società capitale pubblico

SOCIETA’ A CAPITALE PUBBLICO E ASSOGGETTABILITA’ A FALLIMENTO. ASPETTI PROBLEMATICI.

Francesco Nicotra

 

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La questione della natura delle società a capitale pubblico – 3. Le tesi che propendono per il regime giuridico privatistico – 4. Le tesi che escludono la fallibilità – 5. Le società in house – 6. Considerazioni conclusive.

  1. 1.       Premessa

Un problema che si pone con riferimento alle società a capitale pubblico[1] è quello che porta ad interrogarsi, in mancanza di specifiche previsioni sul punto, sulla assoggettabilità o meno a fallimento ed alle altre procedure concorsuali.

Il tema è stato poco discusso in dottrina.

Il disinteresse nei confronti della questione non appare oggi più giustificato, sia alla luce del ruolo significativo che questi soggetti hanno acquisito nel contesto economico, sia in ragione della perdurante incertezza in ordine alla loro collocazione nell’ambito pubblicistico o privatistico[2], ai fini dell’applicazione delle diverse normative settoriali[3].

Come noto, sia la normativa codicistica (art. 2221 c.c.) che quella fallimentare (art. 1, l. fall.) stabiliscono per gli enti pubblici un’espressa esenzione dall’applicazione delle disposizioni in materia di fallimento e di concordato preventivo[4]. Tale scelta si fonda sull’idea della presunta incompatibilità tra le finalità proprie dell’attività degli enti pubblici e gli effetti tipici della procedura fallimentare, nonché l’esigenza di mantenere in capo agli stessi soggetti la titolarità delle funzioni amministrative, evitando l’ingerenza dell’autorità giudiziaria in ambiti riservati all’autorità amministrativa[5], e, ancora, l’interruzione del pubblico servizio erogato dall’ente[6].

Con riferimento alle società a capitale pubblico, in mancanza di previsioni normative che ne stabiliscano la fallibilità o meno, si pone il problema se le stesse siano assoggettabili al regime proprio degli enti pubblici, anche tenuto conto delle difficoltà relative all’identificazione di questi ultimi[7], o dei soggetti di diritto privato[8].

Al fine di risolvere la problematica in esame, risulta imprescindibile, pertanto, da un lato, l’identificazione della esatta natura della società a partecipazione pubblica, onde ricavarne i necessari corollari in termini di disciplina applicabile, e, dall’altro lato, come si vedrà più avanti, l’analisi, condotta tenendo conto dei vari interessi in gioco, dei vantaggi e degli svantaggi derivanti dalla sua soggezione o meno a fallimento e alle altre procedure concorsuali.

  1. 2.      La questione della natura delle società a capitale pubblico.

In via preliminare, al fine di esaminare la questione relativa alla fallibilità delle società in mano pubblica, pare opportuno definire, alla luce del quadro normativo esistente e della elaborazione giurisprudenziale nazionale ed europea in materia, la natura delle società in esame[9] onde delinearne lo statuto applicabile.

Le società a capitale pubblico costituiscono soggetti formalmente privati disciplinati da norme che, in alcuni casi, derogano in chiave pubblicistica alla disciplina di diritto civile[10]. Si distinguono, pertanto, dagli enti pubblici economici, caratterizzati dal fatto di essere soggetti formalmente pubblici che operano in regime di diritto privato[11].

La scelta della forma societaria come modalità di organizzazione pubblica comporta la necessità di conciliare la struttura tipica delle società, imperniata sul fine di lucro, con l’interesse pubblico che si intende realizzare; è compito del legislatore risolvere questo elemento di criticità mediante l’approvazione delle leggi che istituiscono le società pubbliche.

L’esistenza degli enti pubblici a struttura societaria ha portato la giurisprudenza ad affermare la neutralità del modello societario rispetto alle finalità che si intendono perseguire[12]. Tuttavia, autorevole dottrina rileva che, a parte i casi di società c.d. legali (istituite, trasformate o comunque disciplinate con apposita legge speciale)[13], «ci troviamo spesso di fronte a società di diritto, comune, in cui pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella privatistica che regola il funzionamento della società convivono»[14].

Questa interpretazione risulta avvalorata dalla tendenza dell’ordinamento comunitario ad essere indifferente al profilo nominalistico, rilevando invece, ai fini della classificazione della natura pubblica o privata degli enti, la sostanza delle funzioni esercitate e la tipologia degli interessi perseguiti[15].

In proposito, il dibattito tradizionale sviluppatosi evidenzia una contrapposizione tra una visione c.d. privatistiva, secondo cui le società a partecipazione pubblica sarebbero soggette al medesimo regime di disciplina delle società di capitali a partecipazione privata, e una visione c.d. pubblicistica, la quale, invece, proprio in considerazione della rilevanza degli interessi pubblici nell’ambito di tale fattispecie, giunge ad ammettere la sostituzione delle norme societarie dettate dal codice civile con altre di natura pubblicistica[16].

La società a capitale pubblico risulta oggi, inoltre, tendenzialmente assimilata a quella privata in virtù dell’influenza dell’ordinamento comunitario, che, non tollera ingiustificati privilegi in capo alla prima a scapito dei principi della libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali (artt. 49 e 63 TFUE), strumentali alla tutela del principio di concorrenza[17].

Sotto tale profilo, come si vedrà più avanti, esonerare dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali le società a capitale pubblico insolventi – al di là di eventuali ipotesi espressamente previste dal legislatore o in virtù della specifica missione loro assegnata – potrebbe determinare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato, nonché una disparità di trattamento tra imprese pubbliche e private, in violazione dell’art. 106 del Trattato C.E., proprio perché, in tal modo, le une, a differenza delle altre, potrebbero continuare ad operare in perdita sul mercato[18].

Parte della dottrina[19] riconosce natura di soggetto privato alla società a capitale pubblico, e ciò muovendo dal presupposto che a quest’ultima si applica lo statuto comune della società per azioni, salvo quanto disposto dall’art. 2449 c.c.[20] Tuttavia, in base al quadro delineato, emerge in modo evidente che il legislatore, anche quando ha inteso valorizzare determinate esigenze di carattere pubblicistico, lo ha fatto pur sempre nel rispetto degli obiettivi e delle finalità dell’attività di impresa, senza stravolgere istituti societari tipici piegandoli ad interessi extrasociali.

Trattasi, comunque, di società sottoposte ad una disciplina legislativa speciale che ne caratterizza in senso pubblicistico la natura, imponendo il perseguimento di un determinato fine pubblico la cui permanenza è resa indisponibile alla volontà degli organi deliberativi[21].

Il tutto nel rispetto dei principi su richiamati dell’ordinamento comunitario.

  1. 3.      Le tesi che propendono per il regime giuridico privatistico

Secondo un’opinione dominante, le società in mano pubblica non perdono la loro natura privata, rimanendo, quindi, assoggettabili al fallimento ed al concordato preventivo[22].

In proposito, si sostiene che quantunque pubblico sarebbe il soggetto che partecipa alla società, quest’ultima resterebbe comunque privata, come tale assoggettabile a fallimento[23]. Tale assunto sarebbe avallato dal fatto che il legislatore, nel dettare poche norme (artt. 2448 e 2451 c.c.) con riferimento alle società con partecipazione dello Stato o degli altri enti pubblici, avrebbe con ciò manifestato la volontà di assoggettare queste ultime, salvo quanto stabilito dalle norme citate, alla medesima disciplina prevista per le società in mano privata[24].

A sostegno della tesi su richiamata, sussisterebbero diversi argomenti prospettati dalla dottrina.

Innanzitutto, si ritiene che l’assoggettamento dell’attività delle società a capitale pubblico a talune regole giuspubblicistiche non ne muta la natura giuridica privatistica e la conseguente applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale[25].

In secondo luogo, l’esenzione dalle procedure concorsuali delle società in mano pubblica pregiudicherebbe secondo alcuni sia l’interesse dei creditori, sia l’interesse pubblico, sia (potenzialmente) l’interesse della stessa società[26]. La sottrazione ai creditori del rimedio dell’esecuzione concorsuale e la possibilità di ottenere la tutela dei propri interessi mediante il ricorso alla sola esecuzione individuale lederebbe i principi di affidamento e di eguaglianza dei creditori che entrano in rapporto con la società in mano pubblica, da applicare nelle ipotesi di soggetti insolventi[27].

Infine, ove le società a partecipazione pubblica insolventi si ritenessero non assoggettabili a fallimento ed alle altre procedure concorsuali, ciò potrebbe determinare una violazione del diritto della concorrenza, nonché una disparità di trattamento tra imprese pubbliche e private, lesiva, non solo del dettato costituzionale (art. 3), ma anche dell’art. 106 TFUE[28] che impone la parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato, con le stesse forme e con le stesse modalità[29].

In favore dell’ammissibilità del fallimento nei confronti delle società a capitale pubblico si è orientata in passato la giurisprudenza. In una risalente pronuncia dei giudici di legittimità, si è infatti affermata l’applicazione del regime privatistico ordinario, comprensivo dell’assoggettabilità a procedure concorsuali, per una società per azioni concessionaria di un pubblico servizio ed al cui azionariato partecipavano soci pubblici[30].

Più di recente, la giurisprudenza di legittimità, dopo anni di oscillazioni, ha invece aderito alla tesi dell’assoggettabilità a fallimento delle società a capitale pubblico, con la decisione 15 maggio 2013 n. 22209[31].

L’iter logico seguito dalla Cassazione muove dalla considerazione secondo cui, la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali (e, dunque, di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico), comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto, attesa la necessità del rispetto delle regole sulla concorrenza[32].

Inoltre, rileva la Corte che, proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore, le quali, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato, può ricavarsi a contrario, come, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuino a soggiacere alla disciplina privatistica[33].

Al fine di motivare la soggezione al fallimento della società a capitale pubblico, i giudici di legittimità nella sentenza su citata richiamano il principio costantemente enunciato, secondo cui una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte il capitale[34].

Nessun rilievo verrebbe ad assumere inoltre la natura di servizio pubblico (e, quindi, l’esigenza di continuità della gestione) connessa alla attività svolta dalla società in questione.

Se la fallibilità delle società a capitale misto pubblico-privato sembrerebbe essere pacifica, la giurisprudenza è apparsa inizialmente oscillante con riferimento alle società a totale partecipazione pubblica.

