RECENTI ORIENTAMENTI DI LEGITTIMITA’ IN TEMA DI RIPARTO DI GIURISDIZIONE SULLA RESPONSABILITA’ DEGLI AMMINISTRATORI DI SOCIETA’ PARTECIPATE.

                Corte di Cassazione, sezioni unite civili, sentenza n. 26283 del 25/11/2013

                 A cura dell’Avv. Federica Guglielmi

Massima

La Corte dei conti ha giurisdizione sull’azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso detta corte quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house, per tale dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente tali enti possano esser soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici”.

 

Il caso

La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione ha avuto ad oggetto la richiesta di revisione del giudizio espresso dalla sezione giurisdizionale della Corte dei conti sull’azione di risarcimento dei danni esercitata nei confronti degli organi di una società di diritto privato partecipata da soci pubblici.

Il giudizio si era concluso con la declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, a seguito di riformulazione della decisione del giudice contabile di primo grado che aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione.                                                                                                                    Innanzitutto la Suprema Corte ha sottolineato le differenze esistenti tra società partecipata e società in house, definita quest’ultima come anomalia nel panorama societario.

La società in house agisce in totale assenza di un potere decisionale proprio e in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico titolare della partecipazione sociale, circostanza questa che fa di tale società una longa manus della pubblica amministrazione.

Secondo la Suprema Corte la nozione di società partecipata non equivale all’in house, poiché quest’ultima è caratterizzata dall’assenza di un potere decisionale proprio e dall’impossibilità di individuare nella società un centro d’interessi distinto rispetto all’ente pubblico che l’ha costituita e per il quale essa opera.

Le società in house, dunque, si differenziano dalle società partecipate per il fatto che le prime hanno solo la forma esteriore delle società e costituiscono, non soggetti esterni ed autonomi, ma articolazioni delle pubbliche amministrazioni.

Ne consegue che gli organi delle società in house, assoggettati ai vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure possono ritenersi investiti, a differenza di quanto avviene per gli organi delle altre società a partecipazione pubblica,  da un munus meramente privato inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato dalla società con l’ente pubblico.

Il controllo che quest’ultimo esercita sulla società non si riferisce all’influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) esercita sull’assemblea dei soci e, di riflesso, sulla scelta degli organi sociali.

Si tratta, invece, di un potere di comando sulla gestione dell’ente con modalità e con intensità non riconducibili ai diritti e alle facoltà che normalmente spettano al socio in base alle regole dettate dal codice civile.

Agli organi sociali, quindi, non resta alcuna autonomia gestionale, poiché essi sono preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna della pubblica amministrazione, e per questo legati a quest’ultima da un rapporto di servizio, nello stesso modo in cui in cui risultano legati all’ente i dirigenti pubblici.

Il danno patrimoniale causato da atti illegittimi degli amministratori, cui può aver contribuito anche un difetto di vigilanza da parte degli organi di controllo, risulta arrecato ad un patrimonio separato ma pur sempre riconducibile alla titolarità dell’ente pubblico.

Dalla qualificazione giuridica della società se come partecipata o come privata, pertanto, discende la qualificazione del danno causato dalla mala gestio degli amministratori e il conseguente riparto della giurisdizione, basato sul petitum sostanziale, cioè sul legame intercorrente tra P.A. (dominus) e società (in house).

La Suprema Corte, pertanto, ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti, in considerazione del fatto che, nel caso di specie, l’azione promossa dal procuratore contabile era diretta a far valere la responsabilità dell’amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall’ente pubblico danneggiato.

 

Quaestio iuris

Il problema interpretativo sottoposto alla Suprema Corte si incentra sulla questione se agli amministratori e ai dipendenti di una società pubblica possano essere applicate le norme di diritto societario o se, a causa della presenza di capitali pubblici, ad essi debbano essere applicate le norme proprie della responsabilità amministrativa.

La differenza è di rilievo perché, mentre nel primo caso la società pubblica è responsabile del danno che deve risarcire con il patrimonio sociale, nel secondo caso, invece, essa diviene soggetto danneggiato il cui patrimonio deve essere reintegrato.                     Il problema interpretativo trae origine dal ricorso allo strumento societario privato, utilizzato soprattutto negli ultimi anni da parte delle pubbliche amministrazioni per realizzare finalità tipicamente pubblicistiche.

