduti in successione, disponendo che l’eredità della S. fosse a lui devoluta per la sua quota di legge.

Proponevano ricorso per cassazione C.S., Ci.Ca., Ca.Pi., Ca.Ma. e ca.pi.; il B. resisteva al ricorso e proponeva a sua volta ricorso incidentale.

La Corte di cassazione, con sentenza n. 8489 del 2004, rilevava la non integrità del contraddittorio nel giudizio di appello, non essendo stato chiamato a parteciparvi C.E., e cassava conseguentemente la sentenza impugnata.

B.A. riassumeva la causa convenendo in giudizio C.S., Ci.Ca., Ca.Pi., Ca.Ma. e ca.pi., in proprio e quali eredi di C.E., per sentir dichiarare la nullità della clausola di diseredazione.

Si costituivano Ci.Ca., Ca.Pi., Ca.Ma. e ca.pi., nonché C.S.

La Corte d’appello di Genova, dopo aver disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di C.S., C.L., V.C., C.G. e C.C., quali potenziali aventi diritto alla successione di C.E., con sentenza depositata il 12 marzo 2007, ha accolto l’appello e ha dichiarato la nullità della clausola del testamento olografo di S.I. del 5 giugno 1977, con la quale era stata esclusa dalla successione E.G., erede legittima, alla quale, in quanto erede legittima, è stata devoluta pro quota l’eredità morendo dismessa da S.I.; ha altresì dichiarato B.A., in qualità di erede di E.G., partecipe della comunione ereditaria istituitasi a seguito della successone della suddetta S.I. e come tale contitolare per la quota di sua competenza della proprietà dei beni mobili e immobili caduti in successione.

La Corte d’appello ha rilevato che l’art. 587 cod. civ. stabilisce che il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse, e che le disposizioni di carattere non patrimoniale che la legge consente siano contenute in un testamento hanno efficacia se contenute in un atto che ha la forma di testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale.

Ha quindi condiviso quanto affermato nella giurisprudenza di legittimità circa la necessità che una clausola di tipo negativo, quale quella di diseredazione, sia accompagnata, perché possa predicarsene la validità, da disposizioni di carattere positivo, ancorché implicite, volte ad attribuire beni ereditari ad altri soggetti. Ha poi preso in esame il testo del testamento e ha escluso che la disposizione testamentaria potesse essere intesa come implicitamente affermativa di una volontà di attribuzione dei beni ad altri soggetti.

La Corte d’appello ha anche ritenuto che il Tribunale avesse errato ad affermare il diritto del B. per rappresentazione, trattandosi di attribuzione eccedente la previsione di cui all’art. 468 cod. civ., a norma del quale la rappresentazione ha luogo, nella linea retta, a favore dei discendenti dei figli naturali del defunto e, nella linea collaterale, a favore dei discendenti dei fratelli e delle sorelle del defunto; in proposito, la Corte d’appello ha rilevato che nelle menzionate categorie non poteva rientrare E.G., in quanto cugina di S.I., dalla cui eredità era stata esclusa.

Da ultimo, la Corte d’appello ha limitato la declaratoria di nullità nei confronti del solo B.A., osservando che i successori di C.E., altro diseredato già interveniente volontario, non si erano avvalsi della facoltà di impugnare la decisione del Tribunale, per loro passata in giudicato.

Per la cassazione di questa sentenza hanno proposto ricorso C.S., Ca.Ci., Pi.Ca., C.M., pi.ca. sulla base di due motivi; ha resistito B.A. , il quale ha altresì proposto ricorso incidentale affidato ad un motivo; i ricorrenti principali hanno resistito al ricorso incidentale con controricorso; non hanno svolto attività difensiva gli intimati L.C., V.C., G.C., C.C.

Entrambe le parti hanno depositato memoria in prossimità dell’udienza.

Motivi della decisione

1. Deve essere preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi, avendo gli stessi ad oggetto la medesima decisione (art. 335 cod. proc. civ.).

2. Con il primo motivo del ricorso, i ricorrenti principali deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 647 e 1362 cod. civ. e, in generale, delle norme che disciplinano la interpretazione del testamento; insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

I ricorrenti sostengono che la Corte d’appello avrebbe errato nell’escludere che nella scheda testamentaria oggetto di interpretazione fosse rinvenibile, utilizzando tutti i criteri ermeneutici volti a valorizzare la volontà della testatrice, una disposizione di carattere patrimoniale. In particolare, alla disposizione concernente la sepoltura, la quale imponeva un obbligo, a carico di taluni soggetti, di acquistare un bene, si sarebbe dovuto riconoscere non solo carattere patrimoniale, ma addirittura il valore di vera e propria istituzione di erede.

