Responsabilità dell’avvocato per violazione del dovere di colleganza e del divieto di aggravio della condizione della controparte

 

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE – SENTENZA 2 agosto 2012, n.13797

A cura della D.ssa Piera Iacurto

 

Massima

Viola l’art. 22 del Codice deontologico Forense l’avvocato che sulla base di sentenza favorevole al proprio cliente, nonostante la modestia – in relazione alle condizioni economiche del debitore del credito accertato nella pronunzia giurisdizionale e pur in assenza di un rifiuto esplicito di dare spontanea esecuzione alla sentenza, notifichi al debitore atto di precetto (così aggravando la posizione debitoria di questo), senza previamente informare l’avvocato dell’avversario della propria intenzione di dare corso alla procedura esecutiva”.

 

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 1° agosto 2012, n. 13797

Svolgimento del processo

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona, a conclusione del procedimento disciplinare avviato a

seguito di esposto dell’avv. M..G. a carico dell’avvocato M..V. , con provvedimento del 19.11-18.12.07,

irrogò a quest’ultimo la sanzione disciplinare dell’avvertimento, “per aver violato il dovere di colleganza

avendo in data 15 settembre 2003-19 settembre 2003 notificato alla società Patuzzo Costruzioni

Generali S.r.l. – difesa dall’Avv. M..G. – la sentenza del Giudice di Pace depositata l’1 settembre 2003, a

cui in data 10 settembre 2003 aveva fatto apporre la formula esecutiva, senza che il dispositivo della

sentenza fosse stato ancora comunicalo alle parti e senza curarsi di accertare se il legale di controparte

avesse ricevuto notizia del dispositivo stesso, né rendendo la stessa edotta dell’intervenuto deposito di

detta sentenza, né chiedendo all’Avv. G. quali fossero le intenzioni della sua cliente in ordine al

pagamento della sentenza onde evitare alla società Patuzzo Generali Costruzioni S.r.l. l’aggravio delle

competenze di precetto: con ciò violando l’art. 38 L.P. in riferimento all’art. 49 ed all’art. 22 del Codice

Deontologico Forense approvato dal C.N.F. nella seduta del 17.04.1997 e successive modifiche. Fatti

Commessi in (omissis) “.

All’esito del tempestivo ricorso dell’incolpato, non resistito dall’intimato C.O.A. con decisione del

26.2.09, depositata il 18.5.09, il Consiglio Nazionale Forense accolse l’impugnazione ritenendo

l’insussistenza di alcun obbligo deontologico nei sensi di cui alla riportata contestazione.

Ma a seguito del ricorso del C.O.A., cui aveva resistito il V. . questa Corte a Sezioni Unite, con sentenza

n. 27214 pubblicata il 23.12.2009, in accoglimento del secondo motivo, cassò con rinvio la sentenza

impugnata, affermando il seguente principio, “viola l’art. 22 del Codice deontologico Forense l’avvocato

che sulla base di sentenza favorevole al proprio cliente, nonostante la modestia – in relazione alle

condizioni economiche del debitore del credito accertato nella pronunzia giurisdizionale e pur in assenza

di un rifiuto esplicito di dare spontanea esecuzione alla sentenza, notifichi al debitore atto di precetto

(così aggravando la posizione debitoria di questo), senza previamente informare l’avvocato

dell’avversario della propria intenzione di dare corso alla procedura esecutiva”.

Riassunto il processo dal C.O.A. di Verona con ricorso depositato il 7.5.2010, nella resistenza dell’avv.

V. , il Consiglio Nazionale Forense, con decisione dell’11.11.2010, depositata il 21.4.2011 confermava

la responsabilità disciplinare ascritta all’incolpato e la conseguente sanzione dell’avvertimento.

Disattese le preliminari eccezioni deducenti la tardività della proposizione del ricorso, l’erroneità delle

relative modalità di presentazione e la carenza al riguardo di legittimazione e costituzione del C.O.A, il

suddetto giudice di rinvio, preso atto della pronunzia di questa Corte e ritenuta la natura vincolante non

solo del principio in essa affermatola anche delle relative premesse logico-giuridiche e, dunque, degli

“accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione”, osservava che non potevano essere

diversamente rivalutati i fatti oggetto del procedimento disciplinare, in ordine ai quali risultava

vincolante il giudizio espresso in sede di legittimità; sicché non avrebbe potuto che “affermarsi la

responsabilità disciplinare dell’avv. V.M. in ordine ai fatti oggetto dell’incolpazione…ed applicarsi al

medesimo la sanzione dell’avvertimento, ritenuta congrua e rapportata alla gravità dei fatti contestati,

come del resto ritenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona….”.