Con la sentenza n. 26283 del 25 novembre 2013, le Sezioni Unite[35], muovendo dalla considerazione che le società in house[36] rappresentano articolazioni organizzative dell’ente pubblico controllante[37], ha superato i dubbi precedenti sostenendo che non vi è distinzione tra ente pubblico e società. Conseguentemente, anche quest’ultima riveste le caratteristiche dell’ente pubblico e, pertanto, non è fallibile[38].

  1. 4.      Le tesi che escludono la fallibilità.

Secondo un altro orientamento, la società in mano pubblica, in presenza di taluni indici sintomatici e indipendentemente dalla sua veste giuridica formale, può essere qualificata quale soggetto sostanzialmente pubblico, con la conseguente esenzione dal fallimento, alla luce del disposto dell’art. 1, comma 1, l. fall. previsto per gli enti pubblici[39].

La dottrina, tuttavia, pur ammettendo la possibilità che le società a capitale pubblico siano assoggettate al fallimento, ritiene opportuno distinguere a seconda delle caratteristiche di ciascuna società. In particolare, nell’ambito del fenomeno delle società a partecipazione pubblica bisognerebbe tenere presente che vi sono società che si differenziano tra di loro in maniera radicale, sia in riferimento al grado di ingerenza riconosciuto all’ente pubblico dalla legge istitutiva, dallo statuto e dalla partecipazione sociale, sia con riguardo ai compiti ad esse assegnati[40].

Al fine di stabilire il regime giuridico applicabile alle diverse società a capitale pubblico, la dottrina dopo avere seguito inizialmente un approccio meramente formale, basato sul dato esterno della veste giuridica utilizzata (società per azioni o società a responsabilità limitata, a seconda dei casi), oggi tende a privilegiare un orientamento di tipo sostanzialistico che, andando oltre la semplice forma giuridica prescelta per l’esercizio del servizio pubblico, si basa sui concreti interessi coinvolti nella fattispecie[41].

L’approccio di tipo sostanzialista è nato dalla constatazione che, in molti casi, l’uso della veste privatistica da parte dell’amministrazione pubblica può consentire alla stessa di sciogliersi – sia pur legittimamente – dai vincoli pubblicistici posti alla sua azione, potendo così fruire della più flessibile disciplina privatista[42].

Tale criterio sostanzialistico è stato recepito anche dalla giurisprudenza[43] e dal legislatore, sia comunitario che nazionale, i quali, prendendo atto della insufficienza di un approccio meramente formale e soggettivo ai fini della individuazione della disciplina applicabile alle società a capitale pubblico, hanno sempre più accentuato i profili pubblicistici di queste ultime e, conseguentemente, individuato una serie di normative pubblicistiche ritenute applicabili in presenza di determinate condizioni.

In particolare, alle società a capitale pubblico può essere applicata la normativa in materia di appalti pubblici[44], la normativa sul diritto di accesso agli atti amministrativi[45]. Ancora, può sussistere la giurisdizione amministrativa per i relativi atti[46], la giurisdizione della Corte dei Conti nei confronti degli amministratori[47] e l’obbligo per le società a capitale interamente pubblico, affidatarie di un servizio pubblico, di assumere personale secondo le norme dell’evidenza pubblica[48].

La prevalenza del dato sostanziale sul dato formale ai fini della valutazione della disciplina pubblicistica applicabile alle società a capitale pubblico, può assumere rilevanza ai fini del godimento da parte di queste ultime dello stesso trattamento di favore degli enti pubblici (ad esempio, in tema di esenzione dal pagamento di debiti, di applicazione di normativa fiscale di favore, ecc.).

A ben vedere, infatti, nell’ordinamento comunitario ed in quello nazionale non è del tutto estraneo il tema della possibilità per la società a capitale pubblico, ricorrendone talune condizioni, di beneficiare di una disciplina speciale rispetto alle altre società di diritto comune, in ragione della propria immedesimazione organica con l’ente pubblico che la controlla[49].

Pertanto, indipendentemente dalla qualificazione formale in termini di ente pubblico, a talune società a capitale pubblico che presentano determinati requisiti possono applicarsi specifiche discipline settoriali previste per i soggetti pubblici, se ciò è ritenuto necessario per la tutela di determinati interessi rilevanti per l’ordinamento. Questa valutazione in alcuni casi è compiuta dal legislatore (come ad es. in materia di appalti pubblici o di diritto di accesso agli atti), altre volte viene rimessa alla valutazione degli interpreti o della giurisprudenza (come nel caso della giurisdizione amministrativa sugli atti e della giurisdizione della Corte dei Conti sugli amministratori).

Il criterio della valutazione degli interessi protetti[50], elaborato al fine di individuare la normativa pubblicistica o privatistica applicabile alle distinte categorie di società a capitale pubblico, è stato utilizzato anche nell’affrontare la problematica relativa all’applicabilità della procedura fallimentare (criterio c.d. funzionale)[51].

In questa prospettiva, l’esenzione di talune società a capitale pubblico – individuate in base ai loro elementi caratterizzanti – dall’assoggettamento a procedure fallimentari non deriverebbe da una loro qualificazione sul piano formale in termini di “enti pubblici” ai sensi dell’art. 1 della l. fall. (criterio c.d. tipologico), ma dipenderebbe da una valutazione avente ad oggetto la compatibilità della disciplina fallimentare con gli interessi protetti nella fattispecie di volta in volta considerata[52].

A tal fine si è ritenuto che bisogna muovere dall’individuazione della ratio della previsione della non fallibilità degli enti pubblici – che il legislatore intende così proteggere e tutelare – contenuta nell’art. 1 l. fall. Essa consiste nella incompatibilità della procedura fallimentare, con il suo carattere di esecuzione generale ed il suo fine di tutela delle ragioni dei creditori, rispetto all’ordinaria attività dell’ente pubblico, che sarebbe paralizzato nella sua attività e, conseguentemente, impedito nel perseguimento del suo interesse pubblico[53].

A ciò si aggiunga, negli enti a carattere territoriale, il divieto per gli organi della procedura concorsuale di sostituirsi agli organi “politici” nella gestione dell’attività dell’ente, non essendo ammissibile una interferenza a carattere giudiziario nella sovranità dell’ente e dei suoi organi eletti[54].

Così delineati gli interessi che il legislatore ha inteso proteggere e tutelare mediante l’esenzione dalla procedura fallimentare dell’ente pubblico debitore, il passaggio successivo è costituito dalla valutazione circa la compatibilità della eventuale fallibilità delle società a capitale pubblico con la tutela di detti interessi.

Conseguentemente, quando gli interessi pubblicistici emergono e devono ritenersi prevalenti anche nelle società a capitale pubblico, potrà essere utilizzato il criterio interpretativo su richiamato che, superando il dato formale, consente (o impone), al fine di tutelare tali interessi, l’applicazione del particolare regime pubblicistico che prevede l’esclusione dal fallimento.

Tali conclusioni, tuttavia, non possono valere in maniera unitaria per tutte le società a capitale pubblico, in quanto vi sono società a partecipazione pubblica il cui fallimento non lede alcuno degli interessi pubblici tutelati dall’art. 1 l. fall. e società per le quali tale lesione è in re ipsa.

Quest’ultima categoria, in particolare, è costituita dalle società a capitale pubblico che presentano il carattere della “necessità”[55], nel senso che la loro esistenza è considerata necessaria dall’ente territoriale che vi intrattiene rapporti connessi a tale valutazione[56].

La necessità è legata, evidentemente, allo svolgimento di determinati servizi pubblici essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi (es. servizio di raccolta dei rifiuti[57], servizio di trasporto pubblico[58]; servizio postale) che l’ente pubblico abbia affidato alla società. In questi casi, però, carattere necessario assume non tanto il determinato soggetto o ente che svolge il servizio pubblico ad esso assegnato, quanto il servizio medesimo[59].

La giurisprudenza di merito ha richiamato il carattere della “necessità” in diverse pronunce, nelle quali utilizza il metodo c.d. funzionale al fine di confermare la soluzione già raggiunta mediante il metodo c.d. tipologico circa l’esenzione dal fallimento di una società in mano pubblica[60].

Il delineato carattere necessario della società non può essere inoltre smentito dalla circostanza che, salvo diversa previsione della legge istitutiva, lo scioglimento sia disciplinato secondo le norme ordinarie dettate dal codice civile e può così essere conseguenza di una scelta volontaria della società attuata mediante delibera assembleare (art. 2484, primo comma, n. 6, c.c.)[61].

Alla luce delle superiori argomentazioni, dunque, quando una società in mano pubblica riveste carattere necessario per l’ente territoriale in un determinato momento, si profila una oggettiva incompatibilità tra l’eventuale suo assoggettamento a procedura fallimentare e la tutela degli interessi pubblici[62].

In proposito, l’effetto immediato del fallimento è lo spossessamento del debitore e la cessazione dell’attività d’impresa (art. 42 l. fall.). Dal momento della dichiarazione di fallimento, la società in mano pubblica potrebbe così essere obbligata a cessare la propria attività d’impresa e, quindi, anche ad interrompere con effetto immediato l’esercizio del pubblico servizio di cui è titolare. Proprio questo effetto interruttivo dell’attività d’impresa, che potrebbe conseguire alla sentenza di fallimento, verrebbe a pregiudicare l’interesse pubblico alla esecuzione continuativa e regolare del servizio pubblico[63].

L’orientamento sin qui richiamato, tuttavia, non viene accolto da una recente giurisprudenza di merito[64], secondo cui, ove il requisito della necessità potesse fondare l’esenzione dal fallimento in base al contenuto e alle caratteristiche dell’attività esercitata, “si dovrebbe prospettare – al di fuori di ogni previsione normativa – l’esclusione dal fallimento anche per soggetti sicuramente privati che eroghino, ad esempio in forza di una concessione, un servizio pubblico”.

Tale giurisprudenza richiama la pronuncia della Suprema Corte citata nel paragrafo precedente, n. 22209 del 27 settembre 2013, nella quale viene valorizzato, ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, non il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto, con conseguente assunzione dei “rischi connessi alla sua insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità”.

L’incompatibilità tra fallimento di società in mano pubblica a carattere “necessario” e interesse pubblico si presenta, secondo alcuni autori, anche sotto un diverso profilo[65].

Nella procedura fallimentare, è il tribunale a disporre l’esercizio provvisorio in sede di sentenza dichiarativa di fallimento, ovvero ad autorizzarne successivamente con decreto la continuazione, attribuendone la gestione al curatore, organo nominato dal tribunale e sottoposto al controllo del giudice delegato (art. 104 l. fall.); e, ancora, è il giudice delegato ad autorizzare l’affitto d’azienda (art. 104 bis l. fall.).

