Media, comunicazione immigrazione

Dott. Marino D’Amore

Università L.U.de.S., Lugano (Svizzera)

 Nell’universo semantico giornalistico-televisivo in realtà non sono solo i titoli a sottendere un velato razzismo, ma gli stessi termini che vengono utilizzati dai mass media per indicare i migranti: pensiamo ad “extracomunitario”, utilizzato quasi esclusivamente per indicare gli stranieri provenienti da paesi poveri, e spesso con accezione negativa, “clandestino” , “fondamentalista”, quest’ultimo quasi sempre integralista e musulmano. Dare una connotazione etnica alla notizia significa dare al lettore delle informazioni ulteriori, a volte ridondanti e non necessarie, per la comprensione dell’articolo, ma si rischia, inconsapevolmente o meno, di rafforzare pregiudizi già presenti Sono parole che escludono, alzando barriere invalicabili invece di catalizzare dinamiche dialogiche tra le diversi componenti della società. Tali termini spesso si utilizzano non pensando al loro significato profondo e agli effetti socio-semantici che possono avere sugli individui, sedimentandosi nella società e orientandone le scelte. Sono parole messe in circolo sia da chi sul rifiuto dello straniero ha costruito la propria identità politica, sia da chi, pur dichiarandosi antirazzista, rischia di sottomettersi alle paure e ai pregiudizi contro gli immigrati. Ad utilizzarle non solo giornalisti, ma anche intellettuali e politici, stigmatizzando i cosiddetti migranti e tutto ciò che si riferisce ad essi, alimentando sacche di razzismo e intolleranza. Nei confronti degli immigrati nasce e si diffonde una visione parziale e riduttiva, quasi interamente schiacciata sulla cronaca. Il fenomeno migratorio viene vissuto come costante “emergenza”, “invasione”, “problema da risolvere”. Ma facciamo un passo indietro, la storia può essere chiarificatrice e maestra in questo senso.

Tra il XIX e il XX secolo eravamo noi, gli italiani ad emigrare, inseguendo soprattutto “the american dream”, pronti a cogliere le opportunità che quella terra offriva. Dopo il 1960 l’emigrazione dall’Europa decrebbe velocemente e nei primi anni ’70 la rotta dei flussi migratori cominciò ad invertirsi, con movimenti dai Paesi meno sviluppati a quelli industrializzati e quindi anche al nostro. Una folla eterogenea che fuggiva da persecuzioni politiche o religiose o semplicemente voleva avere un’opportunità per costruirsi un futuro migliore rispetto a quello che la propria terra d’origine poteva garantirgli. L’Italia ha costituito storicamente una delle mete di questo ingente flusso migratorio, trasformandosi da terra di emigrazione a terra di immigrazione. La consapevolezza di questo cambiamento non è avvenuta tramite una cognizione graduale: la questione della presenza straniera è esplosa improvvisamente nel mondo politico, sociale, culturale, nella quotidianità del Belpaese. L’effetto “sorpresa” ha fatto sì che, nell’immaginario collettivo, l’immigrazione stessa venisse percepita come prevaricazione e relegata nell’ambito semantico della problematicità: la marginalità degli immigrati, lo sfruttamento nel lavoro nero, la delinquenza e così via. Un immaginario condiviso che la rappresentazione mediatica ha contribuito a instaurare nei cittadini, avendo riportato didascalicamente sin dall’inizio la questione migratoria con toni allarmistici e drammatici, definendola quasi esclusivamente in termini di “invasione”, influenzando anche l’agenda politica, che ne parla in termini di “problema di sicurezza nazionale” e “interesse di ordine pubblico”.

