RISARCIMENTO DANNI A SEGUITO DI SOSPENSIONE DEGLI INVITI A GARE D’APPALTO PER REALIZZAZIONE IMPIANTI ELETTRICI

CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA – SENTENZA 23 marzo 2011, n.3

Nota a sentenza a cura dell’Avv. Giuliana Catalano

 

Massima:

Si deve reputare che la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile.

A diversa conclusione si deve invece pervenire laddove la decisione di non fare leva sullo strumento impugnatorio sia frutto di un’opzione discrezionale ragionevole e non sindacabile in quanto l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno e, in generale, non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione. Si consideri, a titolo esemplificativo, l’ipotesi in cui il provvedimento sia stato immediatamente eseguito producendo una modificazione di fatto irreversibile; o quella in cui i tempi tecnici del processo non consentano, ragionevolmente, di praticare, in modo efficiente, il rimedio della tutela ripristinatoria; o, ancora, le situazioni in cui, per effetto di specifica previsione di legge (cfr. l’art. 246, comma 4, del codice dei contratti pubblici, da ultimo confluito nell’art. 125, comma 3, del codice del processo amministrativo), il mezzo dell’annullamento non possa soddisfare, in termini reali, l’aspirazione al conseguimento del bene della vita desiderato. Dette evenienze, ostative al soddisfacimento in natura della posizione azionata, possono maturare nel corso del giudizio in guisa da produrre la concentrazione in itinere della domanda sul solo profilo del risarcimento sulla base della regola giurisprudenziale prima ricordata, oggi canonizzata dall’art. 34, comma 3, del codice del processo amministrativo.

Si deve allora ritenere che, sulla base di principi già desumibili dal quadro normativo precedente ed oggi recepiti dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, il Giudice amministrativo sia chiamato a valutare, senza necessità di eccezione di parte ed acquisendo anche d’ufficio gli elementi di prova all’uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di annullamento e dell’utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe, secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente, evitando in tutto o in parte il danno.

 

La materia del contendere

L’Adunanza Plenaria, nel caso in esame, veniva chiamata a dipanare l’annosa questione dei rapporti tra domanda di annullamento e domanda di risarcimento con riguardo ad una fattispecie nella quale era chiesto il ristoro dei danni cagionati da un provvedimento amministrativo lesivo non impugnato nel termine decadenziale.

 

Quaestio iuris

Qual è la nozione di interesse legittimo? E’ effettivamente scomparsa, sia a livello “sostanziale” sia processuale, la pregiudizialità amministrativa? Che ruolo riveste l’articolo 1227 c.c. in materia risarcitoria nell’ambito del processo amministrativo? Può quest’ultimo essere ritenuto foriero dell’obbligo positivo di esperire azioni giudiziarie?

 

Normativa di riferimento

Sulla pregiudizialità:

Art 7, comma 4, c.p.a.

Art. 30, commi 1 e 3, c.p.a.

Art. 34, commi 2 e 3, c.p.a.

Artt. 1223 e 1227 c.c.

Sulla pluralità delle azioni esperibili nel processo amministrativo:

Art. 30 c.p.a.

Art. 31 c.p.a.

Art. 34, comma 1, lett. c, c.p.a.

 

Il Caso

Con atto di citazione notificato il 6 maggio 2002 la società Rem conveniva l’Enel davanti al Tribunale civile di Napoli per ottenere il risarcimento dei danni cagionati dalla disposta esclusione dalle gare d’appalto a cagione di un incidente mortale di un dipendente della suddetta società avvenuto durante dei lavori di potenziamento di linee elettriche. Con sentenza n. 6221 del 25 maggio 2004, il Tribunale dichiarava la propria carenza di giurisdizione in ragione della riconducibilità della res litigiosa alla sfera di cognizione del Giudice amministrativo. Il Fallimento Rem proponeva, quindi, ricorso innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Campania con il quale chiedeva l’annullamento dell’illegittima determinazione dell’Enel ed il risarcimento dei danni cagionati da detto provvedimento. Con la sentenza impugnata il Giudice di prime cure ha dichiarato irricevibile la domanda di annullamento del provvedimento, in quanto proposta, anche a considerare come dies a quo la data dell’atto di citazione davanti al Tribunale civile, ad oltre due anni di distanza e ha negato l’errore scusabile facendo leva sul rilievo che il ricorso al Tribunale Amministrativo è stato proposto a distanza di oltre un anno dalla pubblicazione della sentenza declinatoria della giurisdizione civile.

Il Giudice di primo grado ha, poi, respinto la domanda risarcitoria tracciando una parabola argomentativa nel corso della quale ha riconosciuto che la pretesa risarcitoria può essere azionata indipendentemente dalla previa impugnazione dell’atto illegittimo ma ha ritenuto che la mancata reazione al provvedimento lesivo si fosse nella specie risolta in una sostanziale acquiescenza del danneggiato, configurando una condotta omissiva apprezzabile alla stregua dell’art. 1227 del codice civile.

Con l’atto di appello il Fallimento chiedeva la riforma di detta sentenza. Con la decisione parziale n. 2436/2009 la VI Sezione del Consiglio di Stato, ribadita la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, confermava la statuizione di irricevibilità della domanda impugnatoria proposta con il ricorso di prime cure. In ordine alla domanda risarcitoria riproposta in appello, la Sezione, ravvisando la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla questione di diritto, di particolare importanza, relativa ai rapporti tra domanda di annullamento e iniziativa risarcitoria, ha rimesso la decisione della controversia all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 45, comma 2, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, come sostituito dall’art. 5 legge 21 dicembre 1950, n. 1018 (oggi art. 99 del codice del processo amministrativo di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104).

 

Nota esplicativa

Che la pronuncia in commento sia divenuta sin da subito pietra angolare tra i più recenti approdi pretori in materia, è circostanza indubbia. L’importanza della decisione resa dal Supremo Consesso di giustizia amministrativa, infatti, si apprezza sotto svariati profili involgenti la nozione stessa di interesse legittimo, la questione della permanenza o meno nel nostro sistema di giustizia amministrativa della c.d. pregiudizialità amministrativa, nonché l’applicazione evolutiva delle norme del codice civile in materia di obbligazioni anche al processo amministrativo. Per esigenze di chiarezza espositiva, nella presente nota, le suddette questioni verranno trattate singolarmente.

 

L’interesse legittimo.

Con precipuo riferimento alla nozione di interesse legittimo, è noto che molteplici sono state le teorie dottrinarie che nel corso degli anni si sono contese il primato.

La prima elaborazione dottrinale al riguardo è stata quella che individuava l’interesse legittimo nel c.d. interesse occasionalmente protetto. Secondo tale impostazione dottrinale, infatti, stante il primato del pubblico interesse su ogni altro interesse privato eventualmente coesistente, l’interesse legittimo poteva trovare tutela non già in via diretta, bensì esclusivamente quale riflesso della tutela accordata al pubblico interesse al quale esso accedeva. In altri termini, l’interesse privato non poteva essere tutelato di per sé, ma soltanto nella misura in cui contribuiva a rafforzare la tutela del pubblico interesse.

E’ evidente, pertanto, che all’interesse legittimo non residuava alcuno spazio di autonomia rispetto al pubblico interesse, come se entrambi andassero sempre di pari passo. Che così non fosse, invece, era evincibile dalla disciplina del potere discrezionale di ritiro in autotutela dell’atto illegittimo. Ed infatti, attraverso l’istituto dell’annullamento d’ufficio (art. 21-nonies, l. 241/90), la p.a. rimuove un atto che presenti profili di illegittimità, non già ai fini del mero ripristino della legalità violata, bensì soltanto dopo aver valutato la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione, ed a seguito della ponderazione di detto interesse con l’eventuale interesse contrario del privato che traesse giovamento dal mantenimento dell’atto illegittimo. Evidentemente, dunque, l’interesse privato può non coincidere con quello pubblico.

Sulle ceneri della suddetta impostazione dottrinale, è sorta la teoria processualistica attribuibile al Guicciardi, secondo la quale l’interesse legittimo, lungi dall’avere una autonomia sostanziale, verrebbe in rilievo come potere di reazione processuale del privato nei confronti di un provvedimento amministrativo lesivo della propria sfera giuridica soggettiva.

L’impostazione in esame, tuttavia, non attribuiva alcuna autonomia concettuale all’interesse legittimo che veniva in tal maniera adagiato sulla diversa nozione di interesse ad agire[1].

Ulteriore teorizzazione in materia è quella secondo la quale l’interesse legittimo coinciderebbe con l’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa. In realtà, deve ritenersi che, così inteso, l’interesse legittimo verrebbe attribuita una nozione talmente ampia da condurre all’implicita legittimazione di una generalizzata azione popolare strumentale al mero ripristino della legalità violata, a prescindere dalla sussistenza in capo al privato di una posizione differenziata e qualificata. Inoltre, appare intuitivo che il privato non abbia un generico interesse alla mera legalità dell’azione amministrativa, quanto piuttosto al bene della vita sotteso alla sua richiesta e che intende tutelare con le azioni consentitegli dall’ordinamento[2].

La teoria che ha riscontrato maggiore fortuna, è quella c.d. normativa(elaborata dal Nigro e fatta propria dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione in commento). Essa costituisce il punto di incontro delle altre teorie e ne supera le criticità. Partendo dal presupposto che la norma giuridica che prende in esame l’interesse pubblico si interessa anche, sebbene talvolta implicitamente, dell’interesse del privato, ne segue che quest’ultimo appare già qualificato, trovando piena dignità giuridica nella norma suddetta, nonché differenziato, in quanto si manifesta come interesse sostanziale al bene della vita, diverso da quello della generalità indistinta dei consociati.