Per effetto della sentenza di fallimento, quindi, si determina l’attribuzione all’autorità giudiziaria del potere di decidere in ordine all’eventuale prosecuzione dell’attività d’impresa da parte della società, nonché in ordine al possibile affidamento a terzi, attraverso lo strumento dell’affitto di azienda, della stessa gestione del servizio pubblico essenziale.

In seguito alla sentenza di fallimento, si verificherebbe pertanto una inammissibile sostituzione dell’autorità giudiziaria ordinaria all’autorità amministrativa nell’esercizio di poteri e facoltà di carattere tipicamente pubblicistico[66], quali la decisione in ordine alla continuità o meno nella gestione di un pubblico servizio essenziale, in ordine al controllo sul soggetto che è investito della funzione e, addirittura, in ordine alla sua sostituzione con un terzo soggetto.

La traslazione in capo all’autorità giudiziaria ordinaria della cura del pubblico interesse e delle scelte in ordine alle modalità per il suo perseguimento determina una situazione di dubbia compatibilità con i principi costituzionali che disciplinano l’azione amministrativa, e, in particolare, con la riserva in favore degli enti pubblici della titolarità delle funzioni amministrative ai sensi dell’art. 118 Cost.[67]

Le ragioni sin qui esposte, legate al rischio di un’impropria sostituzione dell’autorità giudiziaria ordinaria all’autorità amministrativa nella gestione e nel controllo del pubblico servizio, oltre che al possibile contrasto tra l’interesse pubblico alla continuità nella gestione del servizio pubblico e l’interesse privato dei creditori alla massimizzazione del proprio soddisfacimento patrimoniale, possono giustificare l’esenzione dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali per le società a capitale pubblico titolari di servizi pubblici essenziali[68].

Acquisito il dato della non assoggettabilità al fallimento, a determinate condizioni, delle società in mano pubblica, si pone tuttavia il problema dell’individuazione del criterio più idoneo a tal fine tra quello basato su una comparazione e selezione degli interessi rilevanti nella specifica normativa concorsuale (criterio funzionale), e quello basato invece sulla “natura giuridica” della società, utilizzato quest’ultimo anche dalla giurisprudenza (criterio tipologico).

Secondo la giurisprudenza di merito, infatti, va riconosciuta natura sostanzialmente pubblica a soggetti formalmente privati ove ricorrono determinati elementi, quali: detenzione della maggioranza del capitale sociale da parte dell’ente o degli enti pubblici, influenza dominante esercitata dai pubblici poteri sulla società, esistenza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, ecc.[69]

In presenza di questi indici, la società, formalmente privata ma sostanzialmente pubblica, dovrebbe essere esentata dal fallimento, indipendentemente dal tipo di attività svolta e dalla sua strumentalità rispetto al perseguimento dell’interesse pubblico. In questa prospettiva, una società che opera in un mercato privato ed in concorrenza con altre società private non potrebbe essere comunque soggetta a fallimento, laddove la maggioranza del suo capitale sociale fosse di titolarità di enti pubblici e fossero previste limitazioni statutarie all’autonomia funzionale degli amministratori[70].

I passaggi salienti di questa evoluzione sono identificati dalla giurisprudenza nell’art. 1 D.Lgs. n. 165/2001, che individua le “amministrazioni pubbliche”, e nella Direttiva n. 80/723/Cee del 25 giugno 1980, che individua l’elemento caratterizzante della “impresa pubblica” nella influenza dominante dei pubblici poteri, prescindendo dalla natura giuridica, pubblica o privata, dell’ente[71].

In applicazione di tali principi giurisprudenziali, il Tribunale di S. Maria Capua Vetere ha ritenuto che le limitazioni all’autonomia gestionale degli amministratori derivanti[72] dalle specifiche previsioni statutarie (il dato della esclusiva titolarità pubblica del capitale sociale, l’ingerenza nella nomina degli amministratori da parte di organi promananti direttamente dallo Stato, nonché l’erogazione da parte dello Stato di risorse finanziarie per il raggiungimento di fini pubblicistici), dovessero condurre al riconoscimento della natura pubblica del soggetto contro cui era stato proposto ricorso di fallimento. Da ciò la non assoggettabilità dello stesso alla normativa fallimentare in applicazione dell’art. 1, primo comma l. fall.

Quando una società a partecipazione pubblica non assume carattere necessario per l’ente pubblico (nel senso sopra chiarito), l’interruzione dell’attività d’impresa conseguente alla sua eventuale dichiarazione di fallimento non equivale ad interruzione dell’esercizio di un pubblico servizio, né determina un sacrificio dell’interesse pubblico alla esecuzione continuativa e regolare del servizio pubblico.

Se il fallimento di una società in mano pubblica, priva del carattere di necessità per l’ente pubblico, non è incompatibile con la tutela degli interessi pubblicistici di cui è espressione l’art. 1 l. fall., non vi è ragione per invocare una esenzione dal fallimento mediante il ricorso alla nozione di “ente pubblico”. In questi casi, la questa stessa società potrà essere soggetta, sotto altri profili, all’applicazione della disciplina pubblicistica, quando ritenuto dal legislatore o dalla giurisprudenza necessario per la migliore tutela dell’interesse pubblico[73].

  1. 5.      Le società in house

Le società in house[74] sono aziende pubbliche costituite in forma societaria, tipicamente Società per azioni, il cui capitale è detenuto in toto, direttamente o indirettamente, da un ente pubblico che affida loro attività strumentali o di produzione. La costituzione di una società in house rappresenta una delle modalità con cui un ente può organizzarsi per erogare i servizi di gestione interna (informatica, pulizie, ecc.) o i servizi ai cittadini o alle imprese (trasporti, energia, igiene, ecc.).

Con la sentenza Teckal[75] la Corte di Giustizia individua per la prima volta, in maniera chiara, i tratti qualificanti dell’in house providing, rinvenendoli nell’assenza di un rapporto contrattuale tra l’amministrazione aggiudicatrice e la persona giuridica destinataria dell’affidamento, in quanto l’ente conferente esercita sul prestatore del servizio un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e tale persona (giuridica) realizza la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti che la controllano[76].

Le società in house si caratterizzano pertanto per la contemporanea presenza di tre requisiti: la natura esclusivamente pubblica dei soci, l’esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici[77].

Il tema della fallibilità delle società in house, anche nell’ipotesi in cui esercitino attività di gestione di servizi pubblici non essenziali, appare ad oggi ancora controverso.

La giurisprudenza risulta divisa.

Un primo orientamento esclude l’autonoma fallibilità, considerando le società in house come «propaggini inanimate» dell’ente territoriale, i cui amministratori rappresentano meri «esecutori» delle direttive del socio pubblico.

In particolare, i requisiti su richiamati sono stati delineati dalla Corte di Cassazione, la quale, con pronunzia resa a Sezioni Unite del 25 novembre 2013 n. 26283[78], pur occupandosi di giurisdizione, ha precisato, indirettamente, che l’esenzione dalle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, prevista per gli enti pubblici dall’art. 1, comma 1, della legge fallimentare, deve essere applicata anche alle società cd. in house providing, le quali sono quelle società, che presentino, sulla base dell’elaborazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, congiuntamente i seguenti tre requisiti: 1) natura esclusivamente pubblica dei soci; 2) lo svolgimento dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi; 3) la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.

In presenza delle società in esame non può configurarsi un rapporto di alterità, né una separazione patrimoniale, tra l’ente pubblico partecipante e la società stessa.

Ricorrendo i presupposti citati, dunque, la giurisprudenza di legittimità ha escluso l’assoggettabilità delle società in house a fallimento.

Tale principio è stato, di recente, affermato anche dalla giurisprudenza di merito[79], che ha evidenziato come nelle società in house gli organi sociali risultano preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla pubblica amministrazione e ad essa legati da un vero e proprio rapporto di servizio.

Conseguentemente, come accade nelle Amministrazioni pubbliche, gli amministratori della società sono sottoposti ad un controllo assoluto da parte delle amministrazioni, tali da privarli di effettivi e concreti poteri gestori.

In qualità di articolazione di enti pubblici, a tali società deve essere estesa la previsione di esenzione di fallimento, ex art. 1 l. fall.

La società in house, in sostanza, coinciderebbe con l’ente pubblico e, perciò, sarebbe al pari sottratto al fallimento, ai sensi dell’articolo 1 della legge fallimentare.

Secondo altro orientamento, favorevole al fallimento e seguito da altri giudici di merito[80], nonché dalla giurisprudenza di legittimità sulla questione[81], la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto.

Inoltre, il fallimento delle società in house può altresì essere dichiarato nei casi in cui le stesse non esercitano un servizio pubblico essenziale e agiscono sul mercato con finalità di lucro atteggiandosi nei rapporti con i terzi come soggetti imprenditoriali[82].

Queste posizioni, tuttavia, hanno suscitato dubbi in dottrina.

In primo luogo, si ritiene che l’orientamento in parola possa legittimare l’abuso della disciplina sulla S.p.A.[83], che se richiamata deve essere utilizzata nella sua interezza. Ciò in quanto, non potrebbe consentirsi alla società in house di usufruire di taluni effetti – ritenuti favorevoli e premiali – della fattispecie giuridica invocata (ad esempio, l’organizzazione corporativa, la disciplina delle obbligazioni o la responsabilità limitata) e di rinnegarne invece altri (come la personalità giuridica, la responsabilità civile degli amministratori o la soggezione alle procedure concorsuali)[84].

In secondo luogo, il ricorso ad operazioni ermeneutiche basate su criteri di natura sostanziale per regolamentare la fattispecie in esame, appare discutibile in quanto la disciplina codicistica definisce le società in house come del tutto identiche alle società a capitale privato e ciò anche in presenza di socio unico[85], la cui disciplina è dettata dal codice civile senza riferimento alla natura del socio conferente[86]. Tale principio vale anche per il fallimento.

Infine, l’esenzione dal fallimento delle società in house può tradursi in una irragionevole compressione dei principi, contemplati dalla disciplina privatistica, di dell’affidamento in buona fede dei terzi[87] che, contrattando con essa, hanno confidato sulla legittima esistenza di una società ritualmente iscritta nel registro delle imprese come S.p.A. e, pertanto, assoggettata in toto alla relativa disciplina[88].

  1. 6.      Considerazioni conclusive

Avviandoci alle conclusioni e volgendo più in generale lo sguardo ai diversi orientamenti succedutesi negli ultimi anni in dottrina ed in giurisprudenza, alcune considerazioni possono essere svolte al termine della presente trattazione.