Avverso tale decisione l’avvocato V. ha proposto tempestivo ricorso a queste Sezioni Unite, deducendo

sette motivi.

L’intimato C.O.A. non ha svolto in questa sede ulteriori attività.

Motivi della decisione

p.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia “violazione dell’art. 360 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 64

R.D.22.1.1934 n. 37 e art. 132 c.p.c.”, deducendo la nullità della sentenza per mancanza della

sottoscrizione del giudice relatore, firma che, sebbene non espressamente prevista nella norma speciale

citata, sarebbe necessaria, sia al fine di consentire la verificazione dell’osservanza della stessa, nella

parte imponente che la redazione della sentenza sia affidata a detto componente del collegio, sia in virtù

dell’applicazione analogica degli artt. 132 del c.p.c. e 546 c.p.p., tanto più in considerazione

dell’applicabilità al procedimento speciale in questione, più volte affermata nella giurisprudenza di

legittimità, delle norme processuali, ove non in contrasto, del codice di rito civile.

Il motivo non merita accoglimento, alla luce del principio già enunciato da queste Sezioni Unite,

secondo cui “ai sensi di quanto disposto, in via generale, dall’art. 44 dei regio decreto 22 gennaio 1934

n. 3. sull’ordinamento della professione di avvocato e con riferimento alle deliberazioni in materia

disciplinare, dagli artt. 51 e 64 dello stesso decreto, norme aventi carattere speciale rispetto alla

disposizione dell’art. 132, ultimo comma cod.proc.civ., le deliberazioni del Consiglio nazionale forense

sono sempre sottoscritte dal solo presidente e segretario, non anche del relatore, senza che ciò determini

alcun contrasto con gli artt. 24 e 101 Cost.” (sent. n. 11750 del 24.6.2004).

Da tale indirizzo il collegio non ravvisa motivi per doversi discostare, considerato che il proposto

procedimento di applicazione analogica delle norme codicistiche, peraltro contrastante con il principio

generale di tassatività delle nullità, presupporrebbe una lacuna normativa, nella specie insussistente,

tenuto conto della presenza nella legge speciale delle citate norme ad hoc, che il legislatore ha ritenuto

sufficienti a garantire sia mediante la sottoscrizione da parte del presidente, la conformità della

decisione alla volontà del collegio, sia, mediante quella del segretario, la provenienza della stessa

dall’organo decidente.

p.2. Con il secondo motivo si deduce “violazione dell’art. 360 nn. 4 e 5 c.p.c. in relazione all’art. 392 e

394 c.p.c. e art. 59 e 60 R.D. 37/1934 e art. 101 c.p.c.”, ribadendo l’eccezione di “inammissibilità e

improcedibilità” del ricorso riassuntivo, in quanto notificato, in data 27.4.10, e successivamente

depositato presso la sede del C.N.F., c non anche presentato presso gli uffici dell’Ordine locale.

Si censurano le ragioni reiettive di tale eccezione esposte nella decisione impugnata, secondo cui la

norma speciale non avrebbe potuto applicarsi al giudizio di rinvio, regolato invece dall’art. 392 c.p.c.,

obiettando che tale motivazione sarebbe frutto di “mancato coordinamento delle norme in questione”,

non tenendo conto, in particolare, che secondo l’art. 394 c.p.c., in sede di rinvio si osservano le norme

stabilite per il procedimento davanti al giudice cui la causa è stata rinviata e che nella specie, “non

potendosi azionare Tatto di citazione”, sarebbe stato “giocoforza operare con il ricorso in riassunzione”

e seguire le norme speciali sopra citate prevedenti, a pena di inammissibilità e improcedibilità, modalità

diverse da quelle in concreto seguito dal riassumente C.O.A., prevedenti una “serie di passaggi

attraverso i quali le parti… hanno la possibilità di esprimere ogni loro idonea difesa” prendendo visione

degli atti, proporre deduzioni ed esibire documenti, fase al termine della quale soltanto gli atti avrebbero

dovuto essere trasmessi al C.N.F., la cui omissione si sarebbe tradotta nella lesione del diritto di difesa

delle parti.

