Dott. Alberto Biancardo

La legislazione del lavoro è incentrata sull’attenuazione della disparità fra le parti contrattuali del rapporto lavorativo: il datore di lavoro, parte forte, e il prestatore di lavoro, parte debole. Oltre la tutela legislativa, più o meno favorevole al lavoratore a seconda dei governi e delle legislature che si sono succedute nei periodi storici, altrettanto importante e strettamente connessa ad essa è la tutela giurisdizionale del lavoratore, intesa come l’insieme degli strumenti giurisdizionali, ma non strettamente giudiziari, che ha il lavoratore per far valere i propri diritti. Se perciò la legislazione del lavoro stabilisce diritti e doveri del datore e del lavoratore, i casi concreti e le controversie di lavoro dovranno necessariamente essere affrontati tramite il ricorso ad organi terzi e imparziali, oppure si potrà dirimere la lite con un accordo fra le parti in presenza di organi istituzionali. In tale contesto bisogna innanzi tutto considerare che il lavoratore subordinato gode di una tutela differenziata, più ampia, rispetto ai prestatori di lavoro non subordinati. Per lavoro subordinato si intende quello prestato sotto la direzione, il coordinamento e la vigilanza di un datore di lavoro, ma non essendovi una definizione specifica nel codice, per individuarlo è spesso necessario avvalersi dei cosiddetti ‘indici presuntivi della subordinazione’, elementi che considerati nel loro complesso fanno ritenere che il rapporto sia subordinato, come la regolarità delle retribuzioni, la possibilità del datore di erogare sanzioni, gli orari di lavoro predefiniti, la postazione di lavoro fissa.

La composizione delle liti in materia di lavoro può essere giudiziale oppure stragiudiziale, ossia volontaria. Quella stragiudiziale permette la composizione della lite al di fuori delle aule di tribunale, con il vantaggio per le parti di una maggior celerità e certezza della definizione della controversia e minor spreco di risorse finanziarie. Ma anche lo Stato e l’amministrazione della giustizia avranno dei notevoli benefici da una composizione stragiudiziale della lite, in quanto usufruiranno della capacità deflattiva del carico giudiziario di tale tipologia di risoluzione delle controversie. La risoluzione stragiudiziale delle contese in materia di lavoro è rappresentata da conciliazione e arbitrato, due tipologie completamente differenti, ma con il medesimo scopo: la composizione della lite evitando la domanda giudiziale, o se il ricorso al Giudice del lavoro è già avvenuto, l’immediata interruzione del procedimento.

Ove il datore o il prestatore di lavoro commettano illeciti penali, saranno invece sottoposti a giudizio di tipo penale, ferma restando la possibilità del danneggiato di ottenere un risarcimento, sia in sede civile, che in sede penale tramite la costituzione di parte civile. Se si escludono i reati più gravi, come l’omicidio o lesioni colpose da parte del datore, o i gravi inadempimenti in materia di sicurezza sul lavoro, la maggior parte dei delitti in tale settore sono stati depenalizzati, e sono oggi puniti con sanzioni amministrative.

Per ciò che riguarda, invece, il dipendente pubblico, risulta oggi più chiara che nel passato la ripartizione di giurisdizione fra Giudice del lavoro e Giudice amministrativo, ferme restando alcune zone d’ombra, entro le quali Consiglio di Stato e Cassazione, con sentenze di difforme orientamento, ancora non hanno chiarito se il lavoratore debba adire il Giudice del lavoro o il TAR. In tali casi, configurandosi il diritto del lavoratore sia come un diritto soggettivo che come un interesse legittimo, è ammessa la c.d. doppia tutela giurisdizionale, cioè la possibilità del lavoratore di adire entrambi i giudici, dando vita contemporaneamente a due giudizi separati. Ciò sembrerebbe essere un vantaggio per il lavoratore, tuttavia nella pratica il maggior esborso in spese legali, crea un indubbio deterrente all’utilizzo di tale tipo di tutela, soprattutto se consideriamo che la lite potrebbe risolversi ricorrendo a tutti e tre i gradi di giudizio e che il giudice potrebbe compensare le spese.