Su un piano più generale, il quesito principale da cui siamo partiti riguarda il rapporto esistente tra società in mano pubblica e procedure concorsuali.

Tale tema, molto dibattuto, non sempre è stato trattato uniformemente.

L’analisi svolta evidenzia, infatti, come la questione possa essere esaminata secondo due diversi metodi di indagine delineati da dottrina e giurisprudenza.

Secondo un primo metodo c.d. tipologico, il quesito dell’assoggettabilità o meno a fallimento della società a capitale pubblico va affrontato cercando di individuare la natura giuridica di quest’ultima, nel senso di stabilire se essa sia qualificabile in termini di soggetto privato (fallibile) o di ente pubblico (esclusa dal fallimento).

Tale orientamento non sempre conduce a risultati univoci.

In proposito, mentre un’interpretazione tradizionale ribadisce sempre e comunque la natura privata della società in mano pubblica stabilendone l’assoggettamento alla disciplina fallimentare, contrapposti e richiamati orientamenti giurisprudenziali ritengono che, in presenza di specifici indici sintomatici, una società a partecipazione pubblica può essere qualificata come soggetto sostanzialmente pubblico (con conseguente esenzione dal fallimento).

Altro orientamento, basato su un metodo c.d. funzionale, si propone di individuare la concreta disciplina giuridica applicabile all’ente (privatistica o pubblicistica).

Secondo questo indirizzo interpretativo, il problema non è più quello di qualificare la società in mano pubblica come ente privato o pubblico, quanto quello di stabilire se nella specifica materia di riferimento debba trovare applicazione la disciplina privatistica o quella pubblicistica. L’applicazione di questo metodo conduce ad affermare l’esenzione dal fallimento delle società in mano pubblica che presentino il carattere della necessità[89].

Di fronte ad un quadro così frammentato, il quale presenta ancora elementi di incertezza, parte della dottrina[90] auspica un intervento del legislatore in materia, volto, per esempio, ad introdurre una procedura di insolvenza speciale per quelle società che soggettivamente (perché a capitale pubblico) o oggettivamente (perché di interesse strategico o di rilevanza nazionale) non possono essere assoggettate al regime generale.

Dopo avere esaminato la possibilità o meno di sottoporre le società in mano pubblica a fallimento, pare necessario, infine, dedicare qualche considerazione in merito alla possibilità di ricorrere alle altre procedure concorsuali previste dal nostro ordinamento e, innanzitutto, al concordato preventivo[91].

In proposito, come per il fallimento, differenti sono gli esiti derivanti dall’applicazione del metodo “tipologico” o di quello “funzionale”.

A quest’ultimo riguardo, nel caso in cui si applichi il metodo tipologico, dando così rilevanza alla natura giuridica del soggetto debitore, l’affermazione della natura sostanzialmente pubblica del soggetto implica come conseguenza l’esclusione dello stesso non solo dal perimetro delle imprese fallibili, ma anche da quello delle imprese assoggettabili a concordato preventivo[92].

In senso opposto, ove si applichi il metodo funzionale, che lega l’esenzione dalla procedura concorsuale al carattere della necessità della società, inteso come preordinazione della stessa allo svolgimento di determinati servizi essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi, e, dunque, alla tutela dell’interesse pubblico alla continuità del servizio, vengono meno le ragioni che potrebbero impedire l’ammissibilità del concordato preventivo[93]. Ciò, anche tenuto conto del fatto che, in quest’ultima ipotesi, non si produrrebbero quegli stessi effetti che tradizionalmente vengono invocati per escludere il ricorso alla procedura fallimentare[94].

Con riferimento alla tutela dell’interesse pubblico alla continuità del servizio, viene inoltre rilevato che, nell’ambito del concordato, l’apertura della procedura non impone l’interruzione dell’attività d’impresa che normalmente consegue alla dichiarazione di fallimento (art. 42 l. fall.)[95], né lo spossessamento del debitore[96].

Ancora, la procedura di concordato preventivo non attribuisce al tribunale un autonomo potere di scelta in merito alla destinazione del complesso aziendale.

Tutti questi aspetti della procedura, sono infatti disciplinati dal piano redatto dallo stesso debitore ex art. 161, comma 2, lett. e, l. fall., limitandosi il ruolo del tribunale al profilo del controllo[97].

Infine, con particolare riferimento al concordato preventivo con continuità aziendale[98], l’ammissione alla procedura non porta con sé l’interruzione nello svolgimento del servizio pubblico, in quanto l’art. 186-bis, l. fall., esclude da un lato, che tale procedura impedisca la partecipazione alla gara pubblica, anche in raggruppamento temporaneo con altre imprese, e, dall’altro lato, che si faccia applicazione di quelle previsioni di legge e contrattuali che, per effetto dell’apertura della procedura, prevedono la risoluzione dei contratti sia privati che pubblici in corso d’esecuzione[99], la cui prosecuzione è anzi agevolata dal divieto di azioni esecutive individuali[100].

Anche il concordato preventivo meramente liquidatorio non pone problemi di compatibilità con la tutela dell’interesse pubblico, in quanto, la scelta di non proseguire l’attività d’impresa, è assunta dalla stessa società in sede di piano di concordato, senza essere imposta dal Tribunale con il provvedimento di ammissione[101].

La dottrina[102] ammette, inoltre, il ricorso da parte delle società a capitale pubblico, anche nell’ipotesi in cui si affermi l’esenzione dal fallimento, agli accordi di ristrutturazione dei debiti[103], ciò muovendo dal disposto dell’art. 182-bis, l. fall., che si limita a richiedere in capo al soggetto che vi fa ricorso la mera qualità di “imprenditore”[104].

In conclusione, la problematiche connesse al variegato mondo delle società partecipate dagli enti pubblici ed all’esatto inquadramento giuridico delle stesse, rappresentano uno degli esempi più attuali delle sempre maggiori forme di intersecazione tra diritto pubblico/amministrativo e diritto civile che si riflette sul tema dell’assoggettabilità delle società a capitale pubblico al fallimento e alle altre procedure concorsuali.

In assenza di una disciplina specifica, la materia non ha ancora trovato una soluzione uniforme, essendo state elaborate, alla luce dei principi e delle disposizioni normative vigenti, di volta in volta soluzioni differenti sulla base degli elementi concreti che caratterizzano la varie fattispecie societarie[105]. Unica eccezione sembra rinvenibile nella materia delle società in house, ove prevalgono argomentazioni che possono porsi come indici di univocità e di armonizzazione che fanno propendere per la esenzione dal fallibilità.



[1] In generale sulle società a partecipazione pubblica, senza alcuna pretesa di esaustività: r. rordorf, Le Società “pubbliche” nel codice civile, in Le Società, 2005, 423; m. cammelli, m. dugato (a cura di), Studi in tema di società a partecipazione pubblica, Torino, 2008; m. cammelli, Le società a partecipazione pubblica: Comuni, Province e Regioni, Rimini, 1989. Si considerano a capitale pubblico le società per azioni delle quali gli enti pubblici detengono la totalità o la maggioranza delle azioni o, comunque, un numero sufficiente ad assicurare, anche di fatto, il controllo della società: per tutti, f. galgano, Diritto commerciale, Le società, Bologna, 2012, 445. Diversi sono i modelli di società a partecipazione pubblica, che si distinguono tra loro a seconda che la partecipazione del socio pubblico sia maggioritaria, minoritaria, di controllo (totale o parziale).

[2] In argomento, si veda Rileva f. capalbo, Le società partecipate dagli enti pubblici: un problema di teoria generale, in Lexitalia, Marzo 2013.

[3] Sulla difficoltà di individuare la natura ed il regime giuridico della società pubblica, si veda v. cerulli irelli, Ente Pubblico: problemi di identificazione e disciplina applicabile, in v. cerulli irelli e morbidelli (a cura di), Ente pubblico ed enti pubblici, Torino, 1994, 89; e. codazzi, La società tra professionisti e il regime di responsabilità dei soci per l’esercizio dell’attività professionale. Qualche considerazione sul tema alla luce dei principi sulle liberalizzazioni dei servizi professionali, in Osservatorio del diritto civile e commerciale, 2/2013, 313-336; f. fracchia, La costituzione delle società pubbliche e i modelli societari, in Il dir. dell’econ., 2004, 614 e ss.; r. garofoli, Le privatizzazioni degli enti dell’economia, profili giuridici, Milano, 1998; f. goisis, Contributo allo studio delle società in mano pubblica come persone giuridiche, Milano, 2004; id. La natura delle società a partecipazione pubblica alla luce della più recente legislazione di contenimento della spesa pubblica, in Rivista della Corte dei Conti, 2014; c. ibba, Le società “legali”, Torino, 2002; Id. Tipologia e “natura”delle società a partecipazione pubblica, in Le società a partecipazione pubblica, a cura di f. guerrera, Torino, 2010, 13-20; a. massera, Le società pubbliche, in Giorn. dir. amm., 2009, 889 e ss.; p. pizza, Le società per azioni di diritto singolare tra partecipazioni pubbliche e nuovi modelli organizzativi, Milano, 2007; m. renna, Le società per azioni in mano pubblica. Il caso delle s.p.a. derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici ed aziende autonome dello Stato, Torino, 1997; g. sala, Del regime giuridico delle società a partecipazione pubblica: contributo alla delimitazione dell’ambito del diritto dell’amministrazione (della cosa) pubblica, in Scritti in onore di Leopoldo Mazzarolli, vol. II, Padova, 2007, 415 e ss.; f. santonastaso, Le società di diritto speciale, in Trattato di diritto commerciale, diretto da v. buonocore, Torino, 2009; r. ursi, Riflessioni sulla governance delle società in mano pubblica, in Dir. amm., 2004, 747 e ss.

[4] Salva la possibilità, nei casi espressamente previsti dalla legge, dell’attivazione della liquidazione coatta amministrativa.

[5] In proposito, va segnalata Cass. 9 ottobre 1993, n. 10008, in Dir. Fall., 2003, II, 915, che individua la ratio della non fallibilità degli enti pubblici nella necessità di riservare in modo esclusivo all’autorità pubblica l’apprezzamento circa l’opportunità di lasciare in vita ovvero di procedere alla soppressione degli enti pubblici che, in misura precipua e con mezzi pubblici, perseguono la realizzazione di interessi generali.