Dalla decisione della Plenaria si comprende come la funzione del processo non sia quella, meramente astratta, finalizzata a redimere l’azione amministrativa ripristinando la legalità violata, bensì quella di restituire al soggetto l’utilità che gli è stata a torto negata o far venir meno il danno ingiustamente infertogli. In quest’ottica, dunque, l’interesse legittimo si configura come posizione sostanziale di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato, ed eventualmente inciso, dall’esercizio di un pubblico potere. Esso è l’interesse ad un bene della vita che l’ordinamento intende proteggere con tecniche di tutela non più limitate alla tradizionale azione di annullamento, ma funzionali alla soddisfazione completa della pretesa sostanziale.

 

La pregiudizialità amministrativa

Esaurita questa premessa, doverosa per inquadrare meglio le altre problematiche di cui l’Adunanza Plenaria si è occupata in questa sentenza, è d’uopo indagare l’annosa questione della pregiudizialità amministrativa.

Due erano le teorie che si contendevano il campo prima dell’avvento del c.p.a.: quella della persistenza della pregiudizialità e quella del suo sostanziale superamento.

Quanto alla prima delle suddette teorie[3], essa traeva linfa in particolare dalla struttura del processo amministrativo come processo di tipo esclusivamente impugnatorio. Tra i corollari di questa impostazione vi erano l’impossibilità di ammettere azioni di accertamento e di condanna pubblicistica (presupponenti un giudizio che indagasse più a fondo il rapporto tra cittadino e p.a.) e l’impossibilità di ipotizzare l’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto allo strumento principe, costituito dall’azione demolitoria. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, conseguiva che la mancata impugnazione o il mancato annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo, ne avrebbe determinato il consolidamento della efficacia ed esecutorietà, con annessa impossibilità di far discendere dalla sua illegittimità conseguenze ulteriori, quale quella prettamente risarcitoria, anche perché, in tal caso, sarebbe venuto irrimediabilmente a mancare uno dei presupposti fondamentali della responsabilità aquiliana, id est l’ingiustizia del danno. Si paventava, inoltre, che il riconoscimento dell’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella demolitoria, avrebbe potuto determinare la sostanziale elusione dei termini decadenziali previsti per la domanda di annullamento, in un certo senso legittimando comportamenti opportunistici del privato.

A favore della tesi dell’autonomia dei due rimedi giudiziali sopra accennata, si pronunciarono le Sezioni Unite della Cassazione con le ordinanze gemelle nn. 13659 e 13660 del 13 giugno 2006[4]. In queste decisioni, le Sezioni Unite hanno demolito il dogma della pregiudizialità, patrocinando la tesi secondo la quale l’inammissibilità della domanda risarcitoria motivata esclusivamente sulla base della mancata impugnazione del provvedimento amministrativo illegittimo configurerebbe un diniego di giurisdizione sindacabile dalla Cassazione ex artt. 360, comma 1, n.1, e 362 c.p.c.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione in commento, mostra di aderire al secondo dei suddetti orientamenti.

Ed infatti, le innovazioni normative degli ultimi anni, in particolare quelle riconducibili al c.p.a. inducono a propendere per l’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella annullatoria.

In primo luogo, l’art. 7, comma 4, c.p.a. espressamente devolve alla giurisdizione generale di legittimità anche le azioni risarcitorie per danni da lesione di interessi legittimi e diritti patrimoniali consequenziali, “… pure se introdotte in via autonoma”.

In secondo luogo, l’art. 30 c.p.a., al primo comma, prevede che l’azione di condanna possa essere introdotta contestualmente ad altra azione, ovvero “… nei soli casi di giurisdizione esclusiva o nei casi di cui al presente articolo (id est quelli concernenti il risarcimento del danno), anche in via autonoma”. Inoltre, la norma prevede un termine decadenziale per l’azione risarcitoria diverso (120 gg.) ed autonomo (decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato o dalla conoscenza del provvedimento che sia direttamente lesivo) rispetto a quello previsto per l’azione di annullamento (pari a 60 gg.).

Inoltre, l’art. 34 c.p.a., al secondo comma, prevede che il giudice non possa conoscere dell’illegittimità di un provvedimento amministrativo non espressamente impugnato, salvo che si verta in ipotesi di azione risarcitoria.

Infine, con una disposizione che determina una svolta epocale, l’art. 34, comma terzo, c.p.a., il giudice può non disporre l’annullamento dell’atto illegittimo, ove ciò non sia più utile per il ricorrente, ma può accertare comunque la illegittimità del provvedimento ai fini risarcitori.

Una serie di indici normativi, questa, rivelatrice della volontà legislativa di sganciare l’azione risarcitoria da quella meramente demolitoria nell’ottica di quella pienezza ed effettività della tutela proclamata quale principio cardine tra i principi generali del codice del processo amministrativo (art. 1 c.p.a.).

Ed infatti, con un accenno che verrà più approfonditamente indagato nella successiva sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 15 del 2011, i giudici di Palazzo Spada affermano che è proprio il suddetto principio di pienezza ed effettività della tutela che impone di aderire a quell’orientamento secondo cui il processo amministrativo sarebbe divenuto scenario della pluralità e della atipicità delle azioni esperibili. Sarebbero infatti ammissibili, oltre alla tradizionale azione di annullamento, anche l’azione di condanna, l’azione dichiarativa in materia di nullità ex art. 21-septies l. 241/90, l’azione di esatto adempimento (o di condanna pubblicistica) nel rito avverso il silenzio-inadempimento.

Corollario di questa apertura, unitamente al consolidarsi della concezione di interesse legittimo quale interesse sostanziale ad un bene della vita inciso dalla p.a., è l’ammissibilità di tutte quelle azioni che sottendono forme di tutela idonee a soddisfare appieno l’interesse del soggetto leso, con il superamento della visione statica di un giudizio il cui fulcro era l’atto amministrativo ed il contestuale consolidarsi di un “giudizio sul rapporto”, in cui assume rilevanza pregnante la fondatezza della pretesa sostanziale azionata.

L’unico limite al riguardo è costituito dalle previsioni di cui agli artt. 30, comma 3, e 34, comma 2, c.p.a., in cui si comprende che il giudice amministrativo non possa spingersi a fondo dell’indagine sul rapporto ove residuino margini di potere amministrativo discrezionale non ancora esercitato dalla p.a.

L’Adunanza Plenaria, dunque, tramortisce definitivamente l’istituto della pregiudizialità amministrativa così come fino a quel momento era stato inteso, cioè come pregiudiziale di rito, sancendo che la domanda risarcitoria autonomamente presentata non potrebbe essere dichiarata per ciò solo inammissibile, ma semmai rigettata nel merito ove si accerti che non vi sia alcuna lesione sostanziale della pretesa azionata[5].

 

La pregiudizialità amministrativa è stata definitivamente superata?

Il definitivo abbandono della impostazione fondata su di una stretta pregiudizialità di rito, tuttavia, è stato ben lungi dall’indurre la Plenaria ad escludere ogni rilevanza al tempestivo azionamento dei rimedi giurisdizionali, giustiziali ovvero meramente sollecitatori del potere di riesame in autotutela.

Partendo dall’inconfutabile dato contenuto nell’art. 30, comma 3, secondo periodo[6], infatti, il giudice amministrativo nel valutare l’an ovvero determinare il quantum del risarcimento non può prescindere dalla valutazione di “… tutte le circostanze di fatto ed il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

Viene, dunque, da chiedersi il significato della citata disposizione normativa anche con riguardo alla già indagata problematica della pregiudizialità amministrativa. Con una disposizione siffatta, il legislatore ha dimostrato, per un verso, di non recepire il modello della pregiudizialità processuale della domanda di annullamento rispetto alla domanda risarcitoria ma, per altro verso, non ha accolto nemmeno la tesi della totale autonomia tra i due rimedi, predisponendo un punto di equilibrio dato dalla valorizzazione delle circostanze e dei comportamenti complessivamente tenuti dalle parti ai fini del risarcimento del danno asseritamente subito dal privato.

Ed infatti, la disposizione sopra citata, pur senza richiamarla espressamente, riecheggia quella contenuta nell’art. 1227 c.c., applicabile anche alle ipotesi di responsabilità aquiliana.

Mentre il primo comma dell’art. 1227 c.c. limita il risarcimento del danno nella misura in cui il danneggiato abbia concorso colposamente alla sua produzione, il secondo comma esclude il risarcimento dei danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.

Con precipuo riferimento agli obblighi di diligenza che la norma impone al privato, in passato ne veniva data una interpretazione restrittiva nel senso che essi erano intesi solo come obblighi di tenore negativo. In altri termini, il creditore avrebbe avuto l’onere di astenersi dal tenere comportamenti che potessero aggravare l’entità del danno subito.

Tale norma, negli anni, è stata fatta oggetto di un’interpretazione evolutiva che ha sortito l’effetto di affiancare ai suddetti obblighi negativi, anche correlativi obblighi positivi consistenti nell’onerare il privato che intendesse chiedere l’integrale ristoro del pregiudizio subito, a porre in essere quelle condotte che fossero funzionali ad arginare od escludere totalmente il danno. Ovviamente, il limite di esigibilità di condotte siffatte consisteva nel fatto che esse fossero possibili e non eccedenti la soglia dell’apprezzabile sacrificio.