Controversie di lavoro di primo grado

La cognizione delle controversie di lavoro di primo grado è devoluta al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro, in composizione monocratica. Le norme per le controversie in materia di lavoro sono disciplinate al titolo IV del Codice di procedura civile, agli articoli 409 e seguenti. L’art. 409 c.p.c. circoscrive la materia sottoposta al processo del lavoro, affermando che le norme del rito speciale del lavoro si osservano nelle controversie relative a: rapporti di lavoro subordinato privato, di mezzadria o derivanti da contratti agrari, rapporti di agenzia, rappresentanza commerciale, o di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera coordinata e continuativa, rapporti di lavoro di dipendenti di enti pubblici che svolgano prevalentemente attività economica, ed altri rapporti di lavoro pubblico, che non siano devoluti dalla legge ad altro giudice. In tali casi il nostro ordinamento prevede il rito speciale del lavoro, introdotto con l. n. 533/1973. Esso riguarda la trattazione delle controversie relative a rapporti di lavoro e in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, e si può riferire a qualsiasi rapporto di lavoro subordinato compreso quello parasubordinato, anche non ancora costituito o già cessato, e a tutti i suoi aspetti.

Il processo del lavoro è basato sui principi dell’immediatezza, della concentrazione e dell’oralità. I termini processuali sono difatti abbreviati rispetto a quelli ordinari ed è previsto che vengano assunti mezzi di prova e di difesa negli atti introduttivi del processo. Vanno redatti per iscritto solo gli atti introduttivi, mentre ulteriori note difensive sono ammesse solo se disposte dal Giudice. E’ previsto che la trattazione della causa si svolga in forma orale e, preferibilmente, in una sola udienza. A quanto detto, dovrebbe in teoria conseguire una maggior celerità del rito speciale del lavoro. I poteri istruttori del Giudice del lavoro sono inoltre più ampi rispetto quelli del Giudice ordinario. Il rito del lavoro è infine orientato alla risoluzione delle controversie in via conciliativa.

Il Giudice, come previsto dall’art. 420 co. 1 c.p.c., nell’udienza di discussione della causa, interroga liberamente le parti, tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa. Un’integrazione all’art 420, co. 1, c.p.c., con legge n. 183/2010, ha previsto che la mancata comparizione personale delle parti o il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del Giudice senza giustificato motivo, costituiscono un comportamento valutabile negativamente ai fini del giudizio (ex art. 116 c.p.c.). Tale tentativo di conciliazione da parte del Giudice del lavoro è obbligatorio. Il tentativo può essere rinnovato dal Giudice, a norma dell’art. 185 c.p.c., in ogni momento della controversia. Indipendentemente dall’obbligo di difesa tecnica da parte degli avvocati, le parti possono farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, che ha il potere di conciliare o transigere la controversia. Il verbale di conciliazione ha efficacia di titolo esecutivo. Se la conciliazione non ha esito positivo e il Giudice ritiene la causa matura per la decisione o se sorgono pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, egli invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza.

I poteri istruttori del Giudice del lavoro sono disciplinati all’art. 421 c.p.c. Questi indica alle parti, in ogni momento, le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, fatti salvi i diritti quesiti (art. 421 comma 1 c.p.c.). Può disporre d’ufficio, in qualunque momento, l’ammissione di ogni mezzo di prova anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio. Può altresì disporre, su istanza di parte, l’accesso sul luogo di lavoro se ciò sia necessario all’accertamento dei fatti e l’esame dei testimoni sul luogo stesso (art. 421 comma 3 c.p.c.). Può anche ordinare la comparizione anche di quelle persone che non possonoi testimoniare ex art. 246 o ex art. 247 c.p.c. per poterle interrogare liberamente sui fatti oggetto della controversia.

Nel caso in cui il Giudice ritenga che la causa debba essere istruita, ammette i mezzi di prova proposti dalle parti o anche quelli che le parti non hanno precedentemente proposto, ma che egli ritiene siano rilevanti per la decisione. Al termine della discussione, il Giudice pronuncia la sentenza, dando immediata lettura del dispositivo (secondo il principio di concentrazione), in pubblica udienza a pena di nullità della sentenza.

Il rito del lavoro si introduce tramite ricorso, che deve essere depositato nella cancelleria del Giudice. Questi fissa con decreto l’udienza di discussione, dopodiché il ricorrente avrà 10 giorni di tempo per notificare decreto e ricorso al convenuto. Nel rito del lavoro, a norma dell’art. 416 c.p.c., il convenuto deve costituirsi in giudizio almeno 10 giorni prima dell’udienza, pena la preclusione dei diritti di cui all’art. 167 c.p.c. (possibilità di presentare domande riconvenzionali ed eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio), a differenza del rito civile ordinario ove tale termine è di 20 giorni. Il controllo giudiziale è limitato all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle scelte riguardo valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente. Il ricorso deve necessariamente contenere, a norma dell’art. 414 c.p.c., anche l’indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti che si producono. Ciò in quanto non è possibile produrre ulteriori documenti in corso di causa, o formulare nuove domande o eccezioni oltre quelle indicate nel ricorso, salvo le eccezioni previste dalla legge.