La Corte di Cassazione, anche sulla base dell’esigenza di limitare il continuo espandersi del campo di operatività della giurisdizione contabile, aveva già evidenziato come la competenza della Corte dei Conti sulle fattispecie riguardanti la responsabilità dei dipendenti e degli amministratori delle società in partecipazione pubblica debba determinarsi solo in presenza di un evento dannoso verificatosi a carico della P.A. e non, invece, in relazione al quadro di riferimento, pubblico o privato che sia, nel quale si colloca la condotta produttiva del danno.

La responsabilità degli amministratori delle società partecipate, che non perdono la loro natura di enti privati per il solo fatto che il capitale sia alimentato da conferimenti provenienti da enti pubblici, rileva sotto il profilo del danno erariale unicamente se il danno causato dalla mala gestio abbia ad oggetto direttamente il patrimonio dell’ente pubblico e non il patrimonio sociale e di riflesso quello dell’ente partecipante.

Le società di capitali, costituite o comunque partecipate dalla P.A. per il perseguimento delle finalità di quest’ultima, infatti, non cessano solo per questo di essere delle società di diritto privato, assoggettate alla disciplina prevista per le stesse dal codice civile, se non diversamente disposto.

In proposito la relazione accompagnatoria all’art.2449 c.c. ha specificato che lo Stato si assoggetta alla legge delle società per azioni per garantire alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici.                                                   Anche le norme particolari in tema di nomina e compensi spettanti ai componenti dei consigli di amministrazione e ai dipendenti delle società a partecipazione pubblica non si discostano dalla ratio cui è ispirato l’art.2449 c.c.. L’art.4, comma 13, del decreto legge n.95/12, convertito nella legge n.135/12, infatti, stabilisce che “per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque, alle società a partecipazione pubblica la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”. Alla norma citata, così come a quella contenuta nel precedente comma 12 del medesimo articolo, in base alla quale gli amministratori e i dirigenti delle società partecipate, in caso di violazione dei vincoli di spesa, rispondono a titolo di danno erariale per le retribuzioni e i compensi erogati in loro favore in virtù dei contratti stipulati,  non può essere attribuita alcuna valenza di carattere generale da cui far discendere la competenza giurisdizionale del giudice contabile.

 

Note di commento

Le Sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate sul tema del riparto di giurisdizione sull’azione di responsabilità nei confronti degli organi di società partecipate, dirimendo il contrasto interpretativo sulla base di un approccio sostanzialistico, che ha definitivamente superato il precedente criterio che identificava l’elemento fondante della giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica del soggetto agente.

Il criterio oggettivo adottato dalla Corte di Cassazione fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie utilizzate.

Secondo la Suprema Corte il problema del riparto di giurisdizione tra Corte dei conti e giudice ordinario deve essere risolto avendo riguardo al rapporto di servizio tra l’agente e la pubblica amministrazione, tenendo conto che esso può avere origine in una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo all’amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece un’attività, senza che rilevi la natura giuridica dell’atto di investitura o del provvedimento o della convenzione o del contratto, né quella del soggetto che la riceve, sia esso persona giuridica o fisica, privata o pubblica.

Il principio applicato dalla Suprema Corte si pone almeno in parte in linea con l’orientamento giurisprudenziale (tra cui Corte Cost. n.204/04, 191/06, 140/07 e n.293/10) e dottrinale ormai prevalente, che utilizza il petitum sostanziale quale criterio prioritario di riparto tra giurisdizione ordinaria e amministrativa su atti riconducibili all’esercizio di attività amministrativa, in quanto costituenti espressione anche mediata di poteri provvedimentali/autoritativi.                                                          

A differenza del suddetto orientamento, però, ai fini dell’individuazione della giurisdizione sull’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di società partecipate, il concetto di attività amministrativa, cui le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno fatto riferimento, non è stato quello dello svolgimento di pubbliche funzioni o di poteri autoritativi, ma quello del perseguimento di finalità istituzionali proprie dell’Amministrazione pubblica anche mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato.