[6] Si vedano, g. capo, I presupposti del fallimento, in aa.vv., I presupposti, La dichiarazione di fallimento, Le soluzioni concordatarie, vol. I, Padova, 2010, 50 ss.; id., I presupposti e il procedimento per la dichiarazione del fallimento, in aa.vv., Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da g. fauceglia e l. panzani, vol.1, Torino, 2009, 32 ss.; a. bassi, Lezioni di diritto fallimentare, Bologna, 2009, 40; g. schiano di pepe, Art.1, in Il diritto fallimentare riformato, a cura di g. schiano di pepe, Padova, 2007, 2; f. aprile, Art.1, in La legge fallimentare, commentario teorico-pratico, a cura di m. ferro, Padova, 2007, 9.

[7] Al fine di identificare l’ente pubblico gli interpreti hanno elaborato sia criteri di natura formale (ritenendo, cioè, pubblico solamente l’ente definito come tale dal legislatore) sia di tipo sostanziale-funzionale (desumendo la pubblicità del soggetto da particolari indici sintomatici o dalle finalità perseguite). Sulla nozione di ente pubblico, si veda d. sorace, Lente pubblico tra diritto comunitario e diritto nazionale, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1993; g. la greca, La sfuggente nozione di ente pubblico tra legge ed indici sintomatici, in Il Nuovo Diritto Amministrativo, 1/2013. Sulla difficoltà di individuare una nozione unitaria di ente pubblico cfr. g. napolitano, Soggetti privati “enti pubblici”, in Dir. amm., 2003, 810 ss.

[8] Cfr. f. capalbo, Le società partecipate dagli enti pubblici: un problema di teoria generale, cit.

[9] Sul tema si veda In questo senso c. volpe, La disciplina delle società pubbliche e l’evoluzione normativa, relazione svolta nel Convegno su “Forum nazionale: Le Società Partecipate” organizzato da Ius Conference a Torino il 26 novembre 2014, consultabile al sito https://www.giustiziaamministrativa.it/cdsintra/wcm/idc/groups/public/documents/document/mdax/otgx/~edisp/nsiga_3838965.pdf; f. goisis, Contributo allo studio delle società in mano pubblica, Milano, 2004, spec. 113 ss. e, più recentemente, f. goisis, Il problema della natura e della lucratività delle società in mano pubblica alla luce dei più recenti sviluppi dell’ordinamento nazionale ed europeo, in Dir. ec., 2013, 41 ss.

[10] Il proliferare delle società pubbliche coincide con la progressiva diminuzione degli enti pubblici economici; il ricorso allo schema societario soddisfa l’esigenza di alleggerire il bilancio dello Stato e, per quanto concerne le società miste, di poter disporre di capitale privato. Cfr.  g. urbano, Le società a partecipazione pubblica tra tutela della concorrenza, moralizzazione e amministrativizzazione, in Amministrazione in cammino, 24 settembre 2012.

[11] Sul processo di trasformazione degli enti pubblici economici in società per azioni, si veda Cass. civ., sez. Un. 3 maggio 2005, n. 9096; Cass. civ., III, 16 ottobre 2008, n. 25268.

[12] Cfr. in particolare Cons. Stato, sez. VI, nn. 1206 e 1207 del 2001 e nn. 4711 del 2002, con nota di p. pizza, Società per azioni di diritto singolare, enti pubblici e privatizzazioni: per una rilettura di un recente orientamento del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 2003, 518; e 1303 del 2002. Di contrario avviso è la dottrina, cfr. f. fimmanò, Il fallimento delle “società pubbliche”, in Crisi di Impresa e Fallimento, 18 dicembre 2013, consultabile su www.ilcaso.it, 8 ss.; f.g. scoca, Il punto sulle cd. Società pubbliche, in Diritto dell’Economia, 2, 2005, 239 ss.

[13] Il riferimento è agli enti pubblici con mera struttura organizzativa societaria previsti, trasformati o costituiti appunto in forma societaria con legge (ad es. l’art. 7 del D. L. 15/4/2002 n. 63, convertito dalla L. 15/6/2002, n. 112, ha istituito la Patrimonio dello Stato S.p.a.). Cfr. c. ibba, Le società «legali», Torino, 1992, 340; id., Le società “legali” per la valorizzazione, gestione e alienazione dei beni pubblici e per il finanziamento di infrastrutture. Patrimonio dello Stato e infrastrutture s.p.a, in Riv. dir. civ., 2005, II, 447; g. napolitano, Soggetti privati «enti pubblici», cit., 810 ss.

[14] f. fimmanò, L’ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e natura dell’attività, in f. fimmanò (a cura di), Le società pubbliche, cit., 12 ss.

[15] Così f. caringella, Corso di diritto amministrativo. Profili sostanziali e processuali, Milano, 2011, 810.

[16] Sulle diverse posizioni in argomento e la relativa evoluzione normativa, si veda m.t. cirenei, La società per azioni a partecipazione pubblica, in Società di diritto speciale, in Trattato delle società per azioni, diretto da g.e. colombo e g.b. portale, Torino, 1992, vol. 8, 3 ss.

[17] La regola della “parità” tra società pubbliche e private implica l’obbligo per gli Stati di riduzione dei “regimi speciali”, diffusi nei diversi ordinamenti, recanti regole di privilegio in favore dello “Stato – imprenditore” e dello “Stato – azionista” Più in generale, la stessa legislazione in materia di liberalizzazione delle attività di servizi ha precisato come qualsiasi restrizione, tra cui, in particolare, quella che impone al prestatore di servizi un determinato “statuto giuridico”, è ammissibile solo nella misura in cui risponda ai requisiti di “necessità” e di “proporzionalità” stabiliti nella Direttiva 2006/123/ CE, art. 15, par. 2 e 3, e nel d.lgs., 26 marzo 2010, n. 59, di attuazione della stessa, artt. art. 10, comma 1, e 12.

[18] Si può inoltre dubitare della compatibilità dell’esenzione da fallimento con la disciplina sugli aiuti di Stato di cui all’art. 107 TFUE, ove tale scelta venga considerata come una misura selettiva a favore di una particolare categoria di soggetti (le società insolventi partecipate da ente pubblico).

[19] Così m.t. cirenei, op.cit., 10; f. fimmanò, La società pubblica, anche se in house, non è un ente pubblico ma un imprenditore commerciale e quindi è soggetta a fallimento, cit., 1297 ss.; c. ibba, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, in Le società “pubbliche”, a cura di c.ibba- m.c. malaguti- a. mazzoni, Torino, 2011, 6.

[20] Sul nuovo testo di cui all’art. 2449 c.c., si vedano, in particolare, c. ibba, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, in Le società “pubbliche”, cit., 6 ss.; c. pecoraro, Privatizzazione dei diritti speciali di controllo dello Stato e dell’ente pubblico nelle s.p.a.: il nuovo art. 2449 c.c., in Riv. soc., 2009, 947 ss.; f. ghezzi-m. ventotuzzo, La nuova disciplina delle partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici nel capitale delle società per azioni: fine di un privilegio?, in Riv. soc., 2008, 668 ss.

[21] In questo senso c. volpe, La disciplina delle società pubbliche e l’evoluzione normativa, relazione svolta nel Convegno su “Forum nazionale: Le Società Partecipate” organizzato da Ius Conference a Torino il 26 novembre 2014, consultabile al sito https://www.giustiziaamministrativa.it/cdsintra/wcm/idc/groups/public/documents/document/mdax/otgx/~edisp/nsiga_3838965.pdf

[22] f. bassi, Azionariato pubblico e procedure concorsuali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1969, 986 e ss.; e. codazzi, La società tra professionisti e il regime di responsabilità dei soci per l’esercizio dell’attività professionale. Qualche considerazione sul tema alla luce dei principi sulle liberalizzazioni dei servizi professionali, cit., 313-336; f. galgano, Commento all’art. 1, in Commentario scialoja-branca, Legge Fallimentare, a cura di f. bricola, f. galgano, g. santini, Bologna-Roma, 1974, 90; a. maffei alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2000, 8; e. massone, L’attività della società per azioni mista, in La società per azioni quale forma attuale di gestione dei servizi pubblici, Milano, 2003, 270 e ss.; m. notari, Ambito di applicazione delle discipline delle crisi, in aa.vv., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, 104; a. penta, I presupposti del fallimento, in Fallimento e concordati, a cura di p. celentano e e. forgillo, Torino, 2008, 44; g. ragusa maggiore, Il fallimento. Il presupposto soggettivo, in Le procedure concorsuali. Il fallimento. Trattato, diretto da g. ragusa maggiore, c. costa, I, Torino, 1997, 217; g. romagnoli, Le societa` degli enti pubblici; problemi e giurisdizioni nel tempo delle riforme, in Giur. comm., 2006, I, 478; g.u. tedeschi, Le procedure concorsuali, I, Torino, 1996, 14; Id., Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 12. Contra, nel senso della non fallibilità delle società in mano pubblica, g. d’attorre, Gli enti di natura pubblica, in I soggetti esclusi dal fallimento, a cura di m. sandulli, Milano, 2007, 110 e ss.; m. dugato, Il finanziamento delle società a partecipazione pubblica tra natura dell’interesse e procedimento di costituzione, in Dir. Amm., 2004, 561 e ss.; g. napolitano, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Milano, 2003, 179 e ss.; Id., Soggetti privati “enti pubblici”, in Dir. amm., 2003, 822 ss.

[23] Rileva f. bassi, Azionariato pubblico e procedure concorsuali, cit. 911, che un ente non può essere contemporaneamente qualificato come ente pubblico e come società per azioni (c.d. problema della pluralità delle qualificazioni giuridiche). Tale conclusione si spiega col fatto che l’autore riteneva che le nozioni di ente pubblico e di società per azioni fossero fra loro speculari e, quindi, non sovrapponibili a priori.

[24] In questo senso, f. fimmanò, Il fallimento delle “società pubbliche”, cit., 10 e ss.; r. rordorf, Le Società “pubbliche” nel codice civile, cit., 423.

[25] f. fimmanò, La società pubblica, anche se in house, non è un ente pubblico ma un imprenditore commerciale e quindi è soggetta a fallimento in Fallimento, 2013, 1300 ss.

[26] Rileva e. sorci, La società a partecipazione pubblica maggioritaria ed il trattamento normativo in caso d’insolvenza, in f. fimmanò (a cura di), Le società pubbliche: ordinamento, crisi ed insolvenza, Milano, 373, che la liquidazione concorsuale evita il propagarsi dell’insolvenza e consente una riallocazione delle risorse economiche non utilizzate, costituendo uno strumento di tutela dell’interesse economico generale e quindi l’area di esonero dalle ordinarie procedure concorsuali non può essere indebitamente estesa nel silenzio del legislatore.