Il licenziamento deve essere impugnato entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, e tale impugnazione non è efficace se non viene eseguita entro il successivo termine di 180 giorni (legge n. 604/1966 art. 6, novellato dall’art.32 comma 1 della legge  n. 183/2010, e dalla legge 92/2012 che ha ridotto il termine da 270 a 180 giorni). Se il licenziamento avviene in forma orale il termine massimo di 60 giorni può non essere rispettato e il lavoratore può ricorrere al Giudice del lavoro per far dichiarare l’inefficacia del licenziamento, entro il termine di prescrizione di 5 anni.

Nelle controversie di lavoro (art. 417 c.p.c.) la parte può stare in giudizio senza l’assistenza di un difensore se la causa non eccede il valore di 129,11 Euro, mentre ove siano coinvolte pubbliche amministrazioni, queste, in primo grado, possono stare in giudizio avvalendosi direttamente dei propri dipendenti (art. 417 bis c.p.c.). E’ questo l’unico caso in cui possono difendere le amministrazioni da cui dipendono anche persone che non hanno l’abilitazione alla professione forense, ovvero neanche la laurea in giurisprudenza.

Con l’entrata in vigore del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti nel marzo del 2015 (jobs act), i ricorsi per impugnare i licenziamenti sono sensibilmente diminuiti: avendo infatti la nuova normativa relegato la reintegrazione nel posto di lavoro a rimedio di cui avvalersi in soli casi eccezionali e circoscritti (licenziamento illegittimo della lavoratrice madre, discriminatorio, licenziamento nullo), difficilmente il lavoratore intraprenderà un’azione penale lunga e incerta a fronte di un semplice risarcimento economico, peraltro anche scarsamente consistente. Nonostante l’effetto positivo di una deflazione del contenzioso davanti al Giudice del lavoro, sarebbe stato auspicabile ottenere tale risultato favorendo ed incentivando l’attività transattiva e conciliativa, non creando un forte deterrente per il lavoratore, che ricordo essere parte debole del contratto di lavoro.

La conciliazione

Accanto alla composizione giudiziale delle controversie, l’ordinamento promuove la composizione stragiudiziale nelle forme della conciliazione e dell’arbitrato, sia rituale che irrituale. La composizione stragiudiziale o volontaria della lite trova il suo fondamento nel potere riconosciuto all’autonomia privata di provvedere all’accertamento dei diritti ed ha la sua ratio nel potenziale deflattivo, per abbattere il numero sempre più alto di controversie davanti al Giudice del lavoro, con conseguente riduzione del carico giudiziario. La conciliazione può avvenire: in sede amministrativa, in sede sindacale o presso le Commissioni di certificazione.

Il nuovo art. 410 c.p.c., novellato dalla legge n. 183/2010 (il c.d. Collegato lavoro), dispone che chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti di lavoro previsti dall’art. 409 c.p.c. può promuovere, anche tramite l’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, un previo tentativo di conciliazione presso la Commissione di conciliazione territorialmente competente, istituita presso la Direzione Provinciale del Lavoro. Questo tentativo di conciliazione in sede amministrativa è alternativo a quello eventualmente esperibile in sede sindacale, in quanto previsto dagli accordi o contratti collettivi per la risoluzione delle controversie. Nel riscrivere le disposizioni del codice di rito in materia di conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro, l’art. 31 della legge 4 novembre 2010 n. 183, ha novellato l’art. 410 c.p.c. modificando profondamente la conciliazione stragiudiziale davanti alla Commissione di conciliazione. Infatti dal 24 novembre 2010 chi intende proporre un’azione in giudizio, non è più obbligato a promuovere un previo tentativo di conciliazione. Perciò il tentativo di conciliazione è oggi meramente facoltativo, eccetto le controversie che riguardino contratti certificati. Non costituendo più condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, il tentativo di conciliazione è stato svuotato di ogni rilevanza. Per di più, nel caso in cui il soggetto che ritiene di agire in giudizio voglia promuovere il previo tentativo di conciliazione, dovrà considerare che la controparte non è tenuta a presentarsi. Ciò fa sì che la conciliazione facoltativa diventi uno strumento raramente richiesto dalle parti, che preferiranno avvalersi di mezzi più concreti per la risoluzione delle controversie.

