Le “preesistenze”: brevi riflessioni e tributo di una allieva al saggio del Prof. Riccardo Dominici

(Consulente per la Sicurezza, Medico del Lavoro, Psicoterapeuta)

a cura dell’Avv. Federica Federici

Ci sono docenti che sono formatori, docenti che sono professori, docenti che sono tutto questo, ma sono anche uomini.

Roma, 24.11.2013, presso la sede del Master di II livello in Psicologia Giuridica e Svienze Forensi, diretto dalla Prof. Laura Volpini e dal Gen. Prof. Luciano Garofano, di cui sono umile e fiera allieva, resto colpita immediatamente dal garbo e dall’umanità, ma anche e sopratutto dall’umiltà del Prof. Riccardo Dominici.

Medico e psicologo, autore di vari testi sul danno psichico.

Mi colpisce, in particolare, nel corso della sua lezione un termine preciso, in parte stimolato da una mia domanda-riflessione come spesso accade anche digressiva, tanto da isolarmi per qualche momento con la mente, nel tentativo di ricordare o rievocare nella mia mente e per la mia limitata, quanto modesta modesta cultura scientifica, cosa siano le “preesistenze“. Passano dei giorni e gli scrivo, con la mia solita intraprendenza, forse anche sfacciataggine e lui, con grande disponibilità mi invia un breve estratto scritto sul tema da lui stesso e che qui riporto integralmente:

“Franzoni (2004), commentando la sentenza App. Milano 11 giugno 2002 in un caso di incidente stradale in cui una donna aveva riportato lesioni fisiche che determinarono anche notevoli ripercussioni psichiche, ricorda “I giudici affermano che lo stato preesistente del soggetto leso, la sua particolare condizione fisica, vale come concausa dell’evento dannoso, ma non come unica causa determinante, quando alla produzione dell’evento finale concorra anche e comunque un’ulteriore causa umana ed esterna che faccia da detonatore nell’estrinsecarsi o nell’aggravarsi dello stato morboso preesistente. Pertanto l’apparente sproporzione tra causa ed evento, l’apparente eccezionalità del tipo di patologia derivante da un fatto lesivo normalmente produttivo di una lesione più contenuta per quantità e qualità, non interrompe il nesso di causalità rilevante e determinante ai fini del risarcimento”.

Riportiamo il dispositivo della sentenza Cass. Civ., Sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991, in tema di danno da mal practice medica, che affronta con grande chiarezza i due aspetti del nesso di causalità, la causalità di fatto e la causalità giuridica, proprio in rapporto alle preesistenze:

<<La disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della causalità materiale, l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del “più probabile che non”), che si delinea in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del “50% plus unum”.

In materia di rapporto di causalità nella responsabilità civile, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. Ne consegue che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un eventuale contributo “con-causale” di un fattore naturale (quale che esso sia), non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi ad un ragionamento probatorio “semplificato”, tale da condurre “ipso facto” ad un frazionamento delle responsabilità in via equitativa, con relativo ridimensionamento del “quantum” risarcitorio.

In tema di responsabilità civile, qualora la produzione di un evento dannoso, quale una gravissima patologia neonatale (concretatasi, nella specie, in una invalidità permanente al 100 per cento), possa apparire riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla pregressa situazione patologica del danneggiato (la quale non sia legata all’anzidetta condotta da un nesso di dipendenza causale), il giudice deve accertare, sul piano della causalità materiale (rettamente intesa come relazione tra la condotta e l’evento di danno, alla stregua di quanto disposto dall’art. 1227, comma 1, c.c.), l’efficienza eziologica della condotta rispetto all’evento in applicazione della regola di cui all’art. 41 c.p. (a mente della quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione e l’omissione e l’evento), così da ascrivere l’evento di danno interamente all’autore della condotta illecita, per poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause sul piano della causalità giuridica (rettamente intesa come relazione tra l’evento di danno e le singole conseguenze dannose risarcibili all’esito prodottesi) onde ascrivere all’autore della condotta, responsabile “tout court” sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all’evento di danno, bensì determinate dal fortuito, come tale da reputarsi la pregressa situazione patologica del danneggiato che, a sua volta, non sia eziologicamente riconducibile a negligenza, imprudenza ed imperizia del sanitario>>.

Secondo questa sentenza quindi, una volta ascritto (sul piano eziologico) l’intero evento di danno all’autore della condotta, il Giudice potrebbe (in determinate ipotesi) procedere, «eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa incidenza della varie concause sul piano della causalità giuridica (…) onde ascrivere all’autore della condotta, responsabile tout court sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non ricomprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili etiologicamente all’evento di danno bensì determinate dal fortuito, come tale inteso la pregressa situazione patologica del danneggiato non eziologicamente riconducibile, a sua volta, a negligenza, imprudenza, imperizia del sanitario».

Qui però occorre distinguere con chiarezza due aspetti, la predisposizione dalla situazione patologica pregressa: “E così, si è affermato che la regola tradizionale potrebbe subire una deroga (con la conseguente ammissibilità di una decurtazione del risarcimento) nelle ipotesi di “aggravamento” dello status quo ante, ossia nei casi in cui la vittima presentava, già prima del sinistro, una vera e propria menomazione o patologia limitante; per converso, il principio enunciato dalla Cassazione (nel senso dell’“all or nothing”) dovrebbe essere mantenuto fermo nel caso della vittima che, per profili personali, era “predisposta” ovvero più vulnerabile, ma non si trovava in una condizione invalidante (cd. thin skull rule)” (Bona, 2005).