L’Adunanza Plenaria si interroga, dunque, sulla perdurante validità di quell’orientamento che esclude che rientrino nei limiti dell’apprezzabile sacrificio le condotte relative all’esperimento di azioni giudiziali, dall’esito notoriamente incerto. Il Supremo Consesso di giustizia amministrativa ritiene di poter superare il suddetto orientamento sulla scia dei più recenti approdi della Cassazione volti a valorizzare il criterio della buona fede nei rapporti, che si sostanzia anche nel principio generale del divieto di abuso del diritto, desumibile anche dal dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.

L’adunanza Plenaria, pertanto, compie un passo in avanti sancendo che il suddetto obbligo di buona fede risulta violato anche dall’abuso del processo quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale del potere della parte di scegliere discrezionalmente le proprie strategie difensive.

Il sistema, infatti, non può legittimare i comportamenti opportunistici dei privati che, nonostante la possibilità concessa dall’ordinamento di azionare rimedi giustiziali, giurisdizionali o meramente sollecitatori, che non comportino un sacrificio eccedente la soglia della normale tollerabilità, arbitrariamente decidano di rimanere inerti, così contribuendo a determinare ovvero ad accrescere l’entità del danno subito, per poi chiederne l’integrale ristoro attraverso l’azione risarcitoria.

Da tale argomentare discende che, secondo la Plenaria, anche condotte processuali di tipo omissivo possono costituire circostanze idonee ad escludere il nesso di causalità tra condotta lesiva e danno, con l’inevitabile conseguenza della negazione in radice del risarcimento ovvero di mitigazione della sua entità ove il nesso di causalità non sia stato totalmente reciso.

Ma tali affermazioni non vanno assolutizzate. Ed infatti, se in astratto l’azione di annullamento costituisce comportamento esigibile da parte di chi asserisce di aver subito un danno, idonea ad influire sul giudizio risarcitorio, tuttavia è ben possibile che la decisione di non avvalersi di essa sia frutto di una scelta ponderata e ragionevole, e come tale insindacabile. Ci si riferisce alle ipotesi in cui il privato non possa ottenere alcuna concreta utilità dall’esito del procedimento di tipo impugnatorio.

Per le ragioni suesposte la Plenaria ha ritenuto di dover respingere il ricorso finalizzato al risarcimento del danno causato dal provvedimento amministrativo che sospendeva gli inviti alle gare d’appalto alla società Rem a r.l. per un arco temporale di nove mesi. Ed infatti, la società ricorrente ben avrebbe potuto esperire rimedi giudiziali o stragiudiziali che avrebbero avuto l’effetto di eliminare il provvedimento lesivo così evitando in toto i danni da essa subiti per la suddetta esclusione, mentre la sua inerzia al riguardo costituisce la causa del pregiudizio subito.

In definitiva, la questione della pregiudizialità amministrativa deve ritenersi definitivamente superata solo con precipuo riferimento alla stretta pregiudizialità di rito, ma deve essere considerata ancora valevole se con essa ci si riferisce alla valorizzazione di comportamenti ispirati a buona fede e correttezza che potrebbero evitare il sorgere o l’aggravarsi dell’entità dei danni riconducibili ad un determinato provvedimento amministrativo lesivo.

La pregiudizialità amministrativa residua nella misura in cui essa funge da strumento di raccordo delle tutele, in un’ottica di coordinamento non già processuale bensì sostanziale tra rimedio demolitorio e rimedio risarcitorio.

 

Bibliografia

F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, Quarta ed.

F. Caringella – L.Tarantino, Lezioni e sentenze di diritto amministrativo, Roma, 2012.

F. Caringella – D. Dimatteo, Lezioni e sentenze di diritto civile, Roma, 2012.

                                                                               

Testo della sentenza

CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA – SENTENZA 23 marzo 2011, n.3

Pres. De Lise – est. Caringella

FATTO

Il Fallimento della società s.r.l. Rem, appaltatrice da lungo tempo dei lavori di realizzazione e manutenzione di opere ed impianti elettrici per conto dell’Enel, espone che durante l’esecuzione dei lavori di potenziamento di linea elettrica di cui al contratto di appalto del 21 settembre 1998 si era verificato un incidente mortale a danno di un proprio dipendente, a seguito del quale l’Enel, al quale il sinistro era addebitabile, le aveva comminato, con determinazione della Direzione Distribuzione Campania in data 30 settembre 1999, la sospensione degli inviti a gare d’appalto nell’intero ambito territoriale di competenza per un periodo di nove mesi a far data dal 1° ottobre 1999.

Con atto di citazione notificato il 6 maggio 2002 la società Rem conveniva l’Enel davanti al Tribunale civile di Napoli per ottenere il risarcimento dei danni cagionati dalla disposta esclusione dalle gare d’appalto. Con sentenza n. 6221 del 25 maggio 2004 il Tribunale dichiarava la propria carenza di giurisdizione in ragione della riconducibilità della res litigiosa alla sfera di cognizione del Giudice amministrativo. Il Fallimento Rem proponeva, quindi, ricorso innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Campania con il quale chiedeva l’annullamento dell’illegittima determinazione dell’Enel ed il risarcimento dei danni cagionati da detto provvedimento. Con la sentenza impugnata il Giudice di prime cure ha dichiarato irricevibile la domanda di annullamento del provvedimento, in quanto proposta, anche a considerare come dies a quo la data dell’atto di citazione davanti al Tribunale civile, ad oltre due anni di distanza e ha negato l’errore scusabile facendo leva sul rilievo che il ricorso al Tribunale Amministrativo è stato proposto a distanza di oltre un anno dalla pubblicazione della sentenza declinatoria della giurisdizione civile.

Il Giudice di primo grado ha, poi, respinto la domanda risarcitoria tracciando una parabola argomentativa nel corso della quale ha riconosciuto che la pretesa risarcitoria può essere azionata indipendentemente dalla previa impugnazione dell’atto illegittimo ma ha ritenuto che la mancata reazione al provvedimento lesivo si fosse nella specie risolta in una sostanziale acquiescenza del danneggiato, configurando una condotta omissiva apprezzabile alla stregua dell’art. 1227 del codice civile.

Con l’atto di appello il Fallimento ha chiesto la riforma di detta sentenza sostenendo che, con riguardo ad una controversia attribuita alla giurisdizione esclusiva, ratione materiae, del giudice amministrativo, non opera il regime decadenziale proprio della giurisdizione di legittimità; e che, comunque, le oscillazioni registratesi in sede giurisprudenziale in ordine al riparto della giurisdizione avrebbero giustificano l’applicazione dell’istituto dell’errore scusabile ingiustamente negata dal Tribunale.

L’appellante ha poi contestato che la mancata impugnazione del provvedimento amministrativo possa costituire fattore ostativo alla favorevole valutazione della domanda risarcitoria.

In particolare, parte ricorrente ha osservato che, a fronte dell’integrazione di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano ai sensi dell’art. 2043 c.c., l’eventuale acquiescenza addebitabile al danneggiato può al più comportare, ai sensi dell’art. 1227, capoverso, del codice civile, una diminuzione dell’importo del risarcimento, ma non può escluderlo in via integrale come erroneamente ritenuto dal Tribunale.

Si è costituita l’Enel Distribuzione s.p.a., la quale, dopo aver rappresentato, in fatto, che la sentenza del Tribunale di Salerno citata dalla controparte ha accertato gravi infrazioni alle norme di sicurezza anche da parte dei dipendenti della società Rem, tali da assumere ruolo di concausa nella dinamica dell’incidente mortale, ha contrastato, in punto di diritto, tutte le pretese avversarie chiedendo il rigetto dell’appello.

Con la decisione parziale n. 2436/2009 la VI Sezione di questo Consiglio, ribadita la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, ha confermato la statuizione di irricevibilità della domanda impugnatoria proposta con il ricorso di prime cure.

In ordine alla domanda risarcitoria riproposta in appello, la Sezione, ravvisando la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla questione di diritto, di particolare importanza, relativa ai rapporti tra domanda di annullamento e iniziativa risarcitoria, ha rimesso la decisione della controversia all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 45, comma 2, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, come sostituito dall’art. 5 legge 21 dicembre 1950, n. 1018 (oggi art. 99 del codice del processo amministrativo di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104).

Le parti hanno, quindi, depositato memorie con le quali hanno ulteriormente illustrato le rispettive tesi difensive.

All’odierna udienza la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. La Sezione rimettente sottopone al vaglio dell’Adunanza Plenaria la questione relativa ai rapporti tra domanda di annullamento e domanda di risarcimento con riguardo ad una fattispecie nella quale viene chiesto il ristoro dei danni cagionati da un provvedimento di sospensione dalle gare non impugnato nel termine decadenziale.

2. E’ noto che, con la storica sentenza 22 luglio 1999, n. 500, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno riconosciuto l’ammissibilità della tutela risarcitoria degli interessi legittimi.

L’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, nel novellare l’art. 7, comma 3, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, ha poi stabilito che, in tali casi, la tutela risarcitoria va richiesta al giudice amministrativo, atteggiandosi a “strumento di tutela ulteriore rispetto a quello classico demolitorio” (così sentenze 6 luglio 2004, n. 204 e 11 maggio 2006, n. 191 della Corte Costituzionale).

In questo quadro, l’elaborazione delle condizioni, processuali e sostanziali, che governano la tutela risarcitoria degli interessi legittimi è stata al centro di un vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale.

E’ stato, in particolare, oggetto di approfondita analisi il tema della pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all’azione di danno.