Anche tale motivo va disatteso, per ragioni inverse rispetto a quelle esposte in precedenza, ed alla luce

di una precedente pronunzia di queste Sezioni Unite, che il collegio condivide ed alla quale intende dare

continuità, secondo cui “la riassunzione del giudizio disciplinare davanti al Consiglio nazionale forense

a seguito di sentenza di cassazione con rinvio deve essere compiuta secondo il disposto dell’art. 392

c.p.c….” (sent. n. 17938 del 1.7.2008). Tanto in considerazione dell’assenza, nell’ambito della legge

speciale forense (in particolare nell’art. 56 u.c. del RDL. N. 157871933), di una specifica disposizione

regolante le modalità di proposizione del giudizio di riassunzione, e della conseguente necessità, in virtù

del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, a termini del quale, nei procedimenti disciplinari

in questione vanno osservate le norme particolari che per ogni singolo istituto sono dettate dalla legge

professionale e, in mancanza, quelle del codice di procedura civile (v. tra le altre, 558/98).

Nel caso di specie, dunque, le norme processuali di riferimento, in assenza di speciali disposizioni,

erano quelle di cui agli artt. 392 c.p.c. e 125 delle disposizioni di attuazione dello stesso codice,

secondo le quali la (re)instaurazione del contraddittorio in sede di giudizio di rinvio va compiuta nelle

forme della vocatio in ius (tale dovendosi considerare anche un ricorso direttamente notificato

all’incolpato e poi depositato presso il C.N.F., ove la notifica sia, come nella specie, tempestivamente

intervenuta entro il termine previsto per la riassunzione), mentre non avrebbero dovuto applicarsi le altre

particolari disposizioni, prevedenti il deposito dell’atto presso la segreteria del C.O.A., in quanto

specifiche dell’originario giudizio impugnatorio ed assolventi ad esigenze (essenzialmente quelle di

rendere noti gli atti su cui si basa l’impugnazione e consentire alla controparte di produrre, a sua volta,

ulteriori atti o documenti), del tutto proprie di tale iniziale fase processuale, ed insussistenti nel giudizio

“chiuso” di rinvio, nel quale non sono ammesse nuove conclusioni o produzioni, a meno che la relativa

esigenza non sia sorta in conseguenza della sentenza rescindente.

Ne consegue, a parte la genericità della censura (che non specifica in quali concreti termini, con

riferimento ad eventuali atti non potuti esaminare o non potuti produrre, siano state nella specie lese le

proprie garanzie difensive), l’inconferenza del richiamo all’art. 394 c.p.c. nella parte attinente alle

modalità introduttive del giudizio di rinvio, che al riguardo ricade nell’orbita di applicazione delle

generali regole codicistiche, mentre soltanto nelle successive fasi del suo svolgimento e della relativa

decisione, è da ritenersi regolato dalle speciali norme disciplinanti il giudizio impugnatorio de quo.

p.3. Con il terzo motivo si deduce “violazione dell’art. 360 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 83 c.p.c. e 392

e 394 c.p.c.”, censurandosi la reiezione dell’eccezione con la quale era stata dedotta la carenza di

legittimazione processuale del C.O.A., per non essere stata prodotta alcuna delibera autorizzativa alla

riassunzione e nomina del difensore.

Si sostiene che nel caso di specie non sarebbe stato sufficiente il richiamo al combinato disposto degli

artt. 392 c.p.c. e 125 disp. att. c.p.c. (non esigenti il rilascio di una nuova procura alle liti nel giudizio di

riassunzione), non essendosi considerato che “l’avv. R. aveva ottenuto una nuova procura e tale

autorizzazione alla costituzione processuale doveva essere deliberata dal Consiglio dell’Ordine e tale

deliberazione doveva essere prodotta agli atti”, che neppure ai tini del precedente ricorso per cassazione

era stata prodotta analoga deliberazione, che nessun rilievo poteva ascriversi alla circostanza che il

difensore non avesse all’udienza dell’11.11.10 sollevato alcuna contestazione al riguardo, essendosi egli

riportato alle eccezioni preliminari contenute nella memoria difensiva ed avendo concluso per la

dichiarazione di inammissibilità dell’atto di riassunzione, riportandosi nel merito al ricorso, che infine

tale inammissibilità non avrebbe potuto ritenersi sanata dalla successiva costituzione con un nuovo

procuratore, essendosi questi “riportato pedissequamente” a quanto dedotto dal precedente,

invalidamente costituitosi.