[27] l. salvato, I requisiti di ammissione delle società pubbliche alle procedure concorsuali, in Dir. fall., 2010, I, 634; l. panzani, La fallibilità delle società in mano pubblica, in ilfallimentarista.it, 2013, 2.

[28] Osserva inoltre e. codazzi, La società in mano pubblica e fallimento: alcune considerazioni sulla disciplina applicabile tra diritto dell’impresa e diritto delle società, presentato al V Convegno annuale dell’associazione italiana dei professori universitari di diritto commerciale – Orizzonti del diritto commerciale Roma, Roma 21-22 febbraio 2014, 11, che l’eventuale esenzione da fallimento delle società a capitale pubblico appare non compatibile con la disciplina sugli aiuti di Stato di cui all’art. 107 TFUE, potendo tale scelta essere considerata quale misura selettiva a favore di una particolare categoria di soggetti (appunto, le società insolventi partecipate da ente pubblico)

[29] Qualora si escludesse la soggezione delle società pubbliche alle procedure concorsuali a differenza di quelle a capitale privato, infatti, esse potrebbero continuare ad operare in perdita sul mercato, perlomeno fino a che non vengano poste in stato di liquidazione ovvero non venga loro revocato l’affidamento del servizio pubblico. Cfr. s. scarafoni, Il fallimento delle società a partecipazione pubblica, in Dir. fall., 2010, I,444; l.e. fiorani, Società pubblichee fallimento, in Giur. comm., 2012, 554.

[30] Cass. civ., sez. I, 10 gennaio 1979, n. 158, in Fallimento, 1979, 593, secondo cui “una società per azioni, concessionaria dello Stato per la costruzione e l’esercizio di un’autostrada, non perde la propria qualità di soggetto privato – e, quindi, ove ne sussistano i presupposti, di imprenditore commerciale, sottoposto al regime privatistico ordinario e così suscettibile di essere sottoposto ad amministrazione controllata (art. 187 legge fallimentare) – per il fatto che ad essa partecipino enti pubblici come soci azionisti, che il rapporto giuridico instaurato con gli utenti dell’autostrada sia configurato, dal legislatore, in termini pubblicistici, come ammissione al godimento di un pubblico servizio previo il pagamento di una tassa (pedaggio) e che lo Stato garantisca i creditori dei mutui contratti dalla società concessionaria per la realizzazione del servizio”.

[31] Nel caso di specie, si trattava di società a responsabilità limitata, partecipata al 51% dall’ente locale, affidataria, in regime di concessione, della gestione del servizio pubblico locale in materia di rifiuti.

[32] f. fimmanò, Il fallimento delle “società pubbliche”, cit., 5.

[33] In proposito, si pensi, a ad esempio, alla disciplina del Codice dei contratti pubblici che richiama il concetto di “organismo di diritto pubblico” o alla legge 241/90 in tema di accesso agli atti detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, che, all’art. 22, lettera e), ricomprende nella nozione di pubblica amministrazione “tutti i soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.

[34] Numerose sono le numerose pronunce che ribadiscono tale principio (ex multis, Cass. S.U. n. 7799/05, in Società, 2006, 870).

[35] Cfr. le note di c. ibba, Responsabilità erariale e società in house, in Giur. comm., 2011, 1, 5.

[36] Sull’argomento si rinvia al paragrafo 5.

[37] In particolare si tratta dell’“anomalia del fenomeno dell’in house nel panorama del diritto societario”.

[38] A sostegno, con argomentazioni diverse, si segnalano diverse pronunce di merito per cui le società in mano pubblica, al ricorrere di determinate condizioni, non sarebbero fallibili non già perché enti pubblici, ma perché non riconducibili alla categoria dell’imprenditore commerciale (Trib. Napoli, 9/1/2014; Trib. Verona, 19/12/2013; Trib. Palermo, 8/01/2013 e 18/01/2013).

 

[39] In questo senso, paiono essere orientati, in dottrina anche m. sandulli – l. potito, Art. 1, in La Legge fallimentare dopo la riforma, a cura di a. nigro, m. sandulli, V, I, Torino, 2010, 1, secondo cui, nel caso di società in mano pubblica, «evitando generalizzazioni, deve ritenersi che, caso per caso, vada verificata la rilevanza, sotto i numerosi profili, innanzi indicati, della funzione e finalità pubblica dell’attività del soggetto, onde determinare se la fattispecie soggettiva presenti i caratteri di ente privato o di ente pubblico. Va aggiunto che, nel caso si accerti la sostanziale natura pubblica dell’ente, il soggetto non potrà essere sottoposto al fallimento o al concordato preventivo, ma al tempo stesso, mancando una previsione normativa in tal senso, non potrà neppure essere sottoposto ad una procedura liquidatoria amministrativa». In posizione possibilista, vedi a. bassi, Lezioni di diritto fallimentare, Bologna, 2009, 40: «Permangono ancora oggi le incertezze sull’esatta individuazione del concetto di ente pubblico e la questione si è estesa anche alle società per azioni (formalmente) private, ma con partecipazione dello Stato o di enti pubblici, che per giunta svolgano attività di interesse pubblico. L’esonero dal fallimento viene esteso dalla recentissima giurisprudenza anche a questi enti, ma ciò con motivazioni che non si sono ancora consolidate e che richiedono una verifica». Un’apertura alla possibile esenzione da fallimento delle società in mano pubblica sembra espressa anche da m. ventoruzzo, Lesenzione dal fallimento in ragione delle dimensioni dellimpresa, in Riv. soc., 2009, 1050-1051

[40] Si pensi, ad esempio, alla differenza esistente tra una società nella quale lo Stato detenga una partecipazione sociale che le attribuisca un controllo di fatto, operante in un mercato pienamente concorrenziale a parità di condizioni con le altre imprese private (un esempio per tutte era rappresentato dalla Alitalia S.p.A.), ed una società che detiene ad intero capitale pubblico, destinata a svolgere in regime di monopolio attività funzionali al perseguimento di finalità di pubblico interesse (ad esempio l’ANAS S.p.A.). Infatti, per quanto entrambe queste società possono rientrare nella categoria delle società a capitale pubblico, esse potranno comunque essere destinatarie di un regime di diritto comune differente.

[41] Sul tema si veda f. goisis, Contributo allo studio delle società in mano pubblica come persone giuridiche, cit., 241 e ss.; d. trebastoni, L’identificazione degli enti pubblici e la relativa disciplina, in Diritto & Diritti, 17/05/2007; f. capalbo, Le società partecipate dagli enti pubblici: un problema di teoria generale, in Rivista della Corte dei Conti, fasc. 3-4/2013.

[42] Sule molteplici motivazioni alla base della trasformazione degli enti pubblici in società, si veda e. freni, La trasformazione degli enti pubblici, Torino, 2005, 142 ss.

[43] La giurisprudenza si è andata assestando sulla valorizzazione di aspetti sostanziali per riconoscere natura pubblica anche a società formalmente private. Tali elementi sono stati via via individuati nella “influenza dominante esercitata sulla società dai pubblici poteri”, influenza che può manifestarsi secondo varie modalità fra le quali la detenzione della maggioranza del capitale sociale da parte di enti pubblici, la strumentalità dell’ente rispetto alle finalità pubblicistiche o la erogazione di capitale pubblico connessa alla attività gestionale dei soggetti finanziati. Si veda Cass. civ., sez. un., 5 febbraio 1999, n. 5; Cons. Stato, 31 gennaio 2006, n. 308; Cass. civ., sez. un., 3 maggio 2005, n. 9096; Cass. civ., sez., un., 26 febbraio 2004; 3899.

[44] Vedi art. 3, commi 25 e 26, D.lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori servizi e forniture), che richiama la nozione di “organismo di diritto pubblico” al fine di rendere applicabile la normativa di cui si discute.

Sul punto, va inoltre rilevato che la Corte Costituzionale (sent. 1 febbraio 2006, n. 29), chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di una legge regionale che imponeva alle società a capitale interamente pubblico, affidatarie del servizio pubblico, l’obbligo del rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte agli enti locali per l’assunzione del personale dipendente, ha affermato che “la disposizione in esame non è volta a porre limitazioni alla capacità di agire delle persone giuridiche private, bensì a dare applicazione al principio di cui all’art. 97 cost. rispetto ad una società che, per essere a capitale interamente pubblico, ancorché formalmente privata, può essere assimilata, in relazione al regime giuridico, ad enti pubblici”. La Corte, ancora, sulla base della distinzione tra privatizzazione formale e privatizzazione sostanziale, e dunque con riferimento al suindicato principio, riconosce la legittimità della sottoposizione al controllo della Corte dei conti degli enti pubblici trasformati in società per azioni a capitale totalmente pubblico.

[45] L’art. 22 L. 7 agosto 1990, n. 241, come modificato dall’art. 15 L. 11 febbraio 2005, n. 15, prevede il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia dei documenti detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse. La definizione di “pubblica amministrazione” è fornita dalla lett. e) dello stesso articolo: “tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.

[46] Cass. civ., sez. un., 4 novembre 2009, n. 23322, in Foro amm. CDS 2009, 12, 2824; Cons. Stato, sez. IV, 30 gennaio 2006, n. 308, in D&G – Dir. e giust. 2006, 14, 86, con nota di m. rossetti, Immobili degli enti e cartolarizzazione – La Scip è privata ma gli atti sono pubblici – Dismissioni, resta oscura la vera natura della società-veicolo.  

[47] In questo senso recentemente, Cass. civ., sez. un., 24 ottobre 2014, n. 22609; Cass. civ., sez. un., 09 luglio 2014, n. 15594; Cass. civ., sez. un., 26 marzo 2014, n. 7177; Corte dei conti, sez. regionale di controllo per la Regione Sardegna, 31 maggio 2010, n. 24, secondo cui “Vi sono, quindi, specifici obblighi in capo agli amministratori delle società c.d. in house ma anche a carico dell’ente locale che è tenuto, nell’ambito del c.d. controllo analogo, a porre in essere un’attenta azione di direzione, coordinamento e supervisione delle attività delle società in questione tale da indirizzare le stesse verso la realizzazione di una politica di contenimento della spesa del personale. Pertanto …omissis… Là dove, poi, sia ravvisabile un danno all’erario potrebbe configurarsi un’ipotesi di responsabilità amministrativa degli amministratori perseguibile nelle competenti sedi giurisdizionali”. Ancora, si veda anche Corte Cost. 28 dicembre 1993, n. 466. In argomento, si veda c. pettinari, Gli “incerti confini” della giurisdizione contabile in tema di responsabilità: note a margine della giurisprudenza più recente in tema di società cc.dd. “in mano pubblica”, in Dir. proc. amm., 2013, fasc. 4, 1239; m. antonioli, Società a partecipazione pubblica e giurisdizione contabile, Milano, 2008.