Inoltre, sostengono i ricorrenti, la Corte d’appello avrebbe errato nel non considerare unitariamente la manifestazione della volontà di diseredare alcuni successibili e quella di imporre un onere a carico di persone non determinate, in quanto solo una interpretazione complessiva avrebbe consentito di attribuire alla seconda un senso preciso, così come avendo riguardo alla seconda, dalla clausola di diseredazione, apparentemente negativa, si sarebbe agevolmente potuto ricavare un contenuto positivo.

La motivazione della sentenza impugnata sarebbe poi contraddittoria, o quanto meno insufficiente, in quanto la Corte d’appello, da un lato, ha ritenuto ammissibile la diseredazione negativa ove dal contesto dell’atto emerga una positiva volontà attributiva del de cuius e, dall’altro, ha invece ritenuto la richiamata disposizione modale irrilevante al fine di interpretare la clausola di diseredazione.

A conclusione del motivo, i ricorrenti formulano i seguenti quesiti di diritto: “dica l’Ecc.ma Corte se incorre in violazione degli artt. 647 e 1362 ss. cod. civ., o comunque delle norme che disciplinano l’interpretazione del testamento, il Giudice di appello che qualifichi come non patrimoniale la disposizione modale che preveda un sacrificio economico a carico degli onerati; dica, ancora, l’Ecc.ma Corte se incorre in violazione degli artt. 1362 ss. cod. civ., o comunque delle norme che disciplinano l’interpretazione del testamento, il Giudice di appello che, reputando non chiara la volontà testamentaria, ometta di ricorrere ad elementi, ulteriori rispetto al significato letterale delle parole usate dal testatore, i quali, anche attraverso la valutazione complessiva delle clausole contenute nella scheda testamentaria, consentano di fugare i dubbi interpretativi e di conservare efficacia a ciascuna di esse”.

2.1. Con il secondo motivo, proposto in via subordinata, i ricorrenti principali denunciano, ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 587 e 588 cod. civ., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

La censura si riferisce alla affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui la clausola di diseredazione contenuta nel testamento della signora I..S. sarebbe invalida, perché la scheda testamentaria non conteneva anche disposizioni positive. I ricorrenti rilevano che mediante la clausola di diseredazione il testatore provvede a regolare i rapporti patrimoniali per il tempo successivo alla propria morte, favorendo, fra i successibili legittimi, quelli non esclusi con la diseredazione. Quest’ultima, pertanto, mirando, mediante l’esclusione di uno o più successibili legittimi, ad ampliare il beneficio degli altri, sarebbe di per sé una disposizione – implicitamente – positiva. In ogni caso, osservano i ricorrenti, l’art. 587 cod. civ., nel definire il testamento come l’atto con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse, non escluderebbe affatto che la libertà di disporre delle proprie sostanze riconosciuta al testatore, possa manifestarsi anche in un “non volere disporre” di esse in favore di uno o più soggetti determinati. La decisione relativa alla mancata attribuzione equivarrebbe, quindi, non già all’assenza di una idonea manifestazione di volontà, bensì alla manifestazione di una ben precisa volontà. Il giudizio di invalidità della clausola di mera diseredazione postulerebbe quindi che alla espressione “dispone”, contenuta nell’art. 587 cod. civ., si assegni il significato di “attribuisce”; ma, rilevano i ricorrenti, le due espressioni hanno invece significati diversi, collocandosi in un rapporto di genere a specie, nel senso che “è atto di disposizione dei propri beni, infatti, tanto l’attribuzione di essi, quanto la dichiarazione di non volerli attribuire a determinati soggetti”.

In sostanza, sostengono i ricorrenti, l’art. 588 cod. civ., da un lato, non esaurisce le ipotesi in cui il legislatore prevede e disciplina l’attività dispositiva; dall’altro, non esclude che altre disposizioni – quali quelle non attributive – siano tutelate dall’ordinamento, purché, nel realizzare la funzione testamentaria di produrre effetti successori, non contrastino con l’ordine pubblico; contrasto che deve escludersi nel caso in cui siano rispettati i diritti dei legittimari.