2.1. A favore della tesi dell’autonomia delle due azioni si è pronunciata la Cassazione a Sezioni unite la quale, con ordinanze nn. 13659 e 13660 del 13 giugno 2006 rese in sede di regolamento di giurisdizione, ha affermato che la domanda di risarcimento può essere proposta innanzi al giudice amministrativo anche in difetto della previa domanda di annullamento dell’atto lesivo, per cui una declaratoria di inammissibilità della domanda risarcitoria motivata solo in ragione della mancata previa impugnazione dell’atto, concretizza diniego della giurisdizione sindacabile da parte della Corte di cassazione ex artt. 360, comma 1, n. 1 e 362 c.p.c.. Siffatta conclusione è stata ribadita dalla Sezioni Unite con le sentenze 23 dicembre 2008, n. 30254, 6 settembre 2010, n. 19048, 16 dicembre 2010, n. 23595 e 11 gennaio 2011, n. 405. Detta ultima pronuncia ha peraltro puntualizzato che il diniego di giurisdizione che consente il sindacato della Cassazione è riscontrabile nelle sole ipotesi in cui il Consiglio di Stato neghi la tutela risarcitoria per il solo fatto della mancata impugnazione del provvedimento amministrativo e non anche in quelle in cui il Giudice amministrativo pervenga ad una pronuncia sfavorevole di merito in ragione della valutazione in ordine all’assenza, in concreto, dei presupposti sostanziali all’uopo necessari (nel caso di specie il Consiglio di Stato non aveva ravvisato l’illegittimità della statuizione amministrativa asseritamene produttiva del danno).

2.2. Con la decisione dell’Adunanza plenaria 22 ottobre 2007, n. 12 questo Consiglio di Stato ha, invece, confermato il principio della pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto alla tutela risarcitoria, già espresso dall’Adunanza plenaria con la decisione n. 4 del 2003.

La decisione di rimessione ha puntualmente riepilogato gli argomenti posti a sostegno del permanere della pregiudizialità sulla base dei seguenti punti, relativi:

– alla stessa struttura del processo amministrativo e alla tutela in esso erogabile, dove, in armonia con gli artt. 103 e 113, co. 3, Cost., sia nella giurisdizione di legittimità, che in quella esclusiva, viene in considerazione in via primaria la tutela demolitoria e solo in via consequenziale ed eventuale quella risarcitoria, come inequivocabilmente stabilito dall’art. 35, co.1, 4 e 5, d.lgs. n. 80 del 1998;

– alla cosiddetta presunzione di legittimità dell’atto amministrativo e della connessa efficacia ed esecutorietà, che si consolida in caso di omessa impugnazione o di annullamento d’ufficio (v. legge 11 febbraio 2005, n. 15);

– all’articolazione della tutela sopra ricordata che, in entrambi i casi, concerne la stessa illegittimità del provvedimento, con la conseguenza che il danno ingiusto non può essere configurato a fronte di un’illegittimità del provvedimento che, per l’assolutezza della cennata presunzione è, de jure, irreclamabile;

– all’assenza della condizione essenziale dell’ingiustizia del danno, impedita dalla persistenza di un provvedimento inoppugnabile (o inutilmente impugnato);

– alla concreta equivalenza del giudicato che, rilevando l’inesistenza dell’appena ricordata condizione, dichiari l’improponibilità della domanda con il giudicato che, pronunciandosi nel merito, dichiari infondata – e questa volta con pronuncia inequivocabilmente sottratta a verifica ex art. 362 cod.proc.civ.- la domanda per difetto della denunziata illegittimità;

– ai limiti del potere regolatore della Corte di Cassazione (Sez. un., 19 gennaio 2007, n. 1139; 4 gennaio 2007, n. 13) che, secondo il correlato avvertimento della Corte Costituzionale (sent. 12 marzo 2007, n. 77), “con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione”. Ad analogo principio, prosegue la Corte, “si ispira l’art. 386 c.p.c. applicabile anche ai ricorsi proposti a norma dell’art. 362, co.1, c.p.c., disponendo che la decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda”;

– alla correlata verifica degli eventuali limiti dell’indirizzo della Corte di Cassazione secondo cui l’inoppugnabilità dell’atto amministrativo, siccome relativa agli interessi legittimi, non impedirebbe in nessun caso al giudice ordinario di disapplicarlo.

Secondo tale approccio interpretativo, l’applicazione del principio della pregiudizialità processuale conduce alla soluzione, in rito, dell’inammissibilità della domanda risarcitoria non accompagnata o preceduta dalla sperimentazione del rimedio impugnatorio entro il prescritto termine decadenziale di sessanta giorni dalla piena conoscenza del provvedimento illegittimo foriero dell’effetto lesivo.

3. Va, a questo punto, osservato che sui termini del dibattito è destinata ad incidere, a regime, la disciplina dettata dal codice del processo amministrativo di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, entrato in vigore il 16 settembre 2010 (art. 2).

L’art. 30 del codice ha infatti previsto, ai fini che qui rilevano, che l’azione di condanna al risarcimento del danno può essere proposta in via autonoma (comma 1) entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo (comma 3, primo periodo).

La norma, da leggere in combinazione con il disposto del comma 4 dell’art. 7 – il cui inciso finale prevede la possibilità che le domande risarcitorie aventi ad oggetto il danno da lesione di interessi legittimi e di altri diritti patrimoniali consequenziali siano introdotte in via autonoma – sancisce, dunque, l’autonomia, sul versante processuale, della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio.

Detta autonomia è confermata, per un verso, dall’art. 34, comma 2, secondo periodo, che considera il giudizio risarcitorio quale eccezione al generale divieto, per il giudice amministrativo, di conoscere della legittimità di atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento; e, per altro verso, dal comma 3 dello stesso art. 34, che consente l’accertamento dell’illegittimità a fini meramente risarcitori allorquando la pronuncia costitutiva di annullamento non risulti più utile per il ricorrente.

Questo reticolo di norme consacra, in termini netti, la reciproca autonomia processuale tra i diversi sistemi di tutela, con l’affrancazione del modello risarcitorio dalla logica della necessaria “ancillarità” e “sussidiarietà” rispetto al paradigma caducatorio.

3.1. Il riconoscimento dell’autonomia, in punto di rito, della tutela risarcitoria si inserisce – in attuazione dei principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale richiamati dall’art. 1 del codice oltre che dei criteri di delega fissati dall’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 – in un ordito normativo che, portando a compimento un lungo e costante processo evolutivo tracciato dal legislatore e dalla giurisprudenza, amplia le tecniche di tutela dell’interesse legittimo mediante l’introduzione del principio della pluralità delle azioni. Si sono, infatti, aggiunte alla tutela di annullamento la tutela di condanna (risarcitoria e reintegratoria ex art. 30), la tutela dichiarativa (cfr. l’azione di nullità del provvedimento amministrativo ex art. 31, comma 4) e, nel rito in materia di silenzio-inadempimento, l’azione di condanna pubblicistica (cd. azione di esatto adempimento) all’adozione del provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti, della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31, commi da 1 a 3). Deve, inoltre, rilevarsi che il legislatore, sia pure in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal combinato disposto dell’art. 30, comma 1, che fa riferimento all’azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (sull’atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell’art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l’adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (cfr., già con riguardo al quadro normativo anteriore, Cons. Stato, sez. VI, 15 aprile 2010, n. 2139; 9 febbraio 2009, n. 717). In definitiva, il disegno codicistico, in coerenza con il criterio di delega fissato dall’art. 44, comma 2, lettera b, n. 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha superato la tradizionale limitazione della tutela dell’interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo l’esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa. Di qui, la trasformazione del giudizio amministrativo, ove non vi si frapponga l’ostacolo dato dalla non sostituibilità di attività discrezionali riservate alla pubblica amministrazione, da giudizio amministrativo sull’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata.

Alla stregua di tale dilatazione delle tecniche di protezione, viene confermata e potenziata la dimensione sostanziale dell’ interesse legittimo in una con la centralità che il bene della vita assume nella struttura di detta situazione soggettiva.

Come osservato dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 500/1999, l’interesse legittimo non rileva come situazione meramente processuale, ossia quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, né si risolve in un mero interesse alla legittimità dell’azione amministrativa in sé intesa, ma si rivela posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo e inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a seconda che si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può concretizzare un pregiudizio. L’interesse legittimo va, quindi, inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato dall’esercizio del potere pubblicistico, che si compendia nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell’interesse al bene. Anche nei riguardi della situazione di interesse legittimo, l’interesse effettivo che l’ordinamento intende proteggere è quindi sempre l’interesse ad un bene della vita che l’ordinamento, sulla base di scelte costituzionalmente orientate confluite nel disegno codicistico, protegge con tecniche di tutela e forme di protezione non più limitate alla demolizione del provvedimento ma miranti, ove possibile, alla soddisfazione completa della pretesa sostanziale.