 

Breve excursus giurisprudenziale

Prima del recente intervento della Suprema Corte in commento, il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul riparto di giurisdizione in materia era stato ampio e articolato, ma comunque riconducibile a tre fasi fondamentali.

La prima, risalente agli anni precedenti il 2000, era ispirata ad un’ottica prettamente privatistica, perché fondava il riparto di giurisdizione sul presupposto formale della forma societaria, la cui disciplina, sottoposta alle norme civilistiche, poteva radicare solo la giurisdizione del Giudice Ordinario.

Nella seconda fase, invece, intorno all’anno 2000, l’attenzione degli interpreti aveva assunto un’ottica di tipo pubblicistico, in quanto rivolta, non alla disciplina applicabile allo statuto societario, ma alla tipologia del danno causato dall’azione degli amministratori della società partecipata dall’ente pubblico. Ne era conseguita, pertanto, l’attribuzione della competenza giurisdizionale al Giudice contabile.

Successivamente, a partire dall’anno 2003, le sezioni unite della Corte di Cassazione avevano stabilito il principio secondo il quale, dopo l’entrata in vigore dell’art.1, ult. comma, della legge n.20/94, la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto la responsabilità di privati funzionari di enti pubblici economici (quali, ad esempio, i consorzi per la gestione di opere), anche per i danni conseguenti allo svolgimento dell’ordinaria attività imprenditoriale e non soltanto per quelli cagionati nell’espletamento di funzioni pubbliche o comunque di poteri pubblicistici, spettasse alla Corte dei Conti.            In sostanza, gli interpreti dovevano esaminare caso per caso se la società per azioni fosse un soggetto non solo formalmente ma anche sostanzialmente privato ovvero se essa fosse un mero modello organizzatorio del quale la P.A. si avvaleva per perseguire le proprie finalità. Così, ad esempio, la RAI, impresa pubblica in forma societaria, è stata  considerata come un organismo di diritto pubblico, in quanto operante nel settore dei servizi pubblici di telecomunicazioni radio e televisive in concessione, assoggettata a poteri di vigilanza e di nomina da parte dello Stato [1].

In adesione a quest’ultimo orientamento interpretativo nel 2009 [2] è intervenuta  un’ulteriore pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che ha trovato successivo riscontro sia in giurisprudenza sia in dottrina.

Nell’occasione la Suprema Corte aveva dato particolare rilievo alla distinzione tra le varie tipologie di danno che la mala gestio degli amministratori può causare sull’ente pubblico. Ove il danno abbia natura pubblicistica, per il fatto di avere determinato conseguenze  dirette sull’ente, ad esempio provocando danno all’immagine del medesimo, si dovrebbe individuare la giurisdizione contabile.

E del resto la riconducibilità del danno all’immagine della pubblica amministrazione all’interno della  tipologia del danno erariale e, dunque, nell’ambito della giurisdizione contabile, è stata confermata anche di recente nell’art.17 comma 30-ter della legge n.102/09, come modificata dalla legge n.141/09.

Ove, invece, il danno abbia natura privatistica, per il fatto di avere determinato conseguenze principalmente sul funzionamento della società, e solo indirettamente sull’ente, si dovrebbe individuare la giurisdizione del Giudice Ordinario. In tale caso, infatti, il danno subito dall’ente è solo riflesso ed esso non può rilevare ai fini del riparto della giurisdizione.

La Suprema Corte, però, ha precisato che anche in quest’ultima ipotesi la giurisdizione  contabile potrebbe venire in rilievo qualora l’ente pubblico, nella persona del funzionario competente, omettesse di intraprendere idonee iniziative per perseguire i responsabili della mala gestio con i mezzi consentiti dall’ordinamento. La giurisdizione, infatti, tornerebbe a radicarsi in capo al Giudice contabile, poiché l’omissione sarebbe in grado di arrecare un danno diretto sull’ente pubblico e di costituire fonte per eventuali addebiti disciplinari nei confronti dei pubblici funzionari omittenti.