[48] I veda Corte cost., 1 luglio 2013, n. 167; Corte cost., 1 febbraio 2006, n. 29.

[49] Si pensi alla esenzione dall’applicazione della disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici nella ipotesi di affidamenti in house. L’art. 18 della direttiva n. 2004/18/CE stabilisce infatti che “la presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice a un’altra amministrazione aggiudicatrice o a un’associazione di amministrazioni aggiudicatrici in base a un diritto esclusivo di cui esse beneficiano in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il trattato”. L’affidamento in house costituisce pertanto un indubbio vantaggio per la società a capitale pubblico, la quale può divenire affidataria di un servizio pubblico senza superare il vaglio della gara ad evidenza pubblica e senza dover subire la concorrenza degli altri operatori privati.

[50] Sul tema si veda g. napolitano, Soggetti privati “enti pubblici”, cit., 801 e ss.; Id., La Patrimonio dello Stato S.p.a. tra passato e futuro: verso la scomposizione del regime demaniale e la gestione privata dei beni pubblici, in Riv. dir. civ., I, 2004, 550. Contra, p. pizza, Le società per azioni di diritto singolare, cit., 627 ss.

[51] Ha aderito a questa tesi il Tribunale di Napoli, secondo il quale, al fine di accertare l’ammissibilità o meno al fallimento delle società pubbliche, è necessario adottare un approccio funzionale, ossia una valutazione da compiersi volta per volta degli interessi protetti (sentenza del 31 ottobre 2012). Tale decisione è stata però riformata da App. Napoli, 27 maggio 2013, in Fallimento, 2013, 1290.

[52] Si abbandona pertanto l’approccio ermeneutico di carattere “tipologico”, fondato sulla verifica, caso per caso, della ricorrenza della natura pubblica o privata della società coinvolta, orientandosi a valutare, secondo una metodica “funzionale”, la qualificazione o meno della stessa quale imprenditore commerciale. Il presupposto logico/giuridico secondo il quale l’interesse dei creditori a beneficiare del rimedio della esecuzione concorsuale non assume carattere assoluto ed inderogabile, laddove possa pregiudicare altri interessi parimenti meritevoli di tutela. In questo senso f. capalbo, Le società partecipate dagli enti pubblici: un problema di teoria generale, cit., 11.

[53] Per queste considerazioni v. già a. ramella, Trattato del fallimento, I, Milano, 1915, 74 e ss. In argomento, tra gli altri, g. cavalli, I presupposti del fallimento, in s. ambrosini, g. cavalli, a. jorio, Il Fallimento, in Trattato di diritto commerciale diretto da g. cottino, Padova, 2009, 58.

[54] Così f. fimmanò, Le società pubbliche: ordinamento, crisi ed insolvenza, cit., 308.

[55] In questo senso, g. d’attorre, Le società in mano pubblica possono fallire?, in Fallimento, 2009, 713; Id., Gli enti di natura pubblica, in I soggetti esclusi dal fallimento, a cura di m. sandulli, Milano, 2007, 110 ss.

[56] La dottrina, infatti, in mancanza di una puntuale qualificazione legislativa, ha ravvisato uno dei possibili indici rivelatori dell’ente pubblico nel suo “carattere necessario”. g. rossi, Ente pubblico, in Enc. giur., XII, Roma, 1989, 20 e ss.

[57] Così Tribunale di Catania, 26 marzo 2010, che nega la fallibilità di ACIAMBIENTE S.p.A. muovendo dall’avvenuta costituzione per legge dell’Autorità Territoriale Ottimale e dalla scelta del modello societario avvenuta per volontà del Commissario per l’emergenza rifiuti in Sicilia attraverso specifiche ordinanze, promosse al precipuo fine di perseguire specifiche finalità pubbliche di interesse generale, stabilite nell’ambito di precise politiche ministeriali e dall’altro, nonché lo svolgimento di un’attività soggetta al controllo di organi di direzione e vigilanza formati dagli Enti locali, in uno a forme di reclutamento finanziario e di risorse umane totalmente pubbliche.

[58] Così Tribunale di Napoli, 9 gennaio 2014.

[59] Pertanto, dal carattere necessario del servizio ben si può passare al carattere necessario, sia pure in via temporale, del soggetto che ne è titolare, nel senso che l’ente territoriale ritiene essenziale, in quel determinato momento storico, l’esistenza e l’operatività del soggetto fino a quando non abbia provveduto alla sostituzione dello stesso. Sul carattere necessario di tutti i munera pubblici, v. m.s. giannini, Diritto amministrativo, I, Milano, 1970, 123 e ss.

[60] Corte di Appello di Torino 15 febbraio 2010, in Fallimento, 2010, 689 ss.; dal Trib. di Catania, 26 marzo 2010, in www.ilcaso.it e dal Trib. di Napoli, 31 ottobre 2012, in Fallimento, 2013, 73.

[61] Così g. d’attorre, La fallibilità delle società in mano pubblica, in Fallimento, fasc. 5, 2014, 499.

[62] In questo senso g. napolitano, Soggetti privati “enti pubblici”, cit., 823.

[63] Sulla continuità dello svolgimento dei servizi pubblici, si veda Corte dei Conti reg. Calabria, sez. contr., 28 febbraio 2008, n. 49: “L’ente locale ricorre al modulo privatistico di gestione dei servizi pubblici locali, ossia di quelle attività che soddisfano le esigenze di una platea indifferenziata di utenti, il cui gestore è soggetto ad obblighi volti a garantire la continuità, la regolarità e la qualità del servizio”; Cons. Stato, sez. VI, 5 marzo 2002, n. 1303: “Configurano servizi pubblici le attività di interesse pubblico sottoposte a disciplina normativa che ne impone l’esercizio in modo continuativo, regolare e imparziale”. Sul punto v. anche a. pericu, Impresa e obblighi di servizio pubblico, Milano, 2001, 328, secondo il quale, “per consentire l’adempimento degli obblighi di servizio pubblico, «l’impresa deve (o ha diritto di) beneficiare di deroghe all’applicazione del diritto comune”.

[64] Trib. Pescara, 14 gennaio 2014, in www.ilcaso.it, che rileva come, con riferimento alla scelta di restringere l’applicazione analogica dell’art. 1 fall. ai soggetti esercenti servizi pubblici essenziali, non sembra vi sia un’incompatibilità ontologica fra erogazione di servizi pubblici essenziali e sottoposizione a fallimento in quanto l’esercizio provvisorio dell’impresa ex art. 104 l. fall., può essere visto quale “strumento temporaneo per non interrompere la gestione finché l’ente locale non provveda a nuove modalità di affidamento del servizio, con gara o mediante autoproduzione”.

 

[65] Cfr. d’attorre, Gli enti di natura pubblica, cit., 122 e ss.

[66] E’ significativo sottolineare come anche la liquidazione coatta amministrativa sia stata concepita nello Stato liberale prefascista quale mezzo a difesa del principio della divisione dei poteri, per impedire l’ingerenza dell’autorità giudiziaria in settori ritenuti di competenza dell’autorità amministrativa: così u. belviso, Tipologia e normativa della liquidazione coatta amministrativa, Napoli, 1973, 4 e 120.

[67] Sulla funzione amministrativa v., tra gli altri, f.s. severi, voce Funzione pubblica, in Dig. disc. pubbl., VII, Torino, 1991, 70; m.r. spasiano, La funzione amministrativa: dal tentativo di frammentazione allo statuto unico dell’amministrazione, in Dir. amm., 2004, 297 e ss. In generale, sul tema classico dei rapporti tra funzione giurisdizionale e funzione amministrativa, v. g. silvestri, Poteri dello Stato, in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 670 e ss.

[68] Questa soluzione, muovendo dalla rilevanza degli interessi tutelati, si fonda su un’interpretazione della locuzione “enti pubblici” non legata ad un mero dato formale, ma aperta al profilo sostanzialistico. Ciò consente di ricomprendere tra gli enti pubblici esenti da procedura fallimentare anche le società a capitale pubblico che, pur avendo una veste formalmente privata, costituiscano una mera articolazione esterna dell’ente pubblico, soggette al suo controllo e funzionali al perseguimento di finalità di interesse pubblico.

[69] Questo orientamento, che è stato definito “tipologico” perché si propone di fornire una risposta al quesito sulla natura delle società in mano pubblica al di là della veste formale: sul punto vedi g. d’attorre, Società in mano pubblica e fallimento: una terza via è possibile, in questa Fallimento, 2010, 691.

[70] Trib. di S. Maria Capua Vetere, 9 gennaio 2009, in Fallimento, 2009, 713 ss.; Trib. Catania, 26 marzo 2010, in www.ilcaso.it; Trib. Napoli, 31 ottobre 2012, in Fallimento, 2013, 73; Trib. La Spezia, 20 marzo 2013, in www.ilcaso.it. Nello stesso senso anche Corte App. Torino, 15 febbraio 2010, in Fallimento, 2010, 689 ss. Nel caso sottoposto al vaglio dei giudici, era stato proposto ricorso di fallimento nei confronti di una società per azioni, a totale partecipazione pubblica, titolare del servizio di raccolta differenziata in ambito provinciale.

[71] Va rilevato peraltro che nella giurisprudenza nazionale e comunitaria si è affermata una siffatta nozione di “impresa pubblica”, fondata su requisiti di carattere sostanziale, come la detenzione della maggioranza del capitale sociale da parte dell’ente o degli enti pubblici, l’influenza dominante esercitata dai pubblici poteri sulla società, l’esistenza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario.

[72] Si veda nota n. 70.

[73] Ciò soprattutto quando, contemporaneamente, l’applicazione della disciplina pubblicistica, oltre che inutile, si accompagni anche al pregiudizio di altri interessi, per quanto di natura privati, che il legislatore ha inteso tutelare mediante la disciplina dello statuto dell’imprenditore commerciale.