A conclusione del motivo, i ricorrenti, oltre a specificare il vizio di motivazione denunciato, formulano il seguente quesito di diritto: “dica l’Ecc.ma Corte se incorre in violazione degli artt. 587 e 588 cod. civ. il Giudice del merito che qualifichi come invalida la clausola mediante la quale il testatore stabilisca di escludere dalla successione uno o più successibili legittimi”.

3. Con l’unico motivo del proprio ricorso, il ricorrente incidentale denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 457, 467 e 468 cod. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda volta a sentir dichiarare il suo diritto a succedere ad E.G. per rappresentazione.

A conclusione del motivo, il ricorrente incidentale propone i seguenti quesiti di diritto: “se sono da condividere e da applicare alla fattispecie de quo i seguenti principi, affermati dalla S.C.: 1) La diseredazione al pari dell’indegnità a succedere, non esclude la operatività della rappresentazione in favore dei discendenti del rappresentato. La diseredazione ha effetti solo nei confronti del soggetto nei cui confronti è effettuata, e pertanto, non esclude che il discendente legittimo di chi sia stato diseredato dal testatore possa succedere a quest’ultimo per rappresentazione (Cass. civ., sez. II, 23.11.1982, n. 6339). 2) La diseredazione, al pari dell’indegnità a succedere, non esclude l’operatività della rappresentazione a favore dei discendenti del diseredato (Cass. civ., sez. II 14.12.1996, n. 11195)”.

4. Il Collegio ritiene che il secondo motivo del ricorso principale, ancorché prospettato dai ricorrenti come subordinato al rigetto del primo, debba essere esaminato in via prioritaria, non solo per ragioni di ordine logico, ma perché dal suo accoglimento, a differenza di quanto potrebbe verificarsi con l’accoglimento del primo motivo, discende la possibilità di definizione del giudizio nel merito. L’accoglimento del primo motivo, infatti, postulando in entrambe le sue articolazioni l’accertamento di un vizio nella interpretazione del testamento, comporterebbe il rinvio della causa al giudice di appello, non potendo questa Corte sostituire la propria interpretazione a quella del giudice di merito.

Al contrario, l’accoglimento del secondo motivo, inerendo ad un vizio di violazione di legge, potrebbe dare luogo, sussistendone in concreto i presupposti, ad una decisione della causa nel merito, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ..

In questo senso, e cioè nel senso che deve prioritariamente esaminarsi la censura che coinvolge l’accertamento di quale sia la portata delle disposizioni legislative rilevanti in materia rispetto alle censure che coinvolgono l’interpretazione della clausola testamentaria, si è del resto già espressa Cass. n. 1458 del 1967, che costituisce il precedente di questa Corte al quale si è ispirata la decisione impugnata.

4.1. Il controricorrente e ricorrente incidentale ha eccepito, ma solo nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ., la inammissibilità del secondo motivo del ricorso principale per inidoneità del quesito di diritto.

L’eccezione è infondata, atteso che il quesito, nei termini testuali prima riportati, è formulato in modo tale che, ove allo stesso sia data risposta positiva, la controversia può essere decisa in senso favorevole alla tesi dei ricorrenti principali.

5. Il motivo è fondato.

5.1. La Corte d’appello si è riferita alla risalente giurisprudenza di questa Corte, la quale, segnatamente nella sentenza n. 1458 del 1967, ha avuto modo di affermare il seguente principio di diritto: “Ai sensi dell’art. 587, primo comma, cod. civ., il testatore può validamente escludere dall’eredità, in modo implicito o esplicito, un erede legittimo, purché non legittimario, a condizione, però, che la scheda testamentaria contenga anche disposizioni positive e cioè rivolte ad attribuire beni ereditari ad altri soggetti, nelle forme dell’istituzione di erede o del legato. È quindi nullo il testamento con il quale, senza altre disposizioni, si escluda il detto erede, diseredandolo. Peraltro, qualora dall’interpretazione della scheda testamentaria risulti che il de cuius, nel manifestare espressamente la volontà di diseredare un successibile, abbia implicitamente inteso attribuire, nel contempo, le proprie sostanze ad altri soggetti, il testamento deve essere ritenuto valido, contenendo una vera e propria valida disposizione positiva dei beni ereditari, la quale è sufficiente ad attribuire efficacia anche alla disposizione negativa della diseredazione… “.