Le parti, prima di adire il Giudice del lavoro, possono promuovere il tentativo di conciliazione anche tramite associazione sindacale, davanti alla Commissione di Conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro. La Direzione Provinciale del Lavoro cui adire è quella della provincia in cui è sorto il rapporto o in cui si trova l’azienda oppure in cui si trovava la dipendenza dell’azienda al momento della fine del rapporto. La comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende il decorso di ogni termine di decadenza. Copia della richiesta deve essere inviata sia alla DTL competente che alla controparte. Se la controparte intende accettare la procedura di conciliazione, deposita entro venti giorni una memoria contenente le difese e le eccezioni, nonché eventuali domande riconvenzionali. Se non accetta, ciascuna delle parti è libera di adire l’autorità giudiziaria. Entro i dieci giorni successivi al deposito della memoria, la Commissione di conciliazione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, entro i successivi trenta giorni. Dinanzi alla Commissione di conciliazione il lavoratore può farsi assistere da un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato. Quando la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della domanda, viene redatto processo verbale. Il giudice, su istanza della parte interessata, lo dichiara esecutivo con decreto. Se non si raggiunge l’accordo tra le parti, la Commissione di Conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, ove non vi sia adeguata motivazione, il Giudice del Lavoro tiene conto all’esito del giudizio per la decisione sulle spese del procedimento.

Il tentativo di conciliazione può svolgersi anche in sede sindacale. Si ritiene che possa essere esperito anche se la contrattazione collettiva non lo prevede espressamente. Esso si svolge secondo le procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e non secondo il dettato dell’art. 410 c.p.c. Se la conciliazione va a buon fine, il Giudice, su istanza della parte interessata, la dichiara esecutiva con decreto. Il verbale acquista in tal modo efficacia di titolo esecutivo. La giurisprudenza considera inidoneo a produrre effetti il verbale di conciliazione in sede sindacale sottoscritto in assenza di uno dei due conciliatori.

Il tentativo di conciliazione stragiudiziale è tuttora obbligatorio nel solo caso in cui la lite riguardi un contratto che è stato certificato ai sensi dell’art. 75 D.Lgs. n. 276/2003 (legge Biagi) modificato dalla legge n. 183/2010, per cui, al fine di ridurre il contenzioso in materia di lavoro, le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta una prestazione di lavoro. Esso si svolge presso le Commissioni di certificazione. Le parti e i terzi possono adire l’autorità giudiziaria per: erronea qualificazione del contratto, difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione, vizi del consenso, ma sono sempre obbligati a rivolgersi previamente alla stessa Commissione di certificazione chiedendo che sia esperito il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c. Tale tentativo è perciò condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Una tipologia di tentativo di conciliazione stragiudiziale obbligatorio è stata introdotta con la Riforma Fornero, l. n. 92 del 2012. Essa deve essere esperita nelle sole ipotesi di impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (il c.d. licenziamento economico) posto in essere da un datore di lavoro che occupi più di 15 dipendenti nell’unità produttiva o più di 60 a livello nazionale, secondo la disciplina di cui all’art. 18 comma 8, l. n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori). La riforma prevede, in questo caso, che il licenziamento debba essere preceduto da una comunicazione preventiva al lavoratore e alla Direzione Territoriale del Lavoro ove ha sede l’unità produttiva in cui questi è impiegato. Il datore di lavoro deve indicare la propria intenzione di procedere al licenziamento e i motivi, oltre alle eventuali misure per la ricollocazione del prestatore. Entro sette giorni dalla ricezione della richiesta, la DTL trasmette alle parti la convocazione per un incontro (secondo le disposizioni dell’art. 410 c.p.c.) per vagliare eventuali soluzioni alternative al recesso. La procedura deve concludersi entro 20 giorni dalla data di invio della convocazione, salvo che le parti non richiedano una proroga. Se il tentativo di conciliazione fallisce o il termine di 20 giorni decorre inutilmente, il datore di lavoro può comunicare al lavoratore il licenziamento che ha efficacia a decorrere dalla prima comunicazione.