Anche tale motivo è privo di fondamento.

Premesso che, come si è già precisatola riassunzione del procedimento disciplinare forense va compiuta,

in assenza di norme specifiche contenute nella legge speciale, secondo le generali disposizioni contenute

nel codice di procedura civile e nelle relative norme attuati ve (nella specie gli artt. 392 c.p.c e 125 disp.

att.) e considerato che, come già più volte evidenziato da questa Corte al riguardo, “poiché il giudizio di

rinvio costituisce la prosecuzione del giudizio di primo o di secondo grado conclusosi con la sentenza

cassata la parte che riassume la causa davanti al giudice di rinvio non è tenuta a conferire una nuova

procura al difensore che lo ha già assistito nel pregresso giudizio di merito” (Sent. 7983 del 1.4. 10.

conf. n.n. 4663/01, 1217/89), è sufficiente osservare che, non essendo dalle citate norme richiesta una

nuova procura difensiva, ma soltanto l’indicazione di quella precedente, in virtù della quale fu instaurato

il giudizio impugnatorio, poco o punto rilevava, in un contesto nel quale la riassunzione era stata operata

dal legale validamente nominato ab initio, la circostanza che al medesimo fosse stato rinnovato, con o

senza ulteriore delibera autorizzativa del C.O.A il mandato, non essendo tale rinnovazione necessaria al

fine suddetto.

Tale dirimente rilievo comporta il reiettivo assorbimento dei rimanenti profili di censura.

p.4. Con il quarto motivo si deduce “violazione dell’art. 360 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 392 e 394

c.p.c.”, per non essere stata rilevata la non coincidenza tra le richieste rassegnate dal COA nel

ricorso per riassunzione e nella successiva udienza di precisazione delle conclusioni, anche con

riferimento a quelle contenute nel precedente ricorso per cassazione.

Il motivo è manifestamente infondato, considerato che la richiesta formulata in sede di precisazione

delle conclusioni, di confermare “il provvedimento sanzionatorio originale”, sostanzialmente conforme,

mutatis verbis, a quella esposta in sede di legittimità, di “riaffermazione della legittimità della sanzione

inflitta”, non può ritenersi esorbitante, costituendone soltanto una specificazione, rispetto a quella

formulata nel ricorso riassuntivo, di “applicare…la sanzione disciplinare che riterrà congrua”, a sua volta

conforme ex art. 394 c.p.c. alle originarie richieste.

Tale sanzione, peraltro, pur tenendo conto della limitazione, a seguito della sentenza di questa Corte,

dell’affermazione di illiceità della condotta tenuta dall’incolpato alla sola seconda parte dell’originario

addebito (quella di aver notificato ex abrupto la sentenza in forma esecutiva ed il precetto), non avrebbe

potuto essere diversa da quella dell’avvertimento, già applicata dal C.O.A., costituendo la stessa quella

minima prevista dall’art. 40 R.DL. 1578/33.

p.5. Con il quinto motivo si deduce “violazione dell’art. 360 n. 4 e 5 c.p.c. in relazione all’art. 392 e 394

c.p.c.”, censurandosi, in quanto non esaustività motivazione posta a base della conferma della

responsabilità disciplinare dell’incolpato, secondo cui il principio affermato nella sentenza di legittimità

avrebbe comportato, a guisa di giudicato interno, l’impossibilità di rivalutare i fatti oggetto del

procedimento disciplinare, in contrario obiettandosi che nella decisione di legittimità vi era stata una

valutazione, ai fini della configurabilità dell’illecito di cui all’art. 22 del Codice Deontologico forense,

solo quale astratta ipotesi di condotta “contestata”, non anche concretamente “tenuta” (parola

quest’ultima significativamente interlineata con postilla e sostituita con quella precedente) dall’avv. V.

ed in quella sede “discussa”. Conseguentemente, pur essendo vincolato dall’enunciato principio di

diritto, il giudice disciplinare cui il giudizio era stato rinviato per nuovo esame nel merito, in quanto

esclusivamente competente all’apprezzamento della rilevanza dei fatti rispetto alla incolpazione”, non

avrebbe potuto esimersi da tale vantazione; sicché la decisione del C.N.F., già impugnabile per

violazione di legge, lo sarebbe stata anche per vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., in virtù della

sostituzione dell’art. 360 c.p.c. disposta dall’art. 2 della legge n. 40 del 2006, in cospetto dell’obiettiva

deficienza del criterio logico che aveva condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento

ed in assenza di alcuna concreta disamina delle ragioni giustificative, richiamate nel mezzo

d’impugnazione, addotte dall’incolpato in sede di merito.