In motivazione, la Corte, che ha esaminato una clausola testamentaria meramente negativa (“Nelle mie piene facoltà mentali e in perfetta salute, dichiaro, qualora io dovessi mancare, di escludere dalla mia eredità e cioè da quello che io posseggo, le mie due nipoti A. e G…. figlie del mio defunto fratello P…., per il loro indegno comportamento verso di me ed i miei fratelli”), è partita dalla tesi tradizionale dell’invalidità della clausola di diseredazione ma, anziché pervenire ad una dichiarazione di nullità, come avrebbe dovuto coerentemente fare, data la portata meramente diseredativa della richiamata disposizione, e quindi dichiarare aperta la successione legittima, ha ritenuto di poter ricavare, per via interpretativa, una volontà, implicita, del testatore di disporre col testamento stesso a favore dei successibili ex lege diversi dalle nipoti escluse; ha pertanto, coerentemente affermato l’apertura della successione testamentaria.

In particolare, la Corte, pur ritenendo che il testamento abbia carattere necessariamente attributivo, ha ammesso tuttavia la validità della clausola non solo quando questa si accompagni a disposizioni attributive espresse, ma anche quando esaurisca il contenuto del testamento, purché sia possibile ricavare in sede ermeneutica “sia in modo diretto ed esplicito, sia in modo indiretto ed implicito la inequivocabile volontà del testatore, oltre che di diseredare un determinato successibile, di attribuire le proprie sostanze ad un determinato altro”.

Successivamente, nella giurisprudenza di questa Corte, si è affermato il principio per cui “la volontà di diseredazione di alcuni successibili può valere a fare riconoscere una contestuale volontà di istituzione di tutti gli altri successibili non diseredati solo quando, dallo stesso tenore della manifestazione di volontà o dal tenore complessivo dell’atto che la contiene, risulti la effettiva esistenza della anzidetta autonoma positiva volontà del dichiarante, con la conseguenza che solo in tal caso è consentito ricercare, anche attraverso elementi esterni e diversi dallo scritto contenente la dichiarazione di diseredazione, l’effettivo contenuto della volontà di istituzione. Pertanto, ove il giudice del merito nell’interpretazione dello scritto ritenga inesistente una tale volontà, correttamente lo stesso non ammette la prova diretta al fine di dimostrare la volontà del de cuius di disporre dei propri beni a favore di alcuni soggetti, in quanto con tale prova si mira non già ad identificare la volontà testamentaria contenuta, esplicitamente o implicitamente, nella scheda, ma alla creazione di una siffatta volontà” (Cass. n. 6339 del 1982; Cass. n. 5895 del 1994).

5.2. La soluzione accolta dai precedenti di questa Corte non è condivisa dal Collegio, in quanto contiene in sé una sostanziale contraddizione. Da un lato, infatti, si predica la assoluta invalidità di una clausola meramente negativa, ove la stessa non sia accompagnata ad altre che contengano disposizioni attributive, ancorché tali da non esaurire l’intero asse e-reditario; dall’altro se ne riconosce la validità anche nel caso in cui costituisca l’unica disposizione contenuta in una scheda testamentaria, a condizione però che sia possibile ricavare sia in modo diretto ed esplicito, sia in modo indiretto ed implicito la inequivocabile volontà del testatore, oltre che di diseredare un determinato successibile, di attribuire le proprie sostanze ad un determinato altro.

Un simile argomentare vanifica, in realtà, la affermazione di principio dalla quale sembra muovere la sentenza del 1967, della tendenziale invalidità della clausola di diseredazione, la quale è invece valida ed efficace allorquando dalla stessa sia possibile desumere una istituzione in favore di soggetti non contemplati ma comunque implicitamente individuabili, una volta esclusi dalla successione quelli invece espressamente menzionati nella clausola di diseredazione.

5.3. Dalla lettura della richiamata sentenza del 1967 emerge che l’argomento dirimente per escludere la ammissibilità nel nostro ordinamento di una clausola testamentaria di contenuto esclusivamente negativo, quale, appunto, la clausola di diseredazione che manifesti la volontà del testatore di escludere un successibile, senza che sia possibile individuare una volontà positiva, sia pure implicita, di chiamare altri alla sua successione, è quello desunto dal contenuto e dalla portata degli artt. 587 e 588 cod. civ.

