Corte di Cassazione, Sezione Penale V, Sentenza 12/10/2020, n. 34504

Leonardo Ercoli

Prima di addentrarsi nella disamina approfondita del tema scrutinato dai giudici di legittimità con la sentenza n. 34504 del 12/10/2020, giova senz’altro operare talune, seppur brevi, premesse di carattere generale in ordine alla violenza assistita da minori e alla pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale, entrambi oggetto di pronuncia.

In via del tutto preliminare, è bene precisare che il riferimento alla ‘violenza assistita’ è da intendersi quale forma di violenza domestica, di cui i minori sono quotidianamente spettatori inconsapevoli e vittime passive essendo questi, loro malgrado, molto spesso obbligati ad assistere reiteratamente a scene di violenza tanto fisiche quanto verbali tra i genitori o, in ogni caso, tra soggetti a loro vicini affettivamente. Essa, dunque, si configura come una vera e propria forma di maltrattamento psicologico, molto spesso sottovalutata se non addirittura ignorata che riflette i suoi effetti sull’aspetto emotivo, cognitivo, fisico oltre che relazionale del minore stesso. Il Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e Abuso dell’Infanzia (CISMAI), nel 2005, ha definito la violenza assistita da minori in ambito familiare come “l’esperire da parte del/della bambino/a qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte o minori. Si include l’assistere a violenze messe in atto da minori su altri minori e/o su altri membri della famiglia e ad abbandoni e maltrattamenti ai danni di animali domestici. Il bambino può fare esperienza di tali atti direttamente (quando essi avvengono nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il minore ne è a conoscenza), e/o percependone gli effetti”[1].

Ebbene, nonostante siffatte situazioni domestiche siano, ad oggi, molto spesso oggetto di procedimenti penali, preme evidenziare come, in realtà, le medesime non trovino corrispondenza in alcuna fattispecie specifica di reato, nella quale il minore venga ad assumere le vesti di persona offesa per i reati che si concretizzino in sua presenza verso altri componenti della sua famiglia. Per tali motivi, affinché tutti i comportamenti nei quali si concretizza ed esplica la violenza assistita possano acquisire una rilevanza penale specifica, si rende necessario ricomprendere tali condotte all’interno di ulteriori fattispecie di reato esistenti nel nostro ordinamento penale quale ad esempio – per ciò che in tal sede rileva – il reato di maltrattamenti in famiglia previsto dal nostro ordinamento tra i delitti contro l’assistenza familiare di cui al Capo IV, Titolo XI e punito ex art. 572 c.p.

In tal senso, appare doveroso dare atto di come – benché non tipizzate dal codice penale – sempre più spesso la giurisprudenza di legittimità abbia riconosciuto a tali forme di violenza una specifica rilevanza equiparandole a dei veri e propri abusi su minori. Invero, la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 4332 del 29 gennaio 2015, dopo aver richiamato l’orientamento per il quale integrano il delitto di cui all’art. 572 c.p. «non solo fatti commissivi, sistematicamente lesivi della personalità della persona offesa, ma anche condotte omissive connotate da una deliberata indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della “persona debole” da tutelare»[2]  ha affermato che, tale regola consente, altresì, di ricomprendere «nel novero dell’offensività, tipica della norma, anche la “posizione passiva dei figli minori” laddove questi siano “sistematici spettatori obbligati” delle manifestazioni di violenza, anche psicologica»; di talché – si legge nel corpo della succitata sentenza –  le ripercussioni sui minori devono essere il frutto «di una deliberata e consapevole insofferenza e trascuratezza verso gli elementari ed insopprimibili bisogni affettivi ed esistenziali dei figli stessi, nonché realizzati in violazione dell’art. 147 c.c., in punto di educazione e istruzione al rispetto delle regole minimali del vivere civile, cui non si sottrae la comunità familiare regolata dall’art. 30 della Carta costituzionale»[3].