L’orientamento appena illustrato ha trovato conferma anche nella successiva giurisprudenza di legittimità, e in particolare nella recente pronuncia delle Sezioni Unite in commento, in cui sono stati applicati i principi elaborati in tema di riparto di giurisdizione all’azione di responsabilità degli amministratori di società partecipate anche in relazione alle società c.d. in house.

L’affidamento della gestione di un servizio pubblico ad un soggetto esterno controllato dall’ente medesimo  implica l’instaurazione di una relazione funzionale, incentrata sull’inserimento del soggetto nell’organizzazione pubblica e, conseguentemente, l’attribuzione della giurisdizione della Corte dei conti sul danno erariale, a prescindere dalla natura privatistica del soggetto e dello strumento contrattuale adottati.

Tali conclusioni non mutano neppure se l’estraneo sia stato investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in favore della pubblica amministrazione  e ciò anche nel caso in cui esso non abbia avuto la gestione del danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di rendicontazione proprie della giurisdizione contabile in senso stretto.

Lo stesso dicasi per l’accertamento della responsabilità erariale conseguente all’illecito o indebito utilizzo da parte di una società privata di finanziamenti pubblici e per la responsabilità in cui può incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un’opera pubblica, quando la concessione implica l’esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche, attribuendo al soggetto privato la qualificazione di organo indiretto dell’amministrazione che agisce per le finalità proprie di quest’ultima.

 

Riferimenti normativi

 

            La direttiva Bolkestein 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno lascia liberi gli Stati membri di decidere le modalità organizzative della prestazione dei servizi d’interesse economico generale.

In base ai principi del diritto comunitario è consentito agli enti pubblici di scegliere se espletare i servizi direttamente o tramite terzi e, in quest’ultimo caso, di individuare diverse possibili forme di esternalizzazione, ivi compreso l’affidamento a società partecipate dall’ente pubblico medesimo.

Possono verificarsi, pertanto, tre distinte situazioni e cioè l’affidamento a società totalmente estranee alla PA, l’affidamento a società con azionariato misto, in parte pubblico e in parte privato, ed infine l’affidamento a società c.d. in house.                                 Solo in quest’ultimo caso la Corte di Giustizia europea ha escluso la necessità del ricorso a procedure di evidenza pubblica, non sussistendo ragioni di tutela della concorrenza.

Nell’ambito di questo contesto, assume particolare rilievo il disposto del quarto comma dell’art.113 del Testo Unico degli enti locali (dlgs n.267/00), come riformulato dall’art.14 della legge n.326/06, che consente l’affidamento dei servizi pubblici, anziché ad imprese terze da individuare mediante procedure di evidenza pubblica, a società di capitali costituite per quello specifico scopo e partecipate totalitariamente dai soci pubblici, purché esse realizzino la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che le controllano e purché questi ultimi esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

Nonostante l’ampia libertà lasciata agli Stati membri, tuttavia, la disciplina nazionale sulle società a partecipazione pubblica continua a prevedere una serie di norme a carattere derogatorio, come ad esempio la supervisione, il monitoraggio e il coordinamento da parte del Commissario straordinario nominato dal Governo a norma dell’art.2 del decreto legge n.52/10, convertito nella legge n.94/12.

Lo stesso può dirsi anche per l’assoggettamento delle società partecipate ai vincoli economici derivanti dal patto di stabilità e per i conseguenti maggiori controlli su esse esercitati dagli enti pubblici partecipanti, ai sensi dell’art.147quater del Testo Unico sugli enti locali, introdotto dalla legge n.213/12.

Sulla base della legislazione attuale, quindi, l’attribuzione alla società partecipata della qualifica di ente pubblico appare inverosimile, trovando essa ostacolo nel disposto dell’art.4 della legge n.70/85 che impone l’intervento del legislatore per l’istituzione di un ente pubblico.

