La ‘Restorative Justice’, resa in italiano con l’espressione ‘giustizia riparativa’ è nata negli anni ’70 nei Paesi anglosassoni, da sempre pionieri nella risoluzione alternativa delle controversie, tanto civili quanto penali. In realtà, il metodo proprio della giustizia riparativa è stato mutuato dalle antiche civiltà greca e romana: si conoscono metodi analoghi diffusi fra gli indiani d’America (famosa l’icona cinematografica del c.d. calumet della pace, fumato fra i capi della tribù, a suggellare il ricomponimento di una frattura sociale) e forme comparabili al paradigma della giustizia riparativa sono state studiate presso le tribù degli aborigeni australiani.

Alla luce della revisione critica, circa gli istituti della restorative justice, avvenuta dopo oltre un ventennio di pratica ristorativa, nei Paesi anglosassoni, Nella versione più recente, considerando per scelta metodologica soltanto l’ambito penale, il ‘processo’ della giustizia riparativa si snoda attraverso incontri, denominati ‘conference family’ o ‘conference circle’, a seconda della maggiore o minore ampiezza della partecipazione ai consessi: nel primo caso, all’incontro partecipano gli appartenenti delle famiglie coinvolte nella vicenda mentre, nel secondo caso, vi partecipano anche i rappresentanti della società civile. Il senso del maggiore o minore allargamento della partecipazione ai circles dipende dalla gravità del fatto commesso, dal numero di persone coinvolte, dall’impatto sociale che il fatto di reato ha determinato, avendo come punto di arrivo non soltanto la giusta punizione del soggetto ma soprattutto il recupero della relazione fra il reo e la vittima e fra il reo e la società.

Infatti, il paradigma riparativo presta attenzione al recupero del significato di ‘ferita’ nelle relazioni umane e, in tale ottica, pone le azioni decisive per riparare le fratture create con il proprio comportamento penalmente rilevante e, per ciò stesso, antisociale. La giustizia riparativa è ‘un processo nel quale le parti direttamente e indirettamente coinvolte in un reato si riuniscono per gestire e cercare di risolvere collettivamente le conseguenze del reato e le sue implicazioni nel futuro delle persone coinvolte’[1], secondo la celebre definizione di Marshall.

Ciò posto, deriva inevitabilmente che ci si approcci al metodo alternativo offerto dalla restorative justice con una lucidità e sensibilità diverse, rispetto al metodo tradizionale della giustizia penale, alla luce del fatto che, in Italia, si è fatto molto poco e non soltanto nell’ambito della giustizia riparativa ma, in generale, sul piano della risoluzione alternativa delle controversie, intese in senso globale.

L’approccio tradizionale si pone come obiettivo quello di perseguire il reato, inteso come violazione di una norma penale, accertare il nesso di causalità fra agente e fatto onde comminare una sanzione penale all’esito di un processo garantito da precise norme procedurali.

La giustizia riparativa considera il reato un danno – emozionale, fisico o mentale, esistenziale –  causato da un individuo o da un gruppo ad un altro individuo o gruppo. La soluzione viene cercata attraverso l’analisi delle emozioni e dei bisogni, effettuata nel presente e, soprattutto, nel futuro. Naturalmente, non esiste un processo penale: il luogo ove avviene questo confronto è rappresentato dalla negoziazione, dalla partecipazione e dalla mediazione. In quest’ottica, appare fondamentale il contributo di ciascuno dei soggetti coinvolti per giungere ad una soluzione riparativa. Infatti, la dinamica restitutiva è il mezzo attraverso cui si ripara il danno subito da una parte e, ad un tempo, si stabiliscono la riconciliazione fra le parti e il riconoscimento delle proprie responsabilità.

Secondo l’ottica penale tradizionale, l’equilibrio si raggiunge quando le regole processuali sono rispettate, il danno cagionato dall’imputato è riparato con la condanna di questi, secondo quanto disposto in sentenza. Il quadro di fondo, vede le parti – colpevole e vittima – opposti, secondo una logica vendicativa secondo cui l’unica soluzione possibile vede il colpevole punito e la vittima vendicata.

L’approccio ristorativo suggerisce di concentrare gli sforzi in una diversa direzione: il risultato finale deve esser frutto della relazione che si instaura fra i diversi soggetti, allo scopo di pervenire ad un risultato concordato, in base al quale il reo deve essere punito ma deve essere posto nella condizione di comprendere il disvalore del fatto commesso e deve essere reso partecipe del dolore cagionato alla vittima con la propria condotta illecita; il reato viene così spostato sul piano del conflitto interpersonale e il danno cagionato diventa un’opportunità di riparazione sociale. Si pensi all’impatto che la giustizia riparativa può avere in tutti quei casi in cui la valenza criminosa del fatto è tale da non destare allarme sociale, a tacere della riduzione dei processi iscritti a ruolo i quali, spesso, vertono su questioni di scarso valore giuridico ma fortemente caratterizzate da una connotazione emotiva. E ciò accade innanzi al giudice di pace, alla cui giurisdizione sono affidati reati di scarso valore criminoso. Ma anche nell’ambito del diritto civile non mancano ambiti difficili, specialmente dal punto di vista emotivo, in cui la giustizia riparativa, mutatis mutandis, potrebbe apportare un notevole contributo risolutivo. Si pensi all’introduzione di una logica analoga nell’ambito della crisi familiare: al momento attuale, il sistema giuridico italiano offre due alternative, rappresentate dalla separazione giudiziale e da quella consensuale. In realtà, in nessuna delle due ipotesi, i coniugi hanno un reale potere ‘contrattuale’ nella determinazione delle condizioni della separazione, e ciò per i motivi più disparati (ignoranza, fiducia assoluta nella figura del professionista legale etc): questo determina l’abdicazione al proprio diritto di scegliere oggi quale assetto dare agli interessi in gioco (figli, proprietà etc) per il futuro, affidando questa scelta a soggetti terzi – a seconda dei casi, il giudice o gli avvocati – quando sarebbe più logico e naturale che i coniugi, nel bilanciamento reciproco dei rispettivi interessi e nel più completo rispetto dell’altro, affrontino, coadiuvati ma non sostituiti dai professionisti (avvocati, commercialisti, esperti della comunicazione, psicologi dell’infanzia e dell’età evolutiva  etc), la propria separazione con consapevolezza e maturità , scegliendo essi cosa è meglio per se stessi e per i figli. E un accordo così concepito ha un’aspettativa di durata superiore a quella di un qualunque altro accordo imposto alla coppia da terzi. In tal caso, si parla di diritto collaborativo.