A quanto testé illustrato, è d’uopo altresì affiancare – per ciò che concerne l’oggetto della trattazione – talune precisazioni in ordine alla disciplina sottesa alla pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale di cui all’art. 34 c.p, da intendersi quale capacità di un genitore di esercitare diritti di natura personale e patrimoniale sui figli. La disposizione in parola – rubricata “Decadenza dalla responsabilità genitoriale e sospensione dall’esercizio di essa” – prescrive la decadenza e la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, quale conseguenza automatica alla sentenza di condanna per uno dei reati per i quali è espressamente prevista dalla legge, nonché quale conseguenza diretta della condanna all’ergastolo. Si tenga, peraltro, conto che le ipotesi di reati a cui si riferisce la pena accessoria in esame vanno inevitabilmente collegate a tutte quelle condotte atte a ledere, tanto direttamente quanto indirettamente, l’equilibrio psico-fisico della prole. In tal senso, è bene distinguere la pena accessoria della decadenza dalla responsabilità genitoriale (art. 34, co.1 c.p.) dalla misura della sospensione della responsabilità genitoriale (art. 34, co.2 c.p.). E, infatti, mentre la decadenza della responsabilità genitoriale consegue automaticamente in caso di condanna per i delitti più gravi che presuppongono lo stato di genitore quale elemento costitutivo o circostanza aggravate (si pensi ad esempio, all’art. 609-novies c.p.) – determinando la perdita dei diritti di natura personale sui figli, nonché la perdita dei diritti spettanti per legge ai genitori sui beni dei figli – la misura della sospensione della responsabilità genitoriale , invece, consegue in via automatica nei casi di condanna per quei delitti commessi con abuso dei poteri e dei doveri legalmente sanciti a carico del genitore, ben potendo essere comminata discrezionalmente dal giudice in caso di condanna alla pena della reclusione per un periodo non inferiore ai cinque anni ex art. 32 determinando – contrariamente alla decadenza – la mera sospensione della responsabilità genitoriale da intendersi quale incapacità temporanea del genitore di esercitare sui figli i diritti di cui è titolare.

Chiariti, dunque, i termini generali della questione, preme evidenziare, sul punto, come – di recente – la Quinta sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34504 del 12/10/2020 – depositata il 03/12/2020, sia stata interpellata al fine di chiarire il nodo interpretativo relativo alla possibilità o meno di ritenere sussistente l’abuso della responsabilità genitoriale ( e, dunque, la conseguente applicazione della pena accessoria della sospensione di cui al co.2 dell’art. 34 c.p.) non già nelle sole ipotesi in cui la violenza assistita integri di per sé una condotta di maltrattamenti ai danni dei minori, spettatori della violenza o della vessazione di un altro familiare, ma anche allorquando questa venga a configurarsi quale aggravante di un reato commesso nei confronti del minore stesso come nel caso di specie. La risposta alla quale la Corte, a seguito di un notevole lavoro di bilanciamento di interessi del minore, è pervenuta è, senz’altro, positiva avendo la stessa affermato, nella specie sottoposta al suo vaglio, che “la violenza assistita che integra la circostanza aggravante descritta ex art. 61 c.p., co.1, n. 11-quinquies è idonea a costituire la base giuridica per la sospensione della responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 34, co. 2 c.p.”.

Al fine di comprendere compiutamente la questione giuridica sottesa alla pronuncia in esame, appare doveroso operare un breve excursus dei fatti occorsi.

In particolare, la vicenda prende avvio dalla decisione assunta dalla Corte di Appello di Roma che – in parziale riforma della sentenza emessa all’esito del giudizio abbreviato dal G.U.P. del Tribunale di Latina – aveva condannato l’imputato per i reati di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) eseguiti attraverso reiterati soprusi nei confronti della moglie, lesioni aggravate (art. 582 c.p.) provocate attraverso una stretta delle braccia al collo a cui era conseguita una distorsione e distrazione del collo nonché, del reato di sequestro di persona (art. 605 c.p.) – aggravato dalla circostanza di essere stato commesso in presenza dei figli minori di cui all’art. 61, co.1, n. 11-quinquies c.p. – avendo lo stesso bloccato la convivente sul letto della propria abitazione con manette ai polsi, impedendole di muoversi per oltre sei ore (nella specie, fino all’arrivo della polizia allertata da una delle figlie) e avendole tagliato i capelli contro la sua volontà.