Le commissioni di conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro sono composte dal direttore dell’ufficio, un suo delegato o da un magistrato a riposo, in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori designati alle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Per la validità della riunione è necessaria la presenza nel collegio di conciliazione del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e di uno dei lavoratori (art. 412 quater c.p.c.). Alla commissione di conciliazione sono affidati compiti di mediazione. Se la conciliazione non riesce o le parti non accettano la proposta di bonario componimento della lite formulata dalla Commissione di conciliazione, il Giudice ne tiene conto in sede di decisione. Qualora la conciliazione vada a buon fine, viene redatto un processo verbale che, sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione, può acquistare il valore di titolo esecutivo, su istanza della parte interessata al giudice competente. La conciliazione è fondamentalmente un contratto con cui le parti si accordano in camera di conciliazione. Le rinunce e le transazioni che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi sono valide solo se contenute in verbali di conciliazione sottoscritti in sede amministrativa, sindacale o giudiziale.

La procedura di conciliazione monocratica

La conciliazione monocratica, nonostante si svolga anch’essa presso la Direzione Provinciale del Lavoro, è un istituto distinto dalla conciliazione ex art. 410 c.p.c. precedentemente descritta. Essa è collegata all’attività ispettiva di vigilanza, osservanza della normativa, dei contratti collettivi e accertamento delle infrazioni. L’accertamento delle violazioni richiede infatti delle ispezioni nei luoghi di lavoro. E’ disciplinata dagli art. 11 e 12, D.Lgs. n. 124/2004. Nei casi di richiesta di intervento, ove emergano elementi per una soluzione conciliativa della controversia, la Direzione Provinciale del Lavoro può avviare, mediante un proprio funzionario, un tentativo di conciliazione sulle questioni segnalate. Analoga procedura può essere avviata nel caso in cui, durante un’attività di vigilanza, l’ispettore valuta che ricorrano i presupposti per una soluzione conciliativa delle infrazioni rilevate. La conciliazione può essere preventiva o contestuale: preventiva quando il lavoratore o la formazione sindacale che lo rappresenta, propone una richiesta di intervento alla Direzione Provinciale competente, e quest’ultima convoca le parti per un tentativo di conciliazione; è contestuale quando viene attivata direttamente da parte dell’ispettore durante un controllo, previo consenso delle parti. Se la conciliazione ha esito positivo, il verbale dell’accordo non sarà impugnabile ai sensi dell’art. 2113 c.c., ed acquisterà efficacia di titolo esecutivo con decreto emesso dal Giudice. Il datore, adempiendo all’accordo conciliativo che prevede il pagamento delle somme dovute al lavoratore e versamento dei contributi, potrà così evitare sanzioni, con l’estinzione del procedimento ispettivo.

Con le novelle all’art. 410 c.p.c. che hanno reso facoltativa la conciliazione in sede amministrativa presso la Direzione Provinciale del Lavoro, la conciliazione monocratica ha acquisito maggior importanza, in quanto ha carattere obbligatorio. Il datore sottoposto a visita ispettiva nella quale sono state rilevate irregolarità, è infatti tenuto a partecipare alla conciliazione e dovrà sottoscrivere il relativo accordo, se non vuole incorrere nelle sanzioni conseguenti al procedimento ispettivo. La procedura conciliativa monocratica, perciò, è di esclusiva competenza della Direzione Provinciale del Lavoro. Si svolge davanti ad un unico funzionario (perciò è definita monocratica), a seguito di una diffida accertativa, solo ove l’accertamento ispettivo rilevi che il datore di lavoro ha commesso violazioni di tipo civile o amministrativo. Riguarda i diritti patrimoniali del lavoratore ossia i crediti di lavoro che derivano dal mancato rispetto degli obblighi retributivi e contributivi.