Nell’ottica riparativa, la sentenza di colpevolezza attiva nel reo un processo di responsabilizzazione per il fatto commesso e suggerisce, agli operatori coinvolti, modalità alternative di riparazione dei danni causati. Ad esempio, i giovani automobilisti risultati positivi al c.d. alcooltest, potranno ottenere maggiori chances di recupero effettivo e duraturo se, compreso a fondo il disvalore della condotta penalmente rilevante posta in essere, consistita nella guida in stato di ebbrezza, vengono avviati in attività di volontariato presso le strutture che si occupano del trattamento e del recupero degli alcolisti o presso le associazioni che assistono le vittime della strada: in questo modo, la responsabilizzazione avviene toccando con mano i risultati ultimi delle condotte penalmente rilevanti. Resta un dato di fatto: secondo l’ottica tradizionale del diritto penale ed esclusi i casi di incapacità, se l’autore di una condotta penalmente rilevante non si rende conto, nemmeno dopo la commissione di un reato, del disvalore e della gravità del fatto commesso, non potrà neppure essere efficacemente punito, nell’ottica offerta dall’art. 27 co. 3 Cost., perché non accetterà quel quantum di pena in quanto non capirà il motivo della sanzione. Il problema si pone in tutta la sua drammaticità nel processo minorile, ad esempio. E questa è la nota dolente che sovente viene sollevata quando, di fronte a casi di cronaca connotati da una scabrosità inusuale o da un’efferatezza senza eguali, si pensa che la migliore risposta sia quella di inasprire le pene, omettendo ogni approfondimento di tipo sociale intorno al fenomeno di cui si tratta.

L’impostazione della giustizia riparativa vede il colpevole e la vittima a confronto, per capire cosa è accaduto, per quale motivo e come poter intervenire per ristabilire l’equilibrio spezzato. La risoluzione esiste se il colpevole si impegna in un progetto di recupero ricostruttivo e responsabilizzante e la vittima offre la propria collaborazione, accettando il tentativo riparativo.

Laddove già ampiamente sperimentata (e, dopo oltre 20 anni di sperimentazione, oggi, profondamente rimeditata in un’ottica migliorativa), la giustizia riparativa viene socialmente percepita come una giustizia in grado di intervenire e responsabilizzare il soggetto che, con la sua condotta si è posto in contrasto con la società, nei casi di comportamenti antisociali e criminali non gravi. Negli Stati Uniti[2], sono stati condotti studi circa la posizione della comunità locale nei confronti delle risposte penali agli eventi delittuosi. Si è notato che la comunità cittadina, rappresentata da un campione significativo di essa, intervistato sul tema, aveva manifestato quasi all’unanimità l’idea favorevole di creare dei ‘community reparation boards’ i quali, in collaborazione con un giudice, potevano valutare le disposizioni alternative al carcere più appropriate, al fine di favorire l’integrazione sociale degli individui colpevoli di reato, quali il furto o il furto d’auto, come lavoro per la comunità e riparo del danno creato. Gli stessi studi hanno rivelato un diverso atteggiamento, più restrittivo e meno propenso verso forme di giustizia alternativa, nel caso in cui i reati commessi nella comunità fossero connotati da una gravità e da un allarme sociale maggiori.

La giustizia riparativa, cui si è fatto appena cenno nelle note che precedono, può essere sintetizzata come:

–       responsabilità a responsabilizzare nei confronti del reo;

–       riparazione del danno cagionato con la propria condotta (questo può indurre il reo sottoposto ad un programma rieducativo a sviluppare competenze lavorative e sociali);

–       reintegrazione, come conseguenza delle due direttrici che precedono, nel senso di protezione sociale e senso di sicurezza conseguenti al fatto che il reo si sia responsabilizzato e abbia posto riparo al danno provocato con la commissione del reato.

(a cura dell’avv. Domenico Di Leo)



[1] Marshall T., Restorative justice: An overview, Research Development and Statistics Directorate, Home Office, London, 1999.

[2] La ricerca cui si fa riferimento è quella condotta da Doble J. E Greene J., Attitudes towards crime and punishment in Vermont: Public opinion about an experiment with restorative justice, John Doble Research Associates, Englewood Cliff (NJ).

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