Avverso la suddetta sentenza con la quale la Corte di Appello aveva, peraltro, rideterminato la pena, nonché la durata della libertà vigilata e della sospensione della responsabilità genitoriale, oltre ad intervenire in melius sulle interdizioni disposte dal giudice di prime cure, l’imputato, per mezzo del proprio procuratore, proponeva ricorso in cassazione adducendo cinque differenti motivi. Ebbene, se con il primo motivo di ricorso, l’imputato denunciava il vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato in ordine al vaglio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in merito alle aggressioni dalla stessa subite, con il secondo motivo, invece, il ricorrente lamentava l’illogicità della motivazione resa dai giudici del merito con riferimento al reato di cui all’art. 605 c.p. (sequestro di persona) e alle modalità attraverso le quali si fosse configurata la condotta tipica dello stesso. Successivamente, nel terzo e quarto motivo di ricorso, veniva dedotta la violazione di legge in ordine alla ritenuta possibilità di concorso tra i reati di sequestro di persona e maltrattamenti in famiglia, ritenendo – ai fini dell’assorbimento del primo delitto nel secondo ( disconosciuto dal giudicante di prime cure) – che la compressione della libertà di movimento della vittima non potesse considerarsi quale condotta autonoma e ulteriore rispetto alle condotte maltrattanti nonché l’insussistenza – per come riportato nel quarto motivo – dell’aggravante di cui all’art. 576, co. 1, n. 5, c.p. con riferimento al reato di lesione personale. Infine, per ciò che in tal sede rileva, con il quinto ed ultimo motivo la difesa, deduceva l’erronea applicazione della pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale di cui all’art. 34 c.p. dal momento che la condanna era intervenuta in ordine ad un reato (quello di maltrattamenti) perpetrato nei soli confronti della moglie e non anche dei figli ancorché presenti, difettando così – sempre secondo la difesa – la ratio della pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale, disposta, dunque, in assenza del presupposto di legge.

Gli Ermellini, chiamati a pronunciarsi, con la sentenza in esame, hanno dichiarato l’infondatezza dei motivi di cesura addotti. In particolare, con riferimento al terzo motivo di ricorso relativo – come detto – all’assorbimento del reato di sequestro di persona in quello di maltrattamenti, la Suprema Corte di Cassazione – dopo aver richiamato l’indirizzo giurisprudenziale che ritiene tale assorbimento configurabile solamente allorquando le condotte di compressione della di movimento non siano ulteriori e autonome rispetto a quelle specificamente maltrattanti[4] – ha sottolineato come, nella fattispecie de qua, tale circostanza non potesse essere considerata quale verificata dal momento che la vittima era stata, palesemente, privata della propria libertà personale, per molte ore durante le quali aveva  subito prevaricazioni tali da provocare un senso di coazione psicologica profonda e di svilimento della sua dignità personale, dovendosi piuttosto concludere nel considerare tali condotte senz’altro «ultronee rispetto alla condotta di maltrattamenti e dotate di autonoma efficacia lesiva del bene della libertà personale non necessariamente coinvolto dalla condotta abituale del reato» concludendo, sul punto, che il concorso tra i reati di maltrattamenti in famiglia e sequestro di persona può considerarsi configurabile «se la condotta di sopraffazione che privi la vittima della libertà personale non si esaurisce in una delle modalità in cui si esprime l’abituale coercizione fisica e psicologica costituente una delle fasi del reato abituale di maltrattamenti, ma ne configura un picco esponenziale dotato di autonoma valenza e carico di ulteriore disvalore, idoneo a produrre, per un tempo apprezzabile, un’arbitraria compressione della libertà di movimento della persona offesa, quand’anche in modo non assoluto».