Analogamente Zorzit, 2012, commentando proprio la sentenza di cui stiamo trattando: “Più in generale, quindi, non pare azzardato sostenere che i casi sono essenzialmente riconducibili a due categorie: se la vittima è affetta da una pregressa menomazione di per sé invalidante, le condotte (dolose/colpose) che incidano su tale status (determinando un peggioramento delle condizioni di salute) daranno sempre luogo ad una ipotesi di “aggravamento” e il risarcimento sarà proporzionato al solo danno che oggettivamente è stato cagionato dall’agente (in applicazione del principio di causalità). Nessuna “riduzione” del quantum sarà invece possibile, e quindi l’autore risponderà “per intero”, se la vittima è (solo) “predisposta” o “vulnerabile” (ma non invalida)!.

D’altronde la distinzione tra patologia pregressa e predisposizione è ben presente, da molto tempo, nella giurisprudenza. Infatti, nel caso esaminato da Cass. n. 5539/2003, il Supremo Collegio ha annullato la decisione di secondo grado secondo cui l’invalidità subita dalla vittima (forte stato depressivo) per effetto del demansionamento doveva ascriversi, per il 50%, alla predisposizione fisica e ad infermità pregresse; ugualmente Cass. n. 12339/1999 ha cassato la sentenza del giudice d’appello che, nel recepire la valutazione e le conclusioni del CTU nominato, aveva ritenuto che del pregiudizio complessivo derivato al lavoratore (in seguito ad infarto), solo un terzo era stato determinato da stress occupazionale, mentre la restante quota andava riferita ad una patologia genetica.

Addirittura una particolare labilità individuale del danneggiato potrebbe aggravare la responsabilità del danneggiante; le seguenti sentenze, che trattano problemi di igiene del lavoro, possono in genere riguardare tutti i danni alla persona, a prescindere dall’ambito in cui è collocato l’evento: “Sul punto va richiamato il principio di carattere generale affermato dalla Corte di Cassazione, secondo il quale la dimostrazione dell’inefficacia causale del rischio non può essere prodotta facendo riferimento a parametri standardizzati, neppure quelli legislativamente previsti a fini prevenzionali. Infatti, i valori limite normativamente indicati, pur avendo introdotto elementi di maggiore certezza, tuttavia non stabiliscono una precisa linea di demarcazione tra innocuo e nocivo. D’altronde, la normativa prevenzionale enuncia criteri cui le aziende sono tenute ad uniformarsi, ma non può costituire idonea fonte di valutazione delle richieste di prestazioni assicurative, per le quali è sempre necessario l’accertamento medico-legale che deve valutare la risposta individuale del soggetto alla causa nociva, diversa essendo la capacità di resistenza di ciascun individuo” Cassazione nn. 9860/92, 4488/92, 2500/97.”

Quanti spunti, quanti istituti, quanti fenomeni in relazione tra loro e autonomi al tempo stesso, quante interferenze di tipo civilistico e penalistico. Quanto importante alla luce di questo, indagare sui traumi che agiscono sul fisico e sulla psiche, che non si può sostenere siano a questo punto tutti “aspecifici”. Nel loro “unicum” i traumi potrebbero svilupparne atlri, così come sviluppare patologie (pensiamo a quelle oncologiche ad es.). Occorre quindi  verificare il caso concreto.

Ma io mi ero prefigurata anche altro, la mia idea del termine andava oltre quanto riportato in questo saggio, trasposta in modo forzoso e forse errato, nel penale. Mi spiego. Tanto scriviamo e dibattiamo sul sito della rivista che mira proprio a percorrere setnieri inesplorati o poco noti.

Sulla falsariga del pensiero e metodo lombrosiano, alla sottoscritta viene da chiedersi se possano ritenersi ammissibili profili criminali e delinquenziali legati non solo alla genetica, al contesto socio-culturale, alla necessità, alla predisposizione, ecc., ma che si possano ricondurre alle c.d. preesistemze, in questo caso con accezione forzatamente e in modo del tutto personale ampliata, trasformata e spostata sul piano psicologico. Traumi latenti, ricordi, choc, sensazioni ed emozioni inespresse… un mondo dell’inconscio imprescrutabile e imprevedibile anche agli stessi soggetti che li portano dentro. Pensiamo ai soggetti accusati di pedofilia, che spesso ricorrono all’alibi/spiegazione/giustificazione di essere stati a loro volta vittima di abusi, di averli rimossi e ricordati solo a distanza di anni. Pensiamo agli adulti criminali segnati nella loro condotta da elementi – preesistenti – appunto, inconsci, che escono all’improvviso. Da giurista e penalista mi chiedo e vi chiedo: è pensabile ipotizzare accanto alle preesistenze psicofisiche come parametro per la valutazione del danno non solo in re ipsa (emotività, sessualita, aspetto estetico ed anatomico, ecc.), anche quelle profonde dell’inconscio che non solo spiegherebbero le condotte criminali, ma anche le alterazioni della sfera psicologica del reo (emozioni, pensieri, motivazioni, ecc.)?

Che il dibattito si apra, io nel mentre ringrazio l’illuminante Prof. Dominici.

Per una bibliografia del Prof. Dominici

http://www.alea96.it/pubblicazioni.html

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