In questo quadro normativo, sensibile all’esigenza di una piena protezione dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, risulta coerente che la domanda risarcitoria, ove si limiti alla richiesta di ristoro patrimoniale senza mirare alla cancellazione degli effetti prodotti del provvedimento, sia proponibile in via autonoma rispetto all’azione impugnatoria e non si atteggi più a semplice corollario di detto ultimo rimedio secondo una logica gerarchica che il codice del processo ha con chiarezza superato. L’autonomia dell’azione si apprezza, con argomento a contrario, se si rileva che, alla stregua dell’inciso iniziale del comma 1 dell’art. 30, salvi in casi di giurisdizione esclusiva del giudizio amministrativo (segnatamente, con riferimento alle azioni di condanna a tutela di diritti soggettivi) ed i casi di cui al medesimo articolo (relativi proprio alle domande di risarcimento del danno ingiusto di cui ai successivi commi 2 e seguenti), la domanda di condanna può essere proposta solo contestualmente ad altra azione. Si ricava allora che mentre la domanda tesa ad una pronuncia che imponga l’adozione del provvedimento satisfattorio, non è ammissibile se non accompagnata dalla rituale e contestuale proposizione della domanda di annullamento del provvedimento negativo (o del rimedio avverso il silenzio ex art. 31), per converso la domanda risarcitoria è proponibile in via autonoma rispetto al rimedio caducatorio.

3.2. Va, peraltro, osservato che il codice, pur negando la sussistenza di una pregiudizialità di rito, ha mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza eziologica dell’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso. L’art. 30, comma 3, del codice dispone, infatti, al secondo periodo, stabilisce che, nel determinare il risarcimento, “il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”. La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l’omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza. E tanto in una logica che vede l’omessa impugnazione non più come preclusione di rito ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile. Operando una ricognizione dei principi civilistici in tema di causalità giuridica e di principio di auto-responsabilità, il codice del processo amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa (secondo il criterio del “più probabilmente che non” : Cass., sezioni unite,11 gennaio 1008, n. 577; sez. III, 12 marzo 2010, n. 6045), recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili. Di qui la rilevanza sostanziale, sul versante prettamente causale, dell’omessa o tardiva impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di tutela specifica predisposto dall’ordinamento a protezione delle posizioni di interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti dannosi.

Va aggiunto che la latitudine del generale riferimento ai mezzi di tutela e al comportamento complessivo consente di soppesare l’ipotetica incidenza eziologica non solo della mancata impugnazione del provvedimento dannoso ma anche dell’omessa attivazione di altri rimedi potenzialmente idonei ad evitare il danno, quali la via dei ricorsi amministrativi e l’assunzione di atti di iniziativa finalizzati alla stimolazione dell’autotutela amministrativa (cd. invito all’autotutela). Va, del pari, apprezzata l’omissione di ogni altro comportamento esigibile in quanto non eccedente la soglia del sacrificio significativo sopportabile anche dalla vittima di una condotta illecita alla stregua del canone di buona fede di cui all’art. 1175 e del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. La rilevanza sostanziale delle condotte negligenti, eziologicamente pregnanti, è confermata anche dall’art. 124 del codice del processo amministrativo e dell’art. 243 bis del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.

La prima disposizione sancisce, al comma 2, questa volta recando un riferimento esplicito alla normativa civilistica, che “la condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1” (ossia la domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto) “o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto è valutata dal Giudice ai sensi dell’art. 1227 del codice civile”.

Inoltre, l’art. 243 bis del codice dei contratti pubblici, aggiunto dall’art. 6 del decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53, come modificato dall’art. 3 dell’ allegato 4 allo stesso decreto legislativo n. 104/2010, nel disciplinare l’istituto dell’informativa in ordine all’intento di proporre ricorso giurisdizionale, stabilisce, al comma 5, che l’omissione della comunicazione di cui al comma 1, finalizzata alla stimolazione dell’autotutela, costituisce comportamento valutabile ai sensi dell’art. 1227 del codice civile.

Dall’esame coordinato delle richiamate disposizioni si evince che il legislatore, se da un lato non ha recepito il modello della pregiudizialità processuale della domanda di annullamento rispetto a quella risarcitoria, dall’altro ha mostrato di apprezzare la rilevanza causale dell’omessa impugnazione tempestiva che abbia consentito la consolidazione dell’atto e dei suoi effetti dannosi.

In tal modo il codice ha suggellato un punto di equilibrio capace di superare i contrasti ermeneutici registratisi in subiecta materia tra le due giurisdizioni e, in parte, anche in seno ad ognuna di esse. Il legislatore, in definitiva, ha mostrato di non condividere la tesi della pregiudizialità pura di stampo processuale al pari di quella della totale autonomia dei due rimedi, approdando ad una soluzione che, non considerando l’omessa impugnazione quale sbarramento di rito, aprioristico ed astratto, valuta detta condotta come fatto concreto da apprezzare, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, per escludere il risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso per l’annullamento.

E tanto sulla scorta di una soluzione che conduce al rigetto, e non alla declaratoria di inammissibilità, della domanda avente ad oggetto danni che l’impugnazione, se proposta nel termine di decadenza, avrebbe consentito di scongiurare.

4. L’Adunanza Plenaria, consapevole dell’inapplicabilità delle norme del codice, entrato in vigore il 16 settembre 2010, ad una fattispecie ed ad un giudizio risalenti ad epoca anteriore, reputa, tuttavia, che la disciplina ora analizzata, nella parte che rileva ai fini della risoluzione della presente controversia, pervenga ad una soluzione convincente delle divergenze interpretative, estensibile a situazioni anteriori in quanto ricognitiva di principi evincibili dal sistema normativo antecedente all’entrata in vigore del codice.

Reputa, infatti, questo Consiglio che entrambi i principi affermati dal d.lgs. n. 104 del 2010 – quello dell’assenza di una stretta pregiudiziale processuale e quello dell’operatività di una connessione sostanziale di tipo causale tra rimedio impugnatorio e azione risarcitoria – fossero ricavabili anche dal quadro normativo vigente prima dell’entrata in vigore del codice.

5. La mancanza di una pregiudizialità di stretto rito è desumibile dalla ricordata autonomia, sul piano dell’oggetto e dell’effetto, dell’iniziativa impugnatoria rispetto al rimedio risarcitorio, tale da escludere che, per definizione e in astratto, una sentenza che condanni al risarcimento del danno cagionato dal provvedimento si risolva nella caducazione degli effetti dell’atto e, quindi, in una non ammissibile elusione del termine decadenziale, con frustrazione dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici amministrativi perseguita dalla previsione di detto termine.

Si consideri poi, a conferma della diversità e della non automatica sovrapponibilità delle regole di validità del provvedimento rispetto a quelle di liceità del fatto, che il danno non è di norma cagionato dal provvedimento in sé inteso ma da un fatto, ossia da un comportamento, in seno al quale rilevano anche le condotte precedenti e successive all’atto. In caso di fatto illecito non viene allora in rilievo una mera illegittimità del provvedimento in sé ma un’illiceità della condotta complessiva riguardo alla quale assume rilievo centrale il giudizio sintetico-comparativo di valore sull’ingiustizia del danno nonché la valutazione della rimproverabilità soggettiva del contegno.

In definitiva, nell’ambito di un giudizio risarcitorio relativo alla liceità dell’agere amministrativo, l’omessa impugnazione del provvedimento non può essere adeguatamente affrontata in termini processuali come condizione di ammissibilità della domanda per via dell’estensione analogica di un termine decadenziale previsto per l’impugnazione, termine per sua natura eccezionale e, quindi, sottoposto al rispetto di un canone di stretta interpretazione. Di tanto è consapevole lo stesso legislatore che, proprio nell’assunto della non estensibilità del termine decadenziale che governa il rimedio impugnatorio ad una domanda che ha un diverso oggetto e mira a produrre un diverso effetto, ha previsto, per il futuro, un autonomo termine decadenziale per l’actio damni proposta a tutela di interessi legittimi, pari a centoventi giorni, a fronte del temine di prescrizione quinquennale sancito, in via generale, per i fatti illeciti, dall’art. 2947 c.c.

La mancata operatività di una pregiudizialità processuale si coniuga con gli arresti della prevalente giurisprudenza comunitaria che considerano la domanda di annullamento e quella di risarcimento rimedi autonomi pur se escludono la favorevole valutazione della domanda risarcitoria quando essa mascheri un’ormai tardiva azione di annullamento, così come negano la risarcibilità dei danni che sarebbero stati evitati con la tempestiva impugnazione (Corte Giust. 28 aprile 1971, in causa C-4/69, Lutticke; Corte Giust. 2 dicembre 1971, in causa C-5/71, Actien-Zuckerfabrik; Corte Giust. 4 ottobre 1979, in cause riunite 241, 242, 245-250/78, DGV-Deutsche Getreivertretung; Corte Giust. 17 maggio 1990, in causa C-87/89, Sonito; Trib primo grado 8 maggio 2001, in causa T-182/99, Caravelis; vedi anche, con riguardo al problema affine dei rapporti tra ricorso in carenza e domanda di risarcimento, Corte Giust. 2 luglio 1974, in causa C-153/73, Holtz e Willemsen GmbH c. Consiglio e Commissione).

La soluzione adottata dal diritto comunitario, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, nel senso dell’autonomia processuale delle due tecniche di protezione, assume un rilievo pregnante nel nostro ordinamento alla luce dell’art. 1 del codice del processo amministrativo che richiama espressamente i principi della Costituzione e del diritto europeo volti ad assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva.

La soluzione è suffragata anche dall’evoluzione della legislazione nazionale – registratasi già prima dal codice del processo amministrativo e da questo armonicamente portata a compimento – in ordine alle tecniche di tutela dell’interesse legittimo ed al sistema delle invalidità nel diritto amministrativo.