La lettura delle citate disposizioni offerte nei precedenti di questa Corte deve essere rivista e superata alla luce delle seguenti considerazioni.

Ai sensi dell’art. 587, primo comma, cod. civ., il negozio di ultima volontà ha la funzione di consentire al testatore di disporre di tutte le proprie sostanze, o di parte di esse, per il tempo in cui avrà cessato di vivere. Con una tale definizione, il legislatore sembra accogliere la natura essenzialmente patrimoniale dell’atto di ultima volontà. Le disposizioni testamentarie di carattere non patrimoniale (art. 587, secondo comma, cod. civ.), che la legge permette siano contenute in un atto privo di disposizioni di carattere patrimoniale purché abbia la forma del testamento, condividono, invece, con il negozio di ultima volontà solo il tratto formale, ma non quello sostanziale, legittimando di conseguenza l’applicazione di un diverso regime (si pensi all’irrevocabilità, che è generalmente incompatibile con il contenuto tipico del testamento).

Peraltro, dal rilievo che la disposizione testamentaria tipica abbia contenuto patrimoniale, non discende la conseguenza che il testamento, per essere tale, debba avere necessariamente una funzione attributiva. L’articolato sistema delineato dal legislatore permette che il fenomeno devolutivo dei beni e l’individuazione degli eredi e dei legatari possano trovare indistintamente fondamento sia nella legge che nella volontà del testatore. Nel nostro ordinamento, la possibilità di un’attribuzione di beni per testamento, che genera un fenomeno vocativo legale, convive con quella, inversa, di un’istituzione per testamento di eredi, che genera la devoluzione legale dell’asse (o di una sua quota). Una simile convivenza, poi, non può che essere confermata dall’art. 457 cod. civ., che riconosce farsi luogo alla successione legittima, quando manca in tutto o in parte quella testamentaria, smentendosi dunque una gerarchia di valore tra le due forme del regolamento successorio, e dovendosi invece ricondurre il concorso tra le due vocazioni ad un rapporto di reciproca integrazione.

5.4. I richiamati precedenti hanno inteso riconoscere l’ammissibilità di una volontà di diseredazione ove in essa si ravvisi o una disposizione principale attributiva, esplicitamente o implicitamente presupposta, della quale la volontà del testatore è una modalità di esecuzione (Cass. n. 1458 del 1967), o un’implicita istituzione di tutti gli altri successibili non diseredati, volontà che non si presume ma va provata (Cass. n. 6339 del 1982; Cass. n. 5895 del 1994). Quest’ultimo orientamento ammette la clausola di diseredazione solo se fondata sull’equivalenza tra l’esclusione e l’istituzione implicita di altri.

Tuttavia, se si riconosce che il testatore possa disporre di tutti i suoi beni escludendo in tutto o in parte i successori legittimi, non si vede per quale ragione non possa, con un’espressa e apposita dichiarazione, limitarsi ad escludere un successibile ex lege mediante una disposizione negativa dei propri beni. Invero, escludere equivale non all’assenza di un’idonea manifestazione di volontà, ma ad una specifica manifestazione di volontà, nella quale, rispetto ad una dichiarazione di volere (positiva), muta il contenuto della dichiarazione stessa, che è negativa.

Per diseredare non è quindi necessario procedere ad una positiva attribuzione di beni, né – sulla scorta dell’espediente che escludere è istituire – alla prova di un’implicita istituzione.

In sostanza, la clausola di diseredazione integra un atto dispositivo delle sostanze del testatore, costituendo espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, che può includersi nel contenuto tipico del testamento: il testatore, sottraendo dal quadro dei successibili ex lege il diseredato e restringendo la successione legittima ai non diseredati, indirizza la concreta destinazione post mortem del proprio patrimonio. Il “disporre” di cui all’art. 587, primo comma, cod. civ., può dunque includere, non solo una volontà attributiva e una volontà istitutiva, ma anche una volontà ablativa e, più esattamente, destitutiva.

Altre volte, d’altronde, il nostro legislatore ha concepito disposizioni di contenuto certamente patrimoniale, che non implicano attribuzioni in senso tecnico e che possono genericamente farsi rientrare nella nozione di “atto dispositivo” del proprio patrimonio ex art. 587, primo comma, cod. civ., avendo utilizzato il termine “disposizione” nel senso riferito in questa sede (in materia di dispensa da collazione, di assegno divisionale semplice, di onere testamentario, di ripartizione dei debiti ereditari, di disposizione contraria alla costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia, di disposizione a favore dell’anima e di divieti testamentari di divisione).