La società di diritto privato, in quanto dotata di personalità giuridica, costituisce un soggetto autonomo rispetto agli organi sociali e ai soci e, quindi, anche rispetto all’ente pubblico che ne detiene le azioni o le quote di partecipazione. Sulla base di questo presupposto la giurisprudenza anche di legittimità [3] ha ritenuto di non poter imputare personalmente agli amministratori o agli soggetti investiti di cariche sociali la titolarità del rapporto di servizio intercorrente tra la società, cui siano affidati compiti riguardanti un servizio pubblico, e l’ente pubblico.

La responsabilità gravante sugli organi sociali nei confronti dei soci, dei creditori e dei terzi in genere è assoggettata alle medesime norme sia nel caso in cui detti organi siano designati dai soci, secondo le regole dettate in proposito dal codice civile sia quando essi siano stati designati dal socio pubblico, in forza di particolari poteri ad esso spettanti ai sensi dell’art.2449, comma 2, c.c. Di conseguenza il danno cagionato dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel sistema del codice civile può dare luogo all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, non è  idoneo a configurare anche un’azione di responsabilità ricadente nella giurisdizione della Corte dei Conti, perché esso non implica alcun danno erariale, ma solo una lesione patrimoniale sofferta da un soggetto privato, la società appunto,  non riferibile ai singoli soci, pubblici o privati che siano, i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione.

Le società a partecipazione pubblica, pertanto, in generale risultano assoggettate (salvo rare eccezioni in cui è stata data applicazione a regole speciali) alle norme generali del codice civile valide per società di diritto privato, con ogni logica conseguenza sotto il profilo del riparto della giurisdizione.

In difetto di norme esplicite è ai principi generali ed alle linee portanti del sistema che occorre avere riguardo. In quest’ottica assume rilievo decisivo la distinzione  tra la responsabilità, prevista per le società per azioni dall’art. 2393 c.c. e per le società a responsabilità limitata dall’art.2476 c.c., in cui gli organi sociali possono incorrere nei confronti della società, e quella, prevista per le società per azioni dall’art.2395 c.c. e per le società a responsabilità limitata dal sesto comma dell’art.2476 c.c., che essi possono assumere direttamente nei confronti di singoli soci o terzi.

L’esclusione della giurisdizione contabile sull’azione di risarcimento dei danni cagionati al patrimonio di una società partecipata da un ente pubblico, dunque, non provoca alcuna lacuna nella tutela dell’interesse pubblico.                                                             Nell’attuale disciplina della società azionaria, infatti, così come in quella della società a responsabilità limitata, l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori in caso di mala gestio non è sottoposta neppure a limitazioni legate alle decisioni discrezionali dell’assemblea. Tale azione, infatti, risulta rimessa alla decisione di una minoranza qualificata dei partecipanti alla proprietà azionaria (art.2393bis c.c.) o di ciascuno dei soci della società a responsabilità limitata (art.2476, co.3, c.c.), che sono legittimati ad esercitarla anche nel proprio interesse ma a beneficio della società.

L’ambito della giurisdizione contabile, delineato dall’art.103, comma 2, Cost., invece, enuncia il fondamento della giurisdizione della Corte dei Conti, individuabile sempre in una specifica disposizione di legge. Tale disposizione di legge, fu rinvenuta, in origine, nella previsione dell’art.13 del r.d. 12 luglio 1934 n.1214, secondo cui la Corte dei Conti giudica sulla responsabilità per danni arrecati all’erario da pubblici funzionari nell’esercizio delle loro funzioni; successivamente, nell’art.1, comma 4, della legge 14 gennaio 1994 n.20, che ha esteso il giudizio della Corte dei Conti alla responsabilità degli amministratori e dei dipendenti pubblici anche con riferimento ai danni cagionati ad amministratori o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza.

Ne è conseguito che la giurisdizione contabile non risulta circoscritta alle sole ipotesi di responsabilità contrattuale, ma può esplicarsi anche in caso di responsabilità aquiliana dell’agente.

 

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[1] Cass. Civ., sez. un., ordinanza n.27902 del 22/12/2009.

[2]  Cass. Civ., sez. un., sentenza n.26806 del 19 dicembre 2009.

[3] Cass. Civ., sez. un., sentenza n.26806 del 19 dicembre 2009 e Cass. Civ., sez. un., ordinanza            n.10063 del 09/05/2011.

 

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