Il motivo non merita accoglimento.

Il C.N.F., nel confermare l’affermazione di colpevolezza relativamente al secondo segmento della

condotta ascritta all’avv. V. , quello di aver notificato direttamente alla controparte soccombente la

sentenza in forma esecutiva ed il precetto, senza aver previamente interpellato la collega che l’aveva

difesa, era vincolato non solo dalla regula iuris enunciata da queste Sezioni Unite, con la quale era stata

affermata, cassandosi in parte de qua la precedente decisione assolutoria, la rilevanza disciplinare

dell’addebito ma anche dall’accertamento dei fatti che ne costituivano il presupposto (in tal senso, v, tra

le altre Cass. nn. 17352/10, 26241/09, 616/98), che erano incontroversi, in quanto documentalmente

provati. In siffatto contesto processuale, nessuno spazio residuava al giudice del rinvio, non solo in

ordine alla valutazione, sotto il profilo deontologico, della condotta in questione, compiuta da questa

Corte e parzialmente confermativa di quella in precedenza operata dal C.O.A. in sede amministrativa,

ma anche con riferimento alla concreta sussistenza della stessa, costituente un pacifico presupposto di

fatto, sulla base del quale era stato formulato, quel giudizio. Poco o punto rilevava, pertanto,

l’evidenziata correzione contenuta nella sentenza rese indente, tanto più ove si consideri che il ricorrente

neppure in questa sede nega di aver commesso i fatti ascrittigli, limitandosi a ribadire quelle stesse

doglianze con le quali aveva tentato di sminuirne il disvalore deontologico, così finendo con il rimettere,

inammissibilmente (v., tra le altre e più recenti, Cass. n. 3458/12) in discussione il principio di diritto in

questa sede enunciato e, nel sostenere che al solo giudice di merito sarebbe spettato il relativo

apprezzamento della condotta sotto il profilo disciplinare, e la stessa funzione nomofilattica spettante a

questa Corte.

p.6. Con il sesto motivo si deduce “violazione dell’art. 360 n. 3, c.p.c. in relazione all’art. 111

Costituzione”, prospettando “ombre di illegittimità costituzionale” nel sistema disciplinare forense, in

considerazione della mancanza di collegamento tra i fatti previsti quali illeciti dal Codice Deontologico

Forense e la legge professionale, che si limita a prevedere la varie sanzioni senza alcun riferimento ad

ipotesi tipiche, con la conseguente attribuzione al giudice della più ampia discrezionalità nella relativa

scelta; ne conseguirebbe il contrasto sia con il “principio di predeterminazione legale del processo” di

cui al citato articolo della Costituzione, sia con quello di eguaglianza, per le “disparità di trattamento

non solo all’interno dello stesso Ordine, ma anche nei confronti di altri ordini e poteri”, per i quali (come

nel caso della magistratura ordinaria, con il passaggio dal R.D. n. 511/46 al Dlgs.n. 109/06) l’assenza di

predeterminazione delle sanzioni disciplinari è stata superata.

Il motivo è inammissibile, per difetto di interesse, comportante la conseguente irrilevanza della

questione di legittimità costituzionale, considerato che nella specie, come già in precedenza evidenziato,

la sanzione irrogata è stata quella dell’avvertimento, vale a dire quella più lieve prevista dalla normativa

professionale forense; sicché il censurato ampio margine di discrezionalità, attribuito al giudice di

merito, non può essersi, comunque, tradotto in un concreto pregiudizio del l’incolpato.

p.7. Con il settimo motivo si deduce violazione dell’art. 360 n. 4 e 5 c.p.c. censurandosi la motivazione

relativa alla scelta della sanzionerà per genericità, segnatamente per non aver dato conto della

valutazione di gravità dell’illecito nel contesto di una vicenda marginale e, come affermato dalla stessa