[74] In generale, sul cosiddetto “in house providing”, si veda: g. bassi, Le determinanti del controllo analogo “in forma collettiva” nell’istituto dell’in house providing, in Riv. trim. appalti, 2009, 407; c. casavecchia, Affidamento in house providing di servizi socio-sanitari a fondazione di diritto privato, in Riv. Amm., 2009, 1527; g. chiné, La nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in Corriere merito, 2009, 237; f. cintioli, Norma interposta, società in house e “identità” dell’ordinamento nazionale. Riflessioni alla prima lettura di Corte cost. n. 439 del 2008, in www.lexitalia.it, n. 1/2009; g. clemente di san luca, La morfologia dell’interesse pubblico alla “tutela della concorrenza” nel campo dei servizi di pubblica utilità, in www.giustamm.it, n. 7-2009; s. delia, In house e servizi pubblici locali: breve storia della capitolazione di un modello, in www.giustamm.it, n. 7-2009; g. de luca, L’affidamento del servizio pubblico alla società partecipata da enti locali: presupposti e criticità, in Riv. Amm., 2009, 1513; l. de pauli, Gli enti in house e l’evidenza pubblica “a valle”, in Urbanistica e Appalti, 2009, 1104; f. de santis, Limiti operativi della società mista affidataria di appalto o servizio pubblico, in www.lexitalia.it, n. 10/2009; r. mollica, Le concessioni di servizi nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Giurisdizione amm., 2009, IV, 113; g. piperata, Le società a partecipazione pubblica nella gestione dei servizi degli enti locali, in Studi in tema di società a partecipazione pubblica, a cura di m. cammelli e m. dugato, Torino, 2008, 291 ss.; m. polito, La gestione dei servizi pubblici locali: le funzioni della Corte dei Conti. Spunti di riflessione, in Giurisdizione amm., 2009, IV, 161; m. g. pulvirenti, Recenti orientamenti in tema di affidamenti in house, in Foro amm. CdS, 2009, 108; c. volpe, In house providing, Corte di giustizia, Consiglio di Stato e legislatore nazionale. Un caso di convergenze parallele?, in Giustizia amministrativa, 2008, 1401.

[75] Corte di Giustizia, sentenza 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal S.r.l. c. Comune di Viano e AGAC. Cfr. in materia m. galesi, In house providing: verso una definizione del <<controllo analogo>>? in Urbanistica e appalti, 8/2004, 932 e ss. La sentenza Teckal trae origine dall’affidamento da parte del Comune di Viano (Reggio Emilia) all’Azienda Gas-Acqua (AGAC), cui il comune partecipa, della gestione del servizio di riscaldamento di taluni uffici comunali, senza dar luogo a procedura di gara . La Teckal, impresa privata operante nel settore dei servizi di riscaldamento, ricorre al T.A.R. per l’Emilia Romagna adducendo che il comune sarebbe dovuto ricorrere alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici previsti dalla normativa comunitaria. Il T.A.R. sospende il giudizio chiedendo alla Corte l’interpretazione di talune disposizioni delle direttive 92/50/CE e 93/36/CE. La sentenza è considerata come quella capostipite sull’in house.

[76] L’affidamento diretto di un servizio pubblico si consente tutte le volte in cui un ente pubblico decida di affidare la gestione del servizio, al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti caratteristiche tali da poterla qualificare come una “derivazione”, o una longa manus, dell’ente stesso. Da qui, l’espressione in house che richiama, appunto, una gestione in qualche modo riconducibile allo stesso ente affidante o a sue articolazioni.

[77] Tali presupposti devono ricorrere tutti per poter definire una società non semplicemente in mano pubblica ma in house.

[78] In Fallimento, 2014, 33 ss. con commento di l. salvato, Responsabilità degli organi sociali delle società in house.

[79] A titolo meramente esemplificativo si menzionano Trib. Napoli 1 agosto 2014; Trib. Napoli, 09 gennaio 2014; Trib. Verona 19 dicembre 2013.

[80] Così Trib. Pescara, 14 gennaio, 2014 (vedi nota n. 64); App. Napoli, 27 maggio 2013 e App. Napoli, 24 aprile 2013, in Fall., 2013, 1290, e Dir. fall., 2013, 563 ss. (con nota di g. positano, Il fallimento delle società “private” a partecipazione pubblica); Trib. Velletri, 8 marzo 2010, App. Napoli 15 luglio 2009, in Rep. Foro it., 2010, voce Fallimento, n. 252.

[81] Cass. civ., 15 maggio 2013, n. 22209, dep. 27 settembre 2013; nello stesso senso Cass. civ., 6 dicembre 2012, n. 21991.

[82] Trib. Reggio Emilia, 18 dicembre 2014, che ha dichiarato il fallimento di una società in house che aveva come scopo sociale la gestione del patrimonio immobiliare della provincia.

[83] Su questo aspetto cfr. f. fimmanò, Appunti in tema di società di gestione dei servizi pubblici, in Riv. not., 2009, 897.

[84] s. locoratolo, Società in house, il nodo-fallimento, in Il Sole 24 ore, 09/02/2015, 21.

[85] Rileva c. ibba, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, cit., 6, che la disciplina è il frutto di una precisa scelta di politica legislativa, volta a equiparare il trattamento delle iniziative economiche pubbliche e di quelle private, assoggettando anche le prime, in caso di adozione della forma societaria, al diritto societario comune.

[86] f. bassi, Azionariato pubblico e procedure concorsuali, cit., 907, osserva che «l’indagine … svolta … consente di escludere che l’azionariato pubblico sia assoggettato ad una disciplina normativa differenziata rispetto a quella propria della impresa societaria di diritto comune … e può pertanto affermarsi che nel caso della società in mano pubblico non sembra verificarsi una rottura dello schema societario delineato dal codice civile …».

[87] Tale principio si fonda sulla facoltà riconosciuta dall’ordinamento giuridico di avvalersi nell’esercizio dell’impresa di un autonomo centro di imputazione dei rapporti giuridici, virtualmente creato.

[88] Così c. ibba, Responsabilità degli amministratori di società pubbliche e giurisdizione della Corte dei conti nella giurisprudenza degli ultimi anni, in Giur. comm. 2012, I, 641 ss., secondo il quale l’affidamento dei terzi viene a dipendere dall’iscrizione nel registro delle imprese della società secondo il tipo societario prescelto (cui segue l’aspettativa all’applicazione della relativa disciplina di legge).

[89] L’esistenza è considerata necessaria se la società è preordinata allo svolgimento di determinati servizi essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi (es. servizi di raccolta rifiuti, servizi di trasporto pubblico, servizio postale, ecc.).

[90] e. codazzi, La società tra professionisti e il regime di responsabilità dei soci per l’esercizio dell’attività professionale. Qualche considerazione sul tema alla luce dei principi sulle liberalizzazioni dei servizi professionali, cit., 38; m. vietti, Le linee guida per una disciplina della crisi delle società pubbliche, in Le società pubbliche, cit., spec. p. 8.

[91] In argomento si veda f. fimmanò, Società in mano pubblica e concordato preventivo, in Fallimento, 2013, 877 ss.; l. balestra, Concordato di società a partecipazione pubblica e profili di inammissibilità della domanda, in Fallimento, 2013, 1273 ss.; g. d’attorre, Il concordato preventivo della società in mano pubblica, in Fallimento, 2013, 875 ss; id., Società in mano pubblica e procedure concorsuali, in Le società pubbliche, a cura di f. fimmanò, Milano, 2011, 357 ss.

[92] Così g. d’attorre, La fallibilità delle società in mano pubblica, cit., 503.

[93] Tale orientamento non è condiviso da m. arato, Il concordato preventivo con riserva, Torino, 2013, 48, il quale ritiene che esso sovverte l’impianto legislativo di cui all’art. 1 l. fall., il quale sarebbe chiaro nello stabilire che gli enti pubblici e le società pubbliche, qualificabili queste ultime alla stregua dei primi, non possono essere assoggettate né al fallimento, né al concordato preventivo.

[94] In questo senso Trib. Pescara, 14 gennaio 2014, cit. Di diverso avviso Trib. di La Spezia, 20 marzo 2013, in www.ilcaso.it, 2013, secondo cui, ai fini della procedura di concordato preventivo, non sussistono i requisiti ex art. 1, comma 1, l. fall. in capo alle società controllate dagli enti locali, a cui è riservata l’erogazione di servizi pubblici essenziali, in quanto esentate dalle procedure concorsuali.

[95] g. d’attorre, Il concordato preventivo della società in mano pubblica, cit., 881.

[96] In proposito, stabilisce l’art. 167, comma 1, l. fall., che “Durante la procedura di concordato, il debitore conserva l’amministrazione dei suoi beni e l’esercizio dell’impresa (…)”.

[97] Sempre g. d’attorre, Il concordato preventivo della società in mano pubblica, cit., 881.

[98] Sulle finalità della procedura, volta a contemperare l’interesse alla continuazione dell’azienda con la tutela dei diritti dei creditori, tra tutti, u. apice – s. mancinelli, Il fallimento e gli altri procedimenti di composizione della crisi, Torino, 2012, 500 ss.; m. arato, Il concordato con continuità aziendale, in Il Fallimentarista, 3/8/2012.

[99] A condizione, in entrambi i casi, che il professionista designato dal debitore attesti la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento.

[100] Così e. codazzi, La società tra professionisti e il regime di responsabilità dei soci per l’esercizio dell’attività professionale. Qualche considerazione sul tema alla luce dei principi sulle liberalizzazioni dei servizi professionali, cit., 40.

[101] g. d’attorre, Il concordato preventivo della società in mano pubblica, cit., 881, il quale reputa ammissibile anche il ricorso al concordato “anticipato” previsto dall’art. 161, comma 6, l. fall.

[102] In tal senso e. codazzi, La società tra professionisti e il regime di responsabilità dei soci per l’esercizio dell’attività professionale. Qualche considerazione sul tema alla luce dei principi sulle liberalizzazioni dei servizi professionali, cit., 40-41.

[103] In materia si veda s. ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in g. cottino (diretto da), Trattato di diritto commerciale, v. XI, t. 1, Padova, 2008.

[104] La possibilità di estendere tale istituto agli enti non fallibili è stata considerata, in particolare, con riferimento agli enti pubblici. Cfr. c. trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2012, 174 ss.; c.l. appio, Gli accordi di ristrutturazione del debito, Milano, 2012, 40 ss.

[105] Rileva f. capalbo, Le società partecipate dagli enti pubblici: un problema di teoria generale, cit., che il sempre più intenso intrecciarsi del diritto privato e pubblico ha indotto ad abbandonare approcci interpretativi “tipologici”, fondati, cioè, sulla rigida ripartizione tra soggetti di diritto pubblico e privato in favore di un approccio “funzionale”. Si tende, cioè, ad individuare, di volta in volta, il regime applicabile a tali categorie speciali di soggetti, addivenendosi ad una convivenza di discipline tipiche del diritto privato con discipline tipiche del diritto pubblico.

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