La tesi della necessaria subordinazione della tutela risarcitoria alla tutela di annullamento è, infatti, non in linea con la tendenza legislativa a superare il modello dell’esclusività della tutela impugnatoria con la conseguente ammissione di tecniche di tutela dell’interesse legittimo anche dichiarative (art. 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241/1990, in materia di azione di nullità) e di condanna (art 2, comma 8, di tale legge e art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, in tema di azione nei confronti del silenzio non significativo; art. 7, comma 3, di tale legge, come mod. dalla legge n. 205 del 2000; art. 21 bis della legge 1971, n. 1034, introdotto dalla stessa legge n. 205 del 2000, rispettivamente in materia di tutela risarcitoria in generale e di danno da ritardo).

Si deve, in particolare, osservare, a conferma del superamento della centralità della tutela di annullamento ove siano percorribili altre e più appropriate forme di tutela, che l’art. 21 octies, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15, ha statuito che il provvedimento amministrativo non è suscettibile di annullamento ove sia affetto da vizi procedimentali o formali che non abbiano influito sul contenuto dispositivo dell’atto finale.

Sullo stesso solco si pone il citato art. 34, comma 3, del codice del processo amministrativo- richiamato, nel rito dei contratti pubblici, dall’art. 125, comma 3- , il quale stabilisce che “quando nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento non risulti più utile per il ricorrente il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori”.

La diposizione consente che un’azione costitutiva di annullamento, non più supportata dal necessario interesse, sia convertita in un’azione meramente dichiarativa di accertamento dell’illegittimità, da far valere in un (anche successivo) giudizio di risarcimento.

Si recepisce, in sostanza, l’indirizzo ermeneutico, già tracciato da questo Consiglio (sez. V, 16 giugno 2009, n. 3849), secondo cui, a fronte della domanda di annullamento inidonea a soddisfare l’interesse in forma specifica (nella specie veniva in considerazione un provvedimento di espropriazione relativo ad aree non più restituibili in quanto irreversibilmente trasformate), la pronuncia – nel caso in parola motivata con riguardo alla regula iuris sottesa agli artt. 2058 e 2933 c.c. – deve limitarsi ad un accertamento dell’illegittimità, senza esito di annullamento, ai soli fini della tutela risarcitoria invocabile con riguardo agli eventuali danni patiti per effetto dell’esecuzione del provvedimento impugnato.

Va, da ultimo, osservato che l’autonomia del mezzo impugnatorio quale strumento idoneo a soddisfare in modo adeguato la pretesa azionata anche in caso di preclusione della tutela di annullamento, è stata di recente ribadita dalla Corte Costituzionale con la sentenza 11 febbraio 2011, n. 49, che ha respinto la questione di legittimità costituzionale sollevata, rispetto ai parametri di cui agli art. 2, 24, 103 e 113 della Costituzione, nei confronti dell’art. 2, commi 1, lettera b), e, in parte qua, 2, del decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220, convertito dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280, nella parte in cui detta una normativa che riserva al giudice sportivo la cognizione delle controversie relative alle sanzioni disciplinari non tecniche inflitte ad atleti, tesserati associazioni e società sportive, sottraendola al giudice amministrativo, anche là dove esse incidano su diritti ed interessi legittimi.

Al par. 4.5. della motivazione, la sentenza della Consulta ha posto a fondamento della statuizione di rigetto il rilievo che la mancata praticabilità della tutela impugnatoria non toglie che le situazioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo siano adeguatamente tutelabili innanzi al giudice amministrativo, munito oltretutto di giurisdizione esclusiva in subiecta materia, mediante la tutela risarcitoria.

Si supera così l’impostazione tradizionale che vedeva l’annullamento quale sanzione indefettibile a fronte del riscontro di un vizio di legittimità, dandosi vita ad un sistema delle tutele duttile, che consente un accertamento non costitutivo dell’illegittimità, a fini risarcitori.

In definitiva, l’evoluzione del diritto amministrativo, già nel sistema normativo anteriore al codice del processo amministrativo, si è orientata in senso opposto alla praticabilità di una soluzione rigidamente processuale che imponga la proposizione del ricorso di annullamento quale condizione per accedere alla tutela risarcitoria anche quando la sentenza costitutiva non sia, o non sia più, necessaria ed utile per soddisfare l’interesse sostanziale al bene della vita.

6. La soluzione esposta si pone in linea di continuità con il più recente orientamento interpretativo di questo Consiglio (sez. VI, 19 giugno 2008, n. 3059; sez. V, 3 febbraio 2009, n. 578; sez. VI, 21 aprile 2009, n. 24363; sez V, 3 novembre 2010, n. 7766), che ha spostato l’indagine sul rapporto tra azione di danno e domanda di annullamento dal terreno processuale al piano sostanziale, pervenendo alla condivisibile conclusione che la mancata promozione della domanda impugnatoria non pone un problema di ammissibilità dell’actio damni ma è idonea ad incidere sulla fondatezza della domanda risarcitoria.

L’Adunanza Plenaria, sviluppando queste coordinate ermeneutiche alla luce dei principi ricavabili anche dal sopravvenuto codice del processo amministrativo, reputa che l’analisi dei rapporti sostanziali debba essere svolto, piuttosto che sul piano dell’ingiustizia del danno valorizzato dalle pronunce in esame, su quello della causalità.

Detta indagine consente, in modo più appropriato, di introdurre il necessario temperamento all’autonomia processuale delle tutele cogliendo la dipendenza sostanziale, come fatto da apprezzare in concreto, tra rimedio impugnatorio e azione risarcitoria.

In questo quadro, le esigenze di preservazione della stabilità dei rapporti pubblicistici e di prevenzione di comportamenti opportunistici, perseguite dalla giurisprudenza anche di questa Adunanza Plenaria con l’affermazione del principio della pregiudizialità ed evidenziate in modo puntuale nell’ordinanza di rimessione, possono allora essere soddisfatte, in modo più convincente, con l’applicazione delle norme di cui agli artt. 1223 e seguenti del codice civile in materia di causalità giuridica.

7. Assume rilievo, in particolare, il più volte citato disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile – norma applicabile anche in materia aquiliana per effetto del rinvio operato dall’art. 2056 – che, dando seguito ad un principio già affermato dalla dottrina francese ottocentesca, considera non risarcibili i danni evitabili con un comportamento diligente del danneggiato.

L’Adunanza, riprendendo le indicazioni già in precedenza fornite, reputa che la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione e degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, sia ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un’ interpretazione evolutiva del capoverso dell’articolo 1227 cit.

7.1. Come è noto, le regole di cui al primo e al secondo comma dell’art. 1227 disciplinano i due diversi segmenti del nesso causale in materia di illecito civile.

In particolare, il comma 1, in combinato disposto con l’art. 1218 c.c., nell’affrontare il primo stadio della causalità (c.d. causalità materiale), inerente al rapporto tra condotta illecita (o inadempitiva) e danno-evento, valorizza il concorso di colpa del danneggiato come fattore che limita il risarcimento del danno-causato in parte dallo stesso danneggiato o dalle persone di cui questi risponde.

Il comma 2, invece, operando sui criteri di determinazione del danno-conseguenza ex art. 1223 c.c, regola il secondo stadio della causalità (c.d. causalità giuridica), relativo al nesso tra danno-evento (o evento-inadempimento contrattuale) alle conseguenze dannose da esso derivanti.

In questo quadro la norma introduce un giudizio basato sulla cd. causalità ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza. Si vuole, a questa stregua, circoscrivere il danno derivante dall’inadempimento entro i limiti che rappresentano una diretta conseguenza dell’altrui colpa.

Sul piano teleologico, la prescrizione, espressione del più generale principio di correttezza nei rapporti bilaterali, mira a prevenire comportamenti opportunistici che intendano trarre occasione di lucro da situazioni che hanno leso in modo marginale gli interessi dei destinatari tanto da non averli indotti ad attivarsi in modo adeguato onde prevenire o controllare l’evolversi degli eventi (cfr., per ulteriori applicazioni del principio di causalità ipotetica, artt. 1221, comma 1 e 1805, comma 2 c.c., 369 cod nav.).

L’articolo 1227, capoverso, costituisce allora applicazione del più generale principio di esclusione della responsabilità ogni volta in cui si provi, in base ad un giudizio ipotetico più che strettamente causale, che il danno prodottosi non rappresenta una perdita patrimoniale per il creditore o per il danneggiato in quanto l’avrebbe egualmente subita o perché avrebbe potuto evitarla.

La giurisprudenza e la dottrina hanno nel tempo dilatato, in sede interpretativa, la portata ed i confini dell’impegno cooperativo gravante sul creditore vittima di un altrui comportamento illecito.

Risulta così superato il tradizionale indirizzo restrittivo secondo il quale il canone della «diligenza» di cui all’art. 1227, comma 2, imporrebbe il mero obbligo (negativo) del creditore di astenersi da comportamenti volti ad aggravare il danno, mentre esulerebbe dallo spettro degli sforzi esigibili la tenuta di condotte di tipo positivo sostanziantisi in un facere. La giurisprudenza più recente, muovendo dal presupposto che la disposizione in parola non è formula meramente ricognitiva dei principi che governano la causalità giuridica consacrati dall’art. 1223 c.c. ma costituisce autonoma espressione di una regola precettiva che fonda doveri comportamentali del creditore imperniati sul canone dell’ auto-responsabilità, ha, infatti, adottato un’interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2 dell’art. 1227, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall’aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno).

Tale orientamento si fonda su una lettura dell’art. 1227, comma 2, alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost. Detto approccio ermeneutico è, quindi, ispirato da una lettura della struttura del rapporto obbligatorio in forza della quale, anche nella fase patologica dell’inadempimento, il creditore, ancorché vittima dell’illecito, è tenuto ad una condotta positiva (cd. controazione) tesa ad evitare o a ridurre il danno.