In termini generali, gli effetti dell’immigrazione evidenziati dalla letteratura scientifica vengono riassunti in: aumento demografico, trasformazione del mercato del lavoro, aumento della flessibilità e della precarietà, diverso uso degli spazi urbani, xenofobia e trasformazione delle identità culturali. Il sistema sociale si trasforma e con esso emerge il problema della regolazione della convivenza tra minoranza e maggioranza, ovvero tra immigrati e società d’accoglienza. A questo proposito comincia già a delinearsi l’uso di specifici termini per descrivere la forma assunta dagli insediamenti delle comunità straniere: Un primo termine, che in realtà appartiene alla storia delle migrazioni del passato, è quello di “colonia etnica”: esso descrive il risultato di un’immigrazione di massa in una determinata area in un Paese straniero. Il termine colonia è solitamente riferito a regioni che si presentavano, all’arrivo degli immigrati, prive di popolazione o comunque poco popolate. Tale termine può essere altresì utilizzato, per estensione, per descrivere raggruppamenti di connazionali in determinate aree o quartieri delle grandi città, ai quali si è soliti riferirsi con appellativi quali, per citarne due particolarmente noti, Little Italy o China Town. A questo termine si accompagna “ghetto”, nel senso di: segregazione in cui spesso vivono gli immigrati in conseguenza delle loro condizioni di povertà e di estraneità agli usi e costumi della società d’accoglienza. Il concetto di ghetto comunque, se è senza dubbio pertinente a descrivere la realtà di molte città americane, appare non altrettanto consono ad essere applicato all’esperienza europea, ove è più facile rilevare, in particolare nei quartieri coinvolti in processi di degrado sociale e urbano, la convivenza indifferenziata di stranieri e autoctoni appartenenti agli strati più bassi della gerarchia sociale. Appare chiaro come, qualunque sia la tipologia d’inserimento degli immigrati, questi ultimi tendano ad essere mal sopportati dai cittadini: questi ultimi li assumono spesso come capri espiatori di situazioni di disagio e degrado che hanno cause non riconducibili, quantomeno immediatamente, al fenomeno dell’immigrazione[1].

Nonostante la grande varietà di teorie sul tema, possiamo ammettere con certezza che i mezzi di comunicazione svolgono un ruolo centrale per la società contemporanea e per i processi ad essa sottesi, perché i media non svolgono soltanto la mera funzione di informare. Infatti, oltre alla funzione denotativa, essi svolgono una funzione connotativa, con implicazioni emotive e affettive, e una terza funzione, ancora più complessa, che è quella simbolica. Dunque l’informazione non è mai fine a se stessa, ma si accompagna con una visione del mondo predeterminata dagli stessi media e insita nel messaggio.
Questo significa che i mezzi di comunicazione influenzano la rappresentazione della realtà sociale in funzione del loro ruolo di mediazione simbolica. Il loro ruolo di produttori, perfino di creatori, di notizie è di uguale importanza. Tuttavia, per quanto sia più o meno distorta intenzionalmente, l’immagine del mondo è sempre definita da una qualche prospettiva, messa a fuoco da qualche lente determinata.

Un primo aspetto da sottolineare è che il difetto di comunicazione sugli immigrati si inscrive in un quadro più complessivo di inadeguata rappresentazione dei diversi soggetti sociali: la strumentalizzazione dell’immagine infantile e la parzialità della rappresentazione delle donne nei media. Nel complesso, quello che possiamo definire un vero e proprio difetto comunicativo può essere ricondotto ad alcune dimensioni caratterizzanti:

– la tendenza alla drammatizzazione dell’informazione e alla spettacolarizzazione del quotidiano;

– la tendenza all’uso di un linguaggio che privilegia la dimensione emotiva piuttosto che quella razionale;

– la superficialità nella verifica delle fonti a favore di un messaggio a effetto;
– la carenza di funzione  e fruizione critica dei prodotti di comunicazione[2].