Le varie ipotesi in cui l’attività dispositiva possa manifestarsi sono tutelate dall’ordinamento purché non contrastino con il limite dell’ordine pubblico: ogni disposizione patrimoniale di ultima volontà, anche se non “attributiva” e anche se non prevista nominatim dalla legge, può dunque costituire un valido contenuto del negozio testamentario, solo se rispondente al requisito di liceità e meritevolezza di tutela, e se rispettosa dei diritti dei legittimari.

L’ammissibilità della clausola diseredativa, quale autonoma disposizione negativa, appare, infine, in linea con l’ampio riconoscimento alla libertà e alla sovranità del testatore compiuto dal legislatore, che in altri ambiti del diritto successorio ha ammesso un’efficacia negativa del negozio testamentario: nell’ambito del contenuto patrimoniale del testamento, non solo il testatore può ben gravare il proprio erede di una hereditas damnosa, ma può escludere il legittimario dalla quota disponibile, sia mediante l’istituzione nella sola quota di legittima, sia mediante il legato sostitutivo previsto dall’art. 551 cod. civ.; il testatore può inoltre modificare le norme che la legge pone alla delazione successiva, escludendo l’operatività del diritto di rappresentazione a favore dei pro-pri congiunti con la previsione di più sostituzioni ordinarie o, addirittura, con un’esclusione diretta.

5.5. In conclusione, deve in proposito, e in risposta al quesito di diritto formulato dai ricorrenti principali a conclusione del secondo motivo di ricorso, affermarsi il seguente principio di diritto: “È valida la clausola del testamento con la quale il testatore manifesti la propria volontà di escludere dalla propria successione alcuni dei successibili”.

5.6. Applicando tale principio al caso di specie, deve accogliersi il secondo motivo del ricorso principale, dovendosi considerare valida la clausola del testamento di I.S. volta a diseredare alcuni dei successori legittimi, trattandosi di non legittimari. L’accoglimento del secondo motivo comporta l’assorbimento del primo.

6. L’unico motivo del ricorso incidentale è inammissibile.

Deve preliminarmente rilevarsi che i quesiti con i quali si conclude il motivo del ricorso incidentale, pur se formulati con riferimento ad affermazioni contenute in precedenti decisioni di questa Corte, appaiono idonei a dare luogo allo scrutinio nel merito del proposto motivo.

Tuttavia, deve rilevarsi che il ricorrente incidentale non ha colto la ratio della sentenza impugnata, la quale si sostanzia in ciò che in relazione al rapporto esistente tra la testatrice e la sua dante causa non sussisteva un rapporto tale da consentire la applicazione, nella specie, dell’istituto della rappresentazione. Questa, ai sensi dell’art. 468 cod. civ., ha luogo, nella linea retta, a favore dei discendenti dei figli legittimi, legittimati e adottivi, nonché dei discendenti dei figli naturali del defunto e, nella linea collaterale, a favore dei discendenti dei fratelli e delle sorelle del defunto.

Orbene, il ricorrente incidentale non ha censurato questo aspetto della sentenza impugnata, ma si è limitato a dedurre che l’istituto della rappresentazione opera anche in favore del successibile diseredato. In tal modo, il motivo di ricorso, e i quesiti che lo concludono, non attingono alla ratio decidendi; anzi, si deve rilevare che la Corte d’appello non ha affatto escluso che la rappresentazione possa operare in caso di diseredazione, ma ha ritenuto che nel caso di specie non ricorressero i requisiti soggettivi della rappresentazione.

7. In conclusione, accolto il secondo motivo del ricorso principale, assorbito il primo, e dichiarato inammissibile il ricorso incidentale, la sentenza impugnata deve essere cassata. Poiché, peraltro, non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., con il rigetto dell’appello proposto avverso la sentenza del Tribunale di Savona, che aveva deciso la controversia ritenendo valida la clausola di diseredazione e disposto farsi luogo alla successione in favore dei successibili non esclusi.

In considerazione della complessità della questione sottoposta all’esame della Corte, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dei giudizi di appello e dei due giudizi di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il secondo motivo del ricorso principale, assorbito il primo; dichiara inammissibile l’incidentale; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’appello; compensa le spese del giudizio di appello e di quelle di legittimità.

 

 

 

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