Un limite all’obbligazione cooperativa e mitigatrice del creditore e agli sforzi in capo allo stesso esigibili è, peraltro, rappresentato dalla soglia del c.d. apprezzabile sacrificio: il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l’aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose. L’obbligo di cooperazione gravante sul creditore, espressione del dovere di correttezza nei rapporti fra gli obbligati, non comprende, pertanto, l’esplicazione di attività straordinarie o gravose attività, ossia un “facere” non corrispondente all’ id quod plerumque accidit. (così, da ultimo, Cass.civ., sez. I, 5 maggio 2010, n. 10895).

7.2. Resta allora da vedere, venendo al tema oggetto del presente giudizio, se nel novero dei comportamenti esigibili dal destinatario di un provvedimento lesivo sia sussumibile, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., anche la formulazione, nel termine di decadenza, della domanda di annullamento, quante volte l’utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio sarebbe stata idonea, secondo il ricordato paradigma della causalità ipotetica basata sul giudizio probabilistico, ad evitare, in tutto o in parte, il pregiudizio.

7.2.1. L’Adunanza non ignora che, secondo l’orientamento interpretativo tradizionalmente prevalente, il comportamento operoso richiesto al creditore non comprenderebbe l’esperimento di un’azione giudiziaria, sia essa di cognizione o esecutiva, trattandosi di attività per definizione complessa e aleatoria, come tale non esigibile in quanto esplicativa di una mera facoltà, dall’esito non certo.

Questo Consiglio reputa tuttavia che tale indirizzo, laddove fissa, con affermazione perentoria ed astratta, il principio dell’inesigibilità ex bona fide di condotte processuali, meriti rivisitazione.

In linea di principio va osservato che il principio dell’insindacabilità delle scelte giudiziarie, al di là dei limiti e dei divieti puntualmente stabiliti, è interessato da un graduale ma chiaro superamento da parte della giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione, propensa a sanzionare le condotte processualmente scorrette con gli strumenti del divieto dell’abuso del diritto, della clausola di buona fede e dell’exceptio doli generalis.

Va ricordata, al riguardo, la sentenza della Cassazione, sezioni unite, 15 novembre 2007, n. 23726 (conf. sez. III 3 maggio 2008, n, 15476; sez. II, 27 maggio 2008, n. 13791), che ha affermato il principio secondo cui il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario integra condotta contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, e si risolve in abuso del processo ostativo all’esame della domanda.

Tale pronuncia afferma con forza la vigenza, nel nostro sistema, di un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto.

A questa stregua la disarticolazione, da parte del creditore, dell’unità sostanziale del rapporto (sia pure nella fase patologica della coazione all’adempimento), oltre a violare il generale dovere di correttezza e buona fede, in quanto attuata nel processo e tramite il processo, si risolve anche in abuso dello stesso ed in una violazione del canone del giusto processo. Viene così in rilievo una condotta che, pur formalmente conforme al paradigma normativo, disattende il limite modale che impone al titolare di ogni situazione soggettiva di non azionarla con strumenti, sostanziali e processuali, che infliggano all’interlocutore un sacrificio non comparativamente giustificato dal perseguimento di un lecito e ragionevole interesse (v. sul concetto di limite modale, con particolare riguardo all’esercizio del diritto di recesso nei rapporti negoziali, Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n, 20106).

Il divieto di abuso del diritto si applica allora anche in chiave processuale: il creditore deve evitare di esercitare un’azione con modalità tali da implicare un aggravio della sfera del debitore, sì che il divieto di abuso del diritto diviene anche divieto di abuso del processo Si giunge, così, all’elaborazione della figura dell’abuso del processo quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa (conf. Cass., sez. I, 3 maggio 2010, n. 10634, che applica il principio del divieto di abuso del processo ai fini della liquidazione delle spese giudiziali; per un ancoraggio dell’abuso del processo, in correlazione agli artt. 24, 111 e 113 Cost. nonché ai principi del diritto europeo, si vedano gli articoli 88, 91, 94 e 96 del codice di rito civile e gli artt. 1, 2 e 26 del codice del processo amministrativo).

Ai fini che qui interessano, assume particolare rilievo la circostanza, sottolineata dalle Sezioni Unite, che il divieto di abuso concerne, oltre che la fase fisiologica del rapporto, anche quella patologica: il creditore, cioè, deve cooperare col debitore non solo per agevolare l’adempimento, ma anche per non aggravare la sua posizione una volta che si è verificata la violazione dell’impegno obbligatorio. E tanto si ricava proprio dal secondo comma dell’art. 1227 c.c., il quale impone a colui che abbia subito l’inadempimento (o il fatto illecito) di porre in essere in base a buona fede anche comportamenti attivi, entro i limiti del sacrificio non apprezzabile, per evitare l’aggravamento del danno.

7.2.2. In definitiva, la persuasiva elaborazione pretoria di cui si è dato conto mette in luce che il divieto di tenere condotte contrarie a buona fede ha un ancoraggio costituzionale nel dettato dell’art. 2 Cost, costituisce canone di valutazione anche delle condotte processuali ed opera anche nella fase patologica del rapporto obbligatorio.

Ora, se si considera che, alla stregua di questa recente e convincente lettura, l’obbligo di cooperazione di cui al comma 2 dell’art. 1227 ha fondamento proprio nel canone di buona fede ex art. 1175 c.c. e, quindi, nel principio costituzionale di solidarietà, si deve concludere che anche le scelte processuali di tipo omissivo possono costituire in astratto comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di causalità ipotetica di cui si è detto, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno.

Si deve allora preferire al tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sincadabilità delle condotte processuali ai sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., un più duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto.

7.2.3. Applicando detto criterio interpretativo, si deve allora ritenere che la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo possa essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno (in questo senso, Cons. Stato, sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124; sez. VI, 22 ottobre 2008 , n. 5183; sez. V, 31 dicembre 2007, n. 6908; sez. IV 3 maggio 2005, n. 2136) .

Si deve, infatti, considerare che il ricorso per annullamento finalizzato a rimuovere la fonte del danno, pur non essendo più l’unica tutela esperibile, è il mezzo di cui l’ordinamento giuridico processuale dota i soggetti lesi da un provvedimento illegittimo proprio per evitare che quest’ultimo produca conseguenze dannose. Ne deriva che l’utilizzo del rimedio appropriato coniato dal legislatore proprio al fine di raggiungere gli obiettivi della tutela specifica delle posizioni incise e della prevenzione del danno possibile, costituisce, in linea di principio, condotta esigibile alla luce del dovere di solidale cooperazione di cui alla norma civilistica in esame.

Nella specie assume un ruolo decisivo la considerazione, di tipo comparativo, che la tecnica di tutela non praticata, quella di annullamento, se si eccettua il profilo del termine decadenziale, non implica costi ed impegno superiori a quelli richiesti per la tecnica di tutela risarcitoria, ed anzi si presenta più semplice e meno aleatoria nella misura in cui richiede il solo riscontro della presenza di un vizio di legittimità invalidante senza postulare la dimostrazione degli altri elementi invece necessari a fini risarcitori, quali l’elemento soggettivo, il duplice nesso eziologico nonché l’esistenza e la consistenza del danno risarcibile in base ai parametri di cui agli artt.1223 e seguenti del codice civile

Si deve allora reputare che la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile.

A diversa conclusione si deve invece pervenire laddove la decisione di non fare leva sullo strumento impugnatorio sia frutto di un’opzione discrezionale ragionevole e non sindacabile in quanto l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno e, in generale, non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione. Si consideri, a titolo esemplificativo, l’ipotesi in cui il provvedimento sia stato immediatamente eseguito producendo una modificazione di fatto irreversibile; o quella in cui i tempi tecnici del processo non consentano, ragionevolmente, di praticare, in modo efficiente, il rimedio della tutela ripristinatoria; o, ancora, le situazioni in cui, per effetto di specifica previsione di legge (cfr. l’art. 246, comma 4, del codice dei contratti pubblici, da ultimo confluito nell’art. 125, comma 3, del codice del processo amministrativo), il mezzo dell’annullamento non possa soddisfare, in termini reali, l’aspirazione al conseguimento del bene della vita desiderato. Dette evenienze, ostative al soddisfacimento in natura della posizione azionata, possono maturare nel corso del giudizio in guisa da produrre la concentrazione in itinere della domanda sul solo profilo del risarcimento sulla base della regola giurisprudenziale prima ricordata, oggi canonizzata dall’art. 34, comma 3, del codice del processo amministrativo.

La soluzione esposta, che riprende indicazioni già fornite dalla Corte di Cassazione nelle citate ordinanze delle Sezioni Unite 13 giugno 2006, nn. 13659 e 13660, si pone in linea con l’indirizzo sostenuto dalla prevalente giurisprudenza comunitaria che, come in precedenza sottolineato, pur ammettendo la proponibilità della domanda risarcitoria in via autonoma rispetto al rimedio impugnatorio, considera nel merito infondata la pretesa al ristoro dei danni che sarebbero stati evitati mediante la tempestiva impugnazione dell’atto lesivo.

Si sancisce in questo modo un coordinamento, non processuale ma sostanziale, tra il rimedio caducatorio e quello risarcitorio. In questi termini, come è stato efficacemente notato in dottrina, si può parlare di un coordinamento delle tutele più che di un coordinamento delle azioni.