In questi esempi emerge la capacità dei media di alimentare la cosiddetta “paura del diverso”, comunque presente nella nostra società, esacerbando la dimensione problematica e conflittuale dell’immigrazione, quando, invece, in un’ottica globale e nel rispetto delle più elementari e reciproche regole di uguaglianza e solidarietà, sarebbe raccomandabile un approccio meno semplicistico al fenomeno. Nella società occidentale moderna, i mezzi di informazione svolgono un ruolo fondamentale in quanto non si limitano a catalizzare l’attenzione del pubblico su determinati argomenti, ma ne costruiscono una rappresentazione che viene, poi, generalmente, adottata da chi ascolta o legge come “la” rappresentazione, oggettiva ed incontrovertibile; ciò è tanto più vero nei confronti di quelle persone che non hanno conoscenze personali o esperienze dirette da confrontare con quanto sostenuto dai media e che, dunque, hanno a propria disposizione quella verità mediata; questi soggetti particolarmente deboli sono portati a credere incondizionatamente a quanto viene offerto dai media, in particolar modo ai media audiovisivi che ha, rispetto agli altri mezzi di comunicazione, anche il vantaggio di dare l’illusione di osservare un fenomeno con i propri occhi, mentre, in realtà, sono occhi altrui a selezionare cosa farci vedere. Stante questa enorme importanza dei mezzi di comunicazione ed il loro potere di influire sulle percezioni della realtà da parte di una massa di fruitori dei loro servizi, è tragico notare come, solitamente, scarsissimo sia lo spazio, non solo all’interno dei (tele)giornali, ma anche dei programmi più specificatamente dedicati al tema in questione, lasciato all’approfondimento e alla problematizzazione: del resto, il lavoro di una redazione giornalistica risulta, spesso, così complesso che, per ridurre tempi ed energie, si ricorre a tecniche di standardizzazione utili a razionalizzare e semplificare il lavoro, ottenendo, però, come effetto principale quello di banalizzare, appiattire, semplificare. In questo modo, la continua ripetizione di immagini (sbarchi, gommoni carichi fino all’inverosimile,…) e di espressioni (“emergenza immigrazione”, “ennesimo sbarco di clandestini”,…) stereotipate, oltre ad avere un effetto “ansiogeno” e a contribuire, dunque, alla diffusione del panico e alla “sindrome dell’invasione”, ne ha, paradossalmente, anche uno, per così dire, “abitudinario”: l’abitudine è un ottimo mezzo per fare diventare qualunque cosa insignificante; unita poi ad una pressoché totale mancanza di approfondimento, non solo impedisce di considerare i diversi aspetti del problema, riducendo i fenomeni dell’immigrazione, della clandestinità e della criminalità ad un unico indifferenziato fenomeno, ma porta anche e soprattutto a pensare che tutto ciò sia assolutamente normale (il bisogno di fuggire, i viaggi disperati, gli sbarchi in mezzo al mare, la considerazione che l’opinione pubblica ha dell’immigrato), mentre non lo è, non lo può essere e ci si dovrebbe chiedere se davvero stiamo rispettando i valori propri di una società democratica[3].

È proprio questa superficialità, comunque, che sembra essere richiesta dal pubblico che non fruisce criticamente, un pubblico evidentemente poco propenso ad approfondire ed analizzare a fondo i problemi, magari astraendoli dal quotidiano fatto di cronaca e molto più interessato ad individuare un nemico comune, un capro espiatorio, dunque a soddisfare un bisogno emotivo: il pubblico “percepisce la situazione solo dal versante degli effetti negativi” perché è così che si vuole che essa venga rappresentata ed è così che essa, puntualmente, ci viene descritta.

Il problema in questione, dunque, non è creato dai mezzi di comunicazione, , ma è già presente nella società, nella sua cultura (la quale, a sua volta, è influenzata in maniera decisiva dai media, secondo dinamiche meccanicistiche; è evidente, infatti, che una certa “paura del diverso”, quando non addirittura vere e proprie forme di xenofobia, è latente nella nostra società. D’altronde, la trattazione giornalistica di un tema dipende anche e soprattutto dall’attenzione che in un certo periodo viene dedicata dall’opinione pubblica al tema stesso: per quello che riguarda il nostro paese, se fino alla seconda metà degli anni ’80 la percezione del problema era assai scarsa, successivamente anche gli italiani hanno dovuto rendersi conto di essere diventati, da paese di emigranti (il che non dovrebbe essere mai dimenticato) a paese a forte immigrazione e, di conseguenza, anche i mezzi di comunicazione hanno cominciato ad occuparsi del fenomeno, generalmente in seguito al verificarsi di eventi particolarmente drammatici che lo hanno imposto all’attenzione dell’opinione pubblica.