Corte di Cassazione, modesta sotto il profilo economico, sia per incoerenza ed illogicità del richiamo al

provvedimento del C.O.A. considerato che per il primo dei due fatti originariamente ascritti (quello di

aver fatto apporre la formula esecutiva sulla sentenza, senza curarsi di accertare se il legale di

controparte fosse a conoscenza del relativo deposito, né di informarlo) vi era stata pronunzia assolutoria

da parte del C.N.F., confermata dalla sentenza di legittimità; sicché ingiustificato sarebbe stato il

riferimento alla valutazione, da parte dell’organismo forense locale, alla complessiva “gravità dei fatti

contestati”, atteso che uno degli stessi era venuto meno.

Anche tale motivo è inammissibile, per ragioni analoghe a quelle esposte con riferimento al precedente,

considerato che la valutazione di “gravità” che si assume generica, non avrebbe potuto comunque

comportare l’irrigazione di sanzioni più lievi di quella inflitta.

p.8. Il ricorso va, conclusivamente, respinto.

p.9. Non vi è luogo, infine, a regolamento delle spese, in assenza di controparti, resistenti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

 

Norme di riferimento

Artt. 22 e 49 del Codice Deontologico Forense; art 38 Legge professionale – rdl 27 novembre 1933, n. 1578

 

Casus decisus

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati irrogava all’Avv. M.V. la sanzione disciplinare dell’avvertimento, contestando la violazione del dovere di colleganza sancito dal codice deontologico forense, per aver notificato.

Ciò in quanto il V., non appena avuta la notizia del deposito del dispositivo di una sentenza favorevole alle ragioni del proprio assistito, notificava immediatamente un atto di precetto alla parte soccombente, senza aver accertato che il legale della controparte avesse avuto notizia del dispositivo della suddetta sentenza e senza aver chiesto preventivamente a quest’ultimo notizie circa l’adempimento del proprio cliente.

Dall’instaurazione del procedimento esecutivo, peraltro, scaturiva un aggravio di spese per la controparte.

A seguito dell’applicazione della misura disciplinare, ricorreva dinanzi alla Suprema Corte il professionista sanzionato affinché il provvedimento emesso dal Consiglio dell’Ordine fosse cassato, motivando la propria censura, tra l’altro, su una falsa applicazione delle norme del codice deontologico e lamentando una violazione del principio costituzionale di eguaglianza.

Il Giudice di legittimità rigettava il ricorso e, in conformità ad un indirizzo interpretativo costante, confermava la misura dell’avvertimento in capo al V.

Quesito:

E’ sanzionabile per violazione del dovere di colleganza e del divieto di aggravio l’Avvocato che notifica un precetto, fondato su una sentenza in proprio favore, per soddisfare le ragioni del cliente, senza aver prima constatato che la controparte sia a conoscenza del dispositivo e senza aver preso informazioni da quest’ultima circa la solvibilità del credito?

Nota esplicativa

La pronuncia in esame tratta degli obblighi deontologici dell’Avvocato nei confronti dei propri colleghi, sollevando una riflessione sugli obblighi informativi a carico del professionista.

In particolare, essa ha ad oggetto la violazione dell’obbligo di colleganza, sancito all’art 22 del Codice deontologico forense, e la violazione del divieto di aggravio della posizione debitoria della controparte con plurime azioni giudiziali ove non sussistano effettivi rischi per le ragioni creditorie, ex art 49cit. cod.

L’art 22 dispone, infatti, che “L’avvocato deve mantenere sempre nei confronti dei colleghi un comportamento ispirato a correttezza e lealtà”.

In ossequio alla ratio sottesa alla disciplina deontologica, la norma fissa uno dei principi fondamentali per l’esercizio della professione legale, al fine di garantire la tutela delle persone, intendendo come destinatari dello stesso non solo i colleghi avvocati ma anche coloro che esercitano il proprio diritto di difesa a mezzo di una legale.

Se mancasse un rapporto coi colleghi o se questo fosse svincolato da ogni limite di correttezza e lealtà, non solo verrebbero sviliti l’attività ed il ruolo del difensore, inteso come colui al quale il cliente affida la tutela dei propri diritti, ma, altresì, si darebbe luogo a rapporti professionali inaffidabili, se non impossibili, che si risolverebbero a scapito degli assistiti.