Di notevole pregio appare, poi, la motivazione addotta dal Supremo Consesso in ordine al quinto ed ultimo motivo di doglianza concernente la sanzione accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale censurata dal ricorrente dal momento che il reato di maltrattamenti in famiglia era stato contestato ai danni della sola compagna e non anche dei figli, benché presenti. Sul punto, la Corte ha, anzitutto, rammentato il principio di diritto per cui il reato di maltrattamenti in famiglia ai danni dei figli sia ritenuto configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come spettatori involontari e passivi delle liti tra i genitori (c.d. violenza assistita), sempre che sia accertata l’abitualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica negli stessi[5]. Successivamente, si legge nel testo della sentenza, nella fattispecie sottoposta al vaglio della Corte, benché il reato di cui all’art. 572 c.p. fosse stato contestato come rivolto alla sola convivente, era stato ampiamente dimostrato – dalle evidenze probatorie emerse in sede di udienza preliminare – che la condotta di soprusi tanto fisici quanto psicologici, reiterata e continuativa, operata dall’imputato nei confronti della moglie sia stata manifestata, più volte, in presenza dei minori tanto da generare in loro un evidente e altrettanto incontestato clima di terrore familiare improntato sulla prevaricazione e sulla violenza. Il quadro emerso in sede probatoria, secondo la Corte e secondo l’indirizzo giurisprudenziale costante[6], non lasciava dubbi circa la configurabilità delle condotte di reato ascritte all’imputato come aggravate dalla circostanza di cui all’art. 61, n. 11-quinquies c.p.[7] . Orbene, chiarita la sussistenza della circostanza aggravante, la Corte si è poi interrogata – come anticipato – sulla idoneità o meno della medesima a costituire base giuridica per la sospensione della responsabilità genitoriale del ricorrente ai sensi dell’art. 34, co.2, c.p., affrontando il punto di snodo della pronuncia in esame ovverosia quello relativo al novero di reati commessi con abuso di responsabilità genitoriale, rilevanti ai fini dell’applicabilità della pena accessoria.

Al tal fine, gli Ermellini in diritto, richiamando l’indirizzo dottrinale che individua – attraverso un richiamo all’art. 330 cod. civ. – il significato del concetto di abuso della responsabilità genitoriale “nell’uso abnorme dei poteri e nella violazione o inosservanza dei doveri inerenti alla responsabilità” hanno ritenuto che – secondo una interpretazione sistematica della normativa civilistica in materia di diritti e doveri gravanti sui genitori nei confronti della prole (artt. 330 e ss. c.c.) e dell’art. 34 c.p. – nell’alveo delle categorie dei delitti commessi con abuso della responsabilità genitoriale debbano essere ricompresi anche le fattispecie in cui si configura la cd. violenza assistita aggravata ai sensi dell’art. 62 n. 11- quinquies c.p.

Ciò posto, conclude la Corte, nell’abuso della responsabilità genitoriale rientrano “non soltanto le condotte di reato direttamente rivolte contro i figli minori (siano esse violente o solo moralmente vessatorie, maltrattanti ai sensi dell’art. 572 c.p. ovvero persecutorie o idonee ad integrare altri e diversi delitti), ma anche quelle indirettamente rivolte contro di loro, che, colpendo, come nel caso di specie, pervicacemente e brutalmente l’altro genitore, li costringono ad assistere, secondo i parametri normativi dettati dall’art. 61 c.p., comma 1, n. 11-quinquies, ad una violenza e sopraffazione destinate ad avere inevitabilmente conseguenze sulla loro crescita ed evoluzione psico-fisica, segnandone il carattere e la memoria”.

Sulla scorta delle motivazioni in diritto suesposte, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


[1] C.I.S.M.A.I. Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e Abuso dell’Infanzia, Documento sui requisiti minimi degli interventi nei casi di violenza assistita da maltrattamento sulle madri, Febbraio 2005, pag. 1, in https://cismai.it/requisiti-minimi-degli-interventi-nei-casi-di-violenza-assistita-da-maltrattamento-sulle-madri/ .

[2] Cfr. Cass. pen. Sez. VI, sent. del 17 gennaio 2013, n. 9724/2013.

[3] Cfr. Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 10/12/2014) 29 gennaio 2015, n. 4332.

[4] Cfr. Cass. pen., Sez. V, sent. del 19 dicembre 2016, n. 15299 in cui la Corte ha ritenuto sussistente il concorso tra i due reati in relazione alle condotte di imbragare o legare su passeggini o seggiolini bambini in tenerissima età nell’ambito di maltrattamenti compiuti in loro danno all’interno di un asilo.

[5] Cfr. Cass. pen. Sez. VI, sent. del 23 febbraio 2018, n. 18833.

[6] Cfr. Cass. pen. Sez. I Sent. del 25 giugno 2018, n. 44965; Cass. pen, Sez. VI, sent. del del 25 ottobre 2018, n. 2003 – dep. 2019; Cass. pen., Sez. VI, sent. del 18 ottobre 2017 n. 55833.

[7] Si noti che la circostanza aggravante in parola è stata introdotta dal d.l. n. 93 del 2013, convertito in l. n. 119 del 2013 in attuazione della Convenzione di Instabul adottata dal Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011.

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