Un processo di formazione potrebbe essere agevolato proprio dai mezzi di comunicazione, tentando di abbattere questo muro di pregiudizi: un passo avanti sarebbe, indubbiamente, rappresentato, ad esempio, dall’inserimento nelle redazioni di autori o collaboratori provenienti da paesi di emigrazione, dal momento che, generalmente, quando si parla di immigrati, manca sempre il “loro” punto di vista: è evidente, infatti, che un immigrato ospite di un talk-show o semplicemente intervistato all’interno di un “servizio” non ha la stessa possibilità di un autore di un programma televisivo di interpretare il fenomeno del conflitto etnico e della discriminazione e, anzi, rischia spesso di incentrare il discorso eccessivamente sul proprio caso, sul singolo episodio di cronaca che lo ha riguardato, lasciando in secondo piano il tema nella sua portata generale; il sospetto, ancora una volta, però, è che il vero scopo sia proprio questo: invitare il singolo, fargli raccontare la sua triste storia perché, la TV verità raccoglie molti consensi tra il pubblico, evitando accuratamente di addentrarsi nel cuore del problema. Sarebbe raccomandabile, da parte di chi “fa” informazione, un atteggiamento meno propenso alla ricerca della spettacolarizzazione, meno “schiavo degli ascolti” e più orientato verso l’analisi e l’approfondimento, al fine di astrarre i problemi dal caso particolare, dall’episodio, per cercare di giungere, se non alla loro soluzione, quantomeno ad un’impostazione più oggettiva che permetta all’opinione pubblica, che sarà, poi, quella che entrerà in contatto diretto con gli immigrati, di cogliere a fondo l’origine di questi problemi e le loro diverse sfaccettature, in un’ottica non più unidimensionale di semplice contrapposizione “noi”/”loro”. Questo non è un problema esclusivo dell’immigrazione, ma riguarda anche altri importanti fenomeni, generalmente di reazione al sistema, di critica della società in cui viviamo che vengono, in genere, anziché affrontati dialetticamente e sulla base di fatti oggettivi, “etichettati” il più in fretta possibile e nel modo peggiore per evitare che possano trovare adesioni anche fra il “grande pubblico”[4].

Tutti aspetti che ostacolano la fondamentale e necessaria pluralità dell’informazione a cui il pubblico dovrebbe sempre avere diritto e che dovrebbe richiedere a gran voce quando gli viene negata.

BIBLIOGRAFIA

  1. D. Beetham, La teoria politica di Max Weber, Il Mulino,  Bologna 1989.
  2. M. Boschi, La violenza politica in Europa: 1969-1989. Yema editore, Milano  2005.
  3. F. Ferraresi, Il fantasma della comunità. Concetti politici e scienza sociale in Max Weber, Franco Angeli, Milano 2003.
  4. R.Fortner, International communication : history, conflict, and control of the global metropolis, Wadsworth,  Belmont 1993.
  5. M. Giacomarra, Al di qua dei media, Meltemi, Roma, 2000.
  6. A. Giddens,  Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna, Il Mulino 2000.
  7. P.Musarò, P. Parmiggiani, Media e migrazioni, Franco Angeli, Roma 2004
  8. H. Jenkins, Convergence Culture. Where Old and New Media Collide, New York University Press, New York e Londra 2006.

[1] F. Ferraresi, Il fantasma della comunità. Concetti politici e scienza sociale in Max Weber, Franco Angeli, Milano 2003.

[2] P.Musarò, P. Parmiggiani, Media e migrazioni, Franco Angeli, Roma 2004.

[3] A. Giddens,  Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna, Il Mulino 2000.

[4] M. Giacomarra, Al di qua dei media, Meltemi, Roma, 2000.

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