Sono, infatti, considerati applicazione del principio gli obblighi informativi, in particolare, quello di fornire tempestivamente notizie vere su iniziative pendenti, gli obblighi di tenere un comportamento leale e corretto in sede di trattative, così come gli obblighi di tenere comportamenti rispettosi nei riguardi dei colleghi, evitando di usare espressioni sconvenienti ed offensive nei loro riguardi.

La norma enuncia, poi, tre corollari del generale principio di colleganza, tutti finalizzati a garantire una concreta realizzazione di tale canone: obbligo di rispondere con sollecitudine alle richieste di informativa del collega con cui si collabora; obbligo di informare per iscritto il collega prima di esperire un’azione per fatti attinenti all’esercizio della professione; divieto di registrazione di conversazioni con i colleghi.

 

Nella cennata ottica garantista va letto anche l’art 49 cit. cod. che sancisce che  “L’avvocato non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita”.

La previsione degli obblighi e dei divieti a carico dell’Avvocato è coerente con la normativa prevista dalla legge professionale forense, che all’art 38 prevede espressamente che Gli avvocati ed i procuratori che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale sono sottoposti a procedimento disciplinare”.

A completamento della disposizione, la stessa legge prevede all’art 40 l’applicazione di sanzioni disciplinari ove sia accertata una responsabilità a carico del professionista per la violazione dei precetti professionali, contemplando, tra le altre, la misura dell’avvertimento.

L’avvertimento viene definito dalla norma come il richiamo per la violazione e l’invito a non “ricadervi”, impartiti al responsabile da parte del Presidente del Consiglio dell’ordine di appartenenza, mediante missiva.

E’, peraltro, facilmente intuibile la natura meno incisiva della sanzione rispetto alla censura, alla sospensione dall’esercizio della professione, alla cancellazione dall’albo ed
alla radiazione dall’albo.

La portata delle norme è stata oggetto di approfondimento da parte della Corte di Cassazione, chiamata a valutare se rientrino, nelle violazioni dei principi enucleate dalle stesse, la condotta del legale che notifica immediatamente alla controparte l’atto di precetto, sulla base di una sentenza, senza premurarsi di verificare che anche il collega che difende il controinteressato abbia avuto notizia del dispositivo della pronuncia e senza verificare se sussista un rischio effettivo per le ragioni del creditore, causando un aggravio di spesa per la controparte.

Muovendo da un indirizzo interpretativo pressoché costante, la Corte scioglie il dubbio in maniera positiva, cioè considerando anche dette condotte sprezzanti del dovere di colleganza e del divieto di aggravio sanciti dal codice deontologico forense.

A sostegno di tale orientamento la considerazione che detti obblighi deontologici siano espressione del più generale principio della buona fede oggettiva.

La Corte muove, infatti, dal presupposto che l’obbligo di buona fede sia un canone fondamentale non solo nei rapporti contrattuali ed extracontrattuali, ma, più in generale, nei rapporti della vita di relazione.

Ciò implicherebbe di agire non solo astenendosi da comportamenti lesivi degli interessi altrui, ma tenendo anche dei comportamenti positivi che, in ossequio alla solidarietà sociale riconosciuta e tutelata dalla Carta Costituzionale, salvaguardino non solo i propri interessi, ma anche le utilità altrui, nei limiti di un apprezzabile sacrificio (SS.UU. n. 27214 del 2009).

La generalità e l’importanza del principio di buona fede sono, poi, tali da investire le vicende giuridiche anche nel momento processuale: l’art 88 c.p.c, infatti, prevede espressamente obblighi comportamentali improntati alla lealtà ed alla correttezza.

Tali argomentazioni hanno, così, indotto il Giudice di legittimità a ritenere che “costituisca illecito disciplinare la violazione, da parte dell’avvocato, del dovere di lealtà e correttezza nei confronti del collega di controparte, dovere la cui osservanza può anche richiedere, in talune circostanze, di informare l’avvocato di controparte circa le iniziative intraprese a tutela delle ragioni del proprio assistito (Cass., sez. un. 17 aprile 2003, n. 6188)”.

Pronunce conformi: Corte a Sezioni Unite, sentenza n. 27214 del 23.12.2009

 

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