L’arbitrato

Oltre alla conciliazione, le parti di un rapporto di lavoro protagoniste di una controversia, possono ricorrere all’arbitrato per risolvere in via stragiudiziale il contenzioso. L’arbitrato è l’istituto per mezzo del quale le parti riescono a pervenire alla composizione di una controversia attraverso il deferimento del potere di decisione ad un terzo. A differenza della conciliazione, dove sono le parti a decidere se giungere ad un accordo e ruolo del conciliatore consiste solo nel loro avvicinamento per la ricomposizione della lite, nell’arbitrato è il terzo a decidere sulla controversia. L’istituto trova la sua fonte nel compromesso (art. 807 c.p.c.) o nella clausola compromissoria (art. 808 c.p.c.). Il compromesso è il contratto con cui le parti compongono una insorta controversia affidando la decisione ad un terzo, purché non riguardi diritti indisponibili, e salvo espresso divieto di legge, mentre per clausola compromissoria si intende la clausola inserita nel contratto con cui le parti si impegnano a rimettere ad un terzo le possibili future controversie in ordine all’esecuzione o interpretazione del contratto. E’ perciò prevista fra le parti la possibilità di inserire al contratto individuale di lavoro una clausola compromissoria che le vincola, con cui si impegnano a deferire ad arbitri la decisione di future eventuali controversie tra loro insorte in ordine alla esecuzione o interpretazione del contratto.

Bisogna distinguere arbitrato rituale e arbitrato irrituale. Mentre l’arbitrato rituale è idoneo a conseguire effetti equivalenti alla giurisdizione, l’arbitrato irrituale ricorre quando le parti rimettano all’arbitro la composizione della controversia in via negoziale e non giurisdizionale. L’arbitrato rituale è equivalente alla giurisdizione ed ha perciò gli effetti di una sentenza: si svolge come un vero e proprio giudizio, secondo norme procedurali stabilite dalle stesse parti nel compromesso o nella clausola compromissoria o altro atto successivo, oppure in mancanza, nel modo che l’arbitro ritenga più opportuno, fatto salvo in ogni caso il principio del contraddittorio. Per le controversie di lavoro, il ricorso agli arbitri è ammesso solo se ciò sia previsto dalla legge o da contratti ed accordi collettivi. La decisione pronunziata dall’arbitro, il lodo arbitrale rituale, acquista autorità di sentenza mediante un decreto di omologazione del giudice, che ne verifica solo la validità formale. Nelle controversie di lavoro è sempre ammessa l’impugnazione relativa al merito della controversia, e per violazione dei contratti collettivi. L’arbitrato irrituale ricorre invece quando le parti rimettano all’arbitro la composizione della controversia in via negoziale e non giurisdizionale: in tal caso l’atto formato dall’arbitro ha una natura negoziale e gli effetti del contratto. La legge n. 183/2010 riscrivendo l’art. 412 c.p.c. introduce una possibilità di ricorso all’arbitrato irrituale anche secondo equità in qualunque fase del tentativo di conciliazione. Le parti hanno infatti facoltà di ricorrere all’arbitrato irrituale per risolvere la lite già insorta per la quale sia pendente o fallito il tentativo di conciliazione, affidando alla Commissione di conciliazione il mandato di risolvere in via arbitrale la controversia. Il lodo irrituale ha natura contrattuale e non è impugnabile, come non lo sono le rinunzie e le transazione stipulate dal lavoratore in sede sindacale, amministrativa o giudiziale, a norma dell’art. 2113, comma 4 c.c. Il lodo è però annullabile dal giudice competente per i vizi di natura procedurale indicati nell’art. 808 ter c.p.c. (gli arbitri non sono stati nominati nei modi stabiliti, il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro, gli arbitri non si sono attenuti alle regole o non è stato osservato il contraddittorio).

Dopo le novelle del 2010 (con legge n. 183) vi sono quattro tipi di arbitrato irrituale: davanti alle Commissioni di conciliazione presso la DPL (ex art. 412 c.p.c.) durante un tentativo di conciliazione o nel caso in cui questo non dovesse andare a buon fine, il cui lodo ha valore di legge e non può essere impugnato; arbitrato in via stragiudiziale presso le sedi sindacali (ex art. 412 ter); davanti ad un Collegio di conciliazione e arbitrato (art. 412 quater c.p.c.), con la richiesta al collegio di decidere secondo equità; davanti alle Camere arbitrali di certificazione, secondo l’art. 31 comma 12, l. n. 183/2010.

A tutela del lavoratore è vietata la sottoscrizione della clausola compromissoria contestualmente alla sottoscrizione del contratto: essa potrà essere convenuta solo con atto separato, non prima della conclusione del periodo di prova. La clausola compromissoria è consentita dalla legge solo ove lo prevedano gli accordi interconfederali o i contratti collettivi. Durante l’arbitrato, nell’udienza di trattazione della lite, la nuova normativa prevede che il collegio arbitrale faccia un tentativo di conciliazione.

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