7.2.4. Va soggiunto che la mancata proposizione del ricorso per annullamento va apprezzata nel quadro di una valutazione più ampia – oggi recepita dagli artt. 30 e 124 del codice del processo amministrativo oltre che dall’art. 243 bis del codice dei contratti pubblici- del comportamento complessivo della parte in seno al quale detta omissione processuale si colloca.

Andrà allora ponderata la concorrente rilevanza eziologica spiegata dal mancato utilizzo di rimedi e di condotte che, non implicando rilevanti costi e oneri, sono, a maggior ragione, esigibili, alla stregua dei canoni ermeneutici sopra esposti, come l’attivazione del rimedio dei ricorsi amministrativi e la proposizione di tempestive istanze volte a sollecitare la rimozione o la modificazione in autotutela del provvedimento illegittimo, in una agli ulteriori comportamenti diligenti idonei ad incidere in senso favorevole sul rapporto amministrativo oggetto del provvedimento illegittimo (cfr. art. 243 bis del codice dei contratti pubblici).

8. Vanno, infine, analizzati i profili processuali e probatori che connotano l’applicazione al processo amministrativo della regula iuris sottesa all’art. 1227, capoverso, del codice civile.

Questa Adunanza reputa di non diversi discostare e dall’orientamento già espresso dal Consiglio (sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 5183) in merito alla necessità di adattare l’applicazione della regola civilistica alle peculiarità del processo amministrativo imperniato sul metodo acquisitivo che permea l’operatività del principio dispositivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11 febbraio 2011, n. 924; vedi oggi l’art. 63, comma 2, del codice del processo amministrativo). Si deve poi tenere conto della specificità del tema probatorio in esame, il quale impinge in buona misura su quaestiones iuris – quelle relative all’individuazione degli strumenti giuridici di tutela praticabili, al plausibile esito del ricorso per annullamento ed agli sbocchi degli ulteriori mezzi di tutela anche stragiudiziali- che soggiacciono al principio iura novit curia.

Si deve allora ritenere che, sulla base di principi già desumibili dal quadro normativo precedente ed oggi recepiti dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, il Giudice amministrativo sia chiamato a valutare, senza necessità di eccezione di parte ed acquisendo anche d’ufficio gli elementi di prova all’uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di annullamento e dell’utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe, secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente, evitando in tutto o in parte il danno.

Un rilievo significativo è destinato ad assumere l’utilizzo del mezzo di prova delle presunzioni ex artt. 2727 e seguenti del codice civile, che consente di valutare se l’apprezzamento dell’illegittimità dell’atto operato in sede risarcitoria avrebbe portato anche all’annullamento dello stesso – dato, questo, in linea generale presumibile, vista l’identità dell’oggetto delle valutazioni – in modo da impedire, alla luce anche delle misure provvisorie adottabili in corso di giudizio o ante causam, di mitigare o ridurre il danno.

9. Si può a questo punto esaminare il caso di specie in forza delle coordinate fin qui esposte.

L’illegittimità del provvedimento di sospensione dalle gare per nove mesi risulta acclarata in ragione dell’assenza di un’adeguata istruttoria e del difetto di una congrua motivazione in ordine all’effettiva addebitabilità a colpa dell’impresa appaltatrice dell’incidente che ha indotto l’ENEL Distribuzione s.p.a. all’adozione dell’atto lesivo.

Deve allora darsi risposta alla duplice domanda se la condotta dell’impresa abbia integrato violazione del canone comportamentale cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c. (oggi recepito dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo) ed abbia spiegato un effetto eziologico nella produzione di un danno altrimenti evitabile.

Il Consiglio, nel confermare, con le seguenti integrazioni motivazionali la soluzione adottata dal primo giudice, reputa che ad entrambi i quesiti vada data risposta positiva.

Quanto al primo aspetto appare determinante la circostanza che, a fronte di un provvedimento adottato il 30 settembre 1999, recante la sospensione degli inviti a gare d’appalto nell’intero ambito territoriale di competenza per un periodo di nove mesi a far data dal 1° ottobre 1999, l’impresa abbia reagito con atto di citazione innanzi al Giudice civile solo il 6 maggio 2002, ossia ad oltre due anni e mezzo di distanza, per poi proporre ricorso innanzi al Tribunale Amministrativo dopo oltre un anno dalla sentenza n. 6221 del 25 maggio n 2004 con la quale il Tribunale civile di Napoli aveva dichiarato il difetto di giurisdizione.

La totale inerzia osservata dall’appellante, nella coltivazione di rimedi giudiziali e di iniziative stragiudiziali, lungo tutto l’arco temporale nel corso del quale l’atto ha spiegato il suo effetto inibitorio e per un ulteriore e assai ampio spatium temporis, integra, alla luce della gravità degli effetti lesivi denunciati, una chiara violazione degli obblighi cooperativi che gravano sul creditore danneggiato. Detto aspetto è stato già apprezzato dalla sentenza appellata e dalla decisione di rimessione che hanno affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa e negato la concessione del beneficio dell’errore scusabile alla luce di consolidati principi giurisprudenziali che avevano affermato la natura autoritativa del potere esercitato da ENEL e la qualificazione pubblicistica assunta da detto soggetto in subiecta materia, oltre che in considerazione del ritardo con il quale l’appellante ha riproposto la domanda risarcitoria innanzi al giudice amministrativo. Quanto al profilo eziologico, l’Adunanza, applicando le regole prima esposte che presiedono al giudizio di causalità ipotetica in materia risarcitoria, ritiene di poter concludere che i danni lamentati sarebbero stati in toto evitati se l’impresa si fosse tempestivamente avvalsa degli strumenti di tutela predisposti all’uopo dall’ordinamento ed avesse posto in essere le ulteriori iniziative esigibili ex bona fide. Appare al riguardo determinante la circostanza che il ricorrente non solo non abbia proposto il ricorso giurisdizionale amministrativo, così vedendosi preclusa la via delle misure provvisorie in corso di causa, ma non abbia neanche sperimentato la via dei ricorsi amministrativi, così come non abbia compiuto atti volti a stimolare l’autotutela al pari di atti di iniziativa finalizzati a partecipare alle singole procedure di suo specifico interesse, con conseguente contestazione dei puntuali provvedimenti di esclusione.

L’Adunanza reputa che la tempestiva utilizzazione di tali rimedi avrebbe consentito di ottenere l’ammissione alle singole procedure e, quindi, di perseguire una tutela specifica dell’interesse leso. Si deve allora convenire che il comportamento dell’appellante ha assunto un ruolo eziologico decisivo nella produzione di un pregiudizio che il corretto utilizzo dei rimedi rammentati, inquadrato nella condotta complessiva esigibile, avrebbe plausibilmente consentito di evitare, alla luce dei vizi denunciati, della gravità del pregiudizio lamentato e del tasso di effettività della tutela che i mezzi non sperimentati avrebbero consentito di ottenere.

10. Alla stregua delle considerazioni che precedono l’appello deve essere respinto.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza appellata.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 febbraio 2011.



[1] Questa concezione di interesse legittimo sostanzialmente riecheggia in quella impostazione dottrinale (invero minoritaria) che si è sviluppata, mutatis mutandis, in merito all’art. 9 l. 241/90, secondo la quale questa norma, nel riconoscere l’attribuzione del diritto alla partecipazione al procedimento a “qualunque soggetto portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati”, implicitamente avrebbe riconosciuto la titolarità del sottostante interesse sostanziale al corretto esercizio dei poteri previsti dalla legge in materia. L’opinione maggioritaria, tuttavia, è nel senso di ritenere che legittimazione procedimentale e legittimazione processuale non sempre coincidano e che in particolare la legittimazione processuale vada valutata caso per caso proprio alla luce della mutata concezione dell’interesse legittimo.

[2] Il superamento di questa teoria è, inoltre, avallato a chiare lettere dalla tendenza legislativa a rendere irrilevanti i c.d. vizi invalidanti del provvedimento amministrativo (ex art. 21-octies l. 241/90). Un provvedimento ben può essere illegittimo senza che ciò conduca all’annullamento di esso, in quanto l’illegittimità in sé considerata non necessariamente sortisce l’effetto di comportare una differente valutazione degli interessi in gioco e, dunque, una differente determinazione della p.a.

[3] Cons. Stato Ad. Plen. 22 ottobre 2007, n. 12 (conf. Cons. Stato Ad. Plen. n. 4/2003).

[4] Conf. Cass. S.U. n. 30254 del 2008, Cass. S.U. nn. 19048 e 23595 del 2010 e Cass. S.U. n. 405/2011.

[5] Secondo i giudici di Palazzo Spada, inoltre, alle medesime conclusioni poteva giungersi anche prima dell’entrata in vigore del c.p.a. posto che l’autonomia dell’azione impugnatoria e di quella risarcitoria ben poteva ravvisarsi sul piano della sostanziale diversità dell’oggetto e degli effetti di esse. Inoltre, il danno risarcibile spesso non è cagionato dal provvedimento in sé considerato, bensì dalla condotta complessiva della p.a. precedente e successiva. La pregiudizialità amministrativa di rito tra azione di annullamento ed azione risarcitoria sarebbe inoltre smentita dalla evoluzione normativa anche antecedente rispetto al c.p.a. già finalizzata ad ampliare lo spettro delle tutele concesse al privato.

[6] Disposizioni simili si riscontrano nell’art. 124, comma 2, c.p.a. e nell’art. 243-bis del Codice dei contratti pubblici.

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