foto di Angela Allegria
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Le supplici di Eschilo fra classicità e modernità

Dott.ssa Angela Allegria

Il tremore e le paure, l’ansia e gli affanni, il pianto e le grida delle Danaidi riecheggiano ancora giungendo ai nostri giorni carichi di un pathos reale e vissuto, presente come solo la sofferenza umana può passare da un uomo ad un altro uomo.

Così Moni Ovadia mette in scena le Supplici di Eschilo, proposta dall’Inda per la stagione 2015 insieme alla Ifigenia in Aulide di Euripide e alla Medea di Seneca, in una cornice classica, il teatro greco di Siracusa, eppure tanto moderna se si pensa che la Sicilia, il cui territorio si estende più a su di Tunisi, è teatro di continui e terribili sbarchi.

È una storia che si ripete, come annuncia dal cantastorie (un bravissimo Mario Incudine) inserito da Ovadia per raccontare l’antefatto ed il proseguo della storia, per attualizzare nella lingua siciliana ciò che è avvenuto, ma continua ad accadere.

La scelta di mettere in scena un’opera classica tradotta in tre lingue diverse, il siciliano (riconosciuto lingua madre dall’Unesco nel 2010), il greco moderno e l’arabo, esprime l’intenzione del regista di accomunare questi Paesi, ma prima ancora questi popoli, uniti nella sofferenza e nel dolore.

Emergono le problematiche legate all’ingresso dei migranti, ai rifugiati politici, agli esuli in terra straniera.

Alle suppliche delle Danaidi che si recano ad Argo per chiedere asilo, il re Pelasgo (Moni Ovadia) risponde ribadendo la centralità della democrazia, vero potere del popolo. “Iu sugnu u re ri nenti, è u populu sovrano” (“Io sono il re di nulla, è il popolo sovrano”) risponde prima di ritirarsi turbato e diviso dalla decisione da adottare: accogliere le cinquanta figlie di Danao ad Argo vuol dire entrare in guerra con i figli di Egitto, negare loro l’asilo significa abbandonare quelle donne, donne barbare ma di origini greche, al proprio destino.

Così mentre le Danaidi (la prima corifea è Donatella Finocchiaro), dopo aver invocato Zeus e poi supplicato Pelasgo con il capo chino e tenendo in mano religiosamente i segni candidi dei supplici, chiedono di non restare schiave d’Egitto, giungono veloci le navi con i cinquanta figli di Egitto, pronti a riprendersi le proprie donne. Il momento è sottolineato dalle percussioni che aumentano il ritmo e fanno preannunciare il peggio.

L’arrivo degli egizi evidenzia il tema della violenza sulle donne: in scena i figli di Egitto giungono veloci e catturano le proprie promesse con grandi reti, come a voler cacciare una preda o a voler pescare dei pesci. Nulla fa pensare a che la donna non sia un bottino da conquistare con la forza e la spada.

È allora, innanzi all’evidenza dei fatti, che giunge la decisione del popolo: le Danaidi possono entrare dentro le mura e l’intero popolo di Argo si assumerà le conseguenze di tale deliberazione.

In conclusione è lo stesso narratore a svelarsi: “Iu sugnu Eschilu, uomo siciliano”.

Tutta la tragedia, arrivataci incompleta, è intrisa del sentimento religioso di Eschilo, della linearità degli accadimenti, della grandiosità dei personaggi.

Di questi elementi Moni Ovadia fa tesoro, sottolineando con le lingue diverse, con i suoni, con le sontuose coreografie, un dramma umano che non è mai finito ma che deve far riflettere ogni singola persona, dal singolo cittadino, al giurista, al politico per giungere ad una soluzione comune, senza dimenticare che i continui ed inarrestabili flussi migratori non sono solamente un problema della Sicilia o dell’Italia, ma la questione va vista ed affrontata in prospettiva europea.

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