ARTICOLO 1 CODICE APPALTI.

L’OGGETTO DEL CONTRATTO DI APPALTO PUBBLICO.

a cura di PIETRO ALGIERI

La Pubblica Amministrazione, nell’esercizio della sua azione, si avvale non solo degli strumenti giuridici propri del diritto pubblico, ma si serve anche dei mezzi propri del diritto privato. In passato, infatti, si era soliti ritenere che questi ultimi fossero inidonei al conseguimento dei fini che caratterizzano una P. A., in quanto incapaci di soddisfare gli interessi della collettività, dato che nel diritto privato si trovano mezzi, strumenti, contratti e atti idonei a perseguire un interesse privatistico. In realtà, solo grazie ad una evoluzione normativa ma soprattutto giurisprudenziale, si è potuto riconoscere in capo alla Pubblica amministrazione un’autonomia privata di diritto privato, in modo tale da perseguire un interesse pubblico tramite gli strumenti negoziali privatistici. Il riconoscimento di tale autonomia, da un punto di vista normativo, si ha con l’art. 1 comma 1-bis della l. n. 241 del 1990 così come è stata modificata dalla l. n. 15 del 2005. Il suddetto articolo sancisce che: La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente. Dalla lettura della norma, pertanto, si evince il principio secondo cui la P. A., utilizza gli strumenti privatistici come alternativa generale all’esercizio del potere pubblico finalizzato al soddisfacimento del bene collettivo e pubblico. Chiarita tale premessa, i contratti che la P.A., nell’esercizio della sua autonomia negoziale, è legittimata a stipulare sono vari. Vi sono i contratti ordinari di diritto comune, disciplinati, appunto, dal codice civile; ma anche i contratti speciali di diritto privato, regolati dalle norme privatistiche di specie. Particolare rilievo hanno poi i c.d. “contratti ad oggetto pubblico”, questi, nascono da un intreccio fra contratto e provvedimento nell’ambito di settori aventi rilievo pubblico. Infine, un’ultima differenziazione va fatta tra i contratti attivi e quelli passivi. La distinzione tra questi due tipi è semplice: mentre i primi comportano un’entrata per l’Amministrazione, i secondi, invece, sono produttivi di spese per la P.A., al fine di garantire beni e servizi. Un classico esempio di questi contratti è l’appalto. Nel nostro ordinamento, però, troviamo una duplice figura di appalto. La prima è disciplinata dall’art. 1655 c.c, il quale cita testualmente: L’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro. In seno al codice civile, pertanto, viene accolta una nozione oggettiva di appalto, in quanto, quest’ultimo deve riguardare il compimento di un’opera o di un servizio. Ma vi è di più, infatti, dalla lettera della norma si evince una delimitazione di tipo soggettivo, dato che l’appaltatore deve essere un soggetto dotato di una propria organizzazione economica. La seconda figura di appalto, invece, è quella pubblica Questo è il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio, verso corrispettivo di danaro.

I caratteri salienti del contratto d’appalto sono:

1)     l’incontro delle volontà del committente e dell’appaltatore, cioè di colui che professionalmente esercita un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o di servizi (Art. 2082 c.c.);

2)     la idonea organizzazione dei mezzi da disporre per soddisfare l’impegno contrattuale;

3)     il rischio dell’imprenditore;

4)     il pagamento da parte del committente della prestazione effettuata dall’appaltatore.

Pertanto, l’appalto pubblico è finalizzato alla scelta dell’impresa ritenuta la più capace, sotto l’aspetto tecnico, a realizzare l’opera pubblica alle condizioni più vantaggiose per l’Ente committente. L’appalto può riguardare un’opera pubblica, una pubblica fornitura o un pubblico servizio. Questo, infatti, ha ad oggetto la realizzazione di lavori, la prestazione dei servizi, nonché la fornitura di beni. Tale definizione di appalto, è anche quella che viene recepita dal diritto comunitario, il quale, fa girare la disciplina degli appalti intorno alla tricotomia servizi, lavori e forniture, stabilita dalle direttive 92/50, 93/37 e 93/36. Nel nostro Paese, la materia degli appalti è disciplinata dal D. Lgs 163/2006. Questo decreto è il frutto della delega data al Governo per il recepimento delle direttive n. 2004/17 e 2004/18, le quali hanno operato nel senso della unificazione e del coordinamento della disciplina degli appalti nei vari settori. Particolarmente importante è il D.L.gs 163/2006, il quale ha introdotto il Codice degli Appalti pubblici. Una  norma di particolare importanza , è l’art 1 del Codice, il quale determina l’oggetto del contratto di appalto. Nello specifico, l’art. 1 sancisce che: 1. Il presente codice disciplina i contratti delle stazioni appaltanti, degli enti aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatori, aventi per oggetto l’acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere. 1-bis. Il presente codice si applica ai contratti pubblici aggiudicati nei settori della difesa e della sicurezza, ad eccezione dei contratti cui si applica il decreto di attuazione della direttiva 2009/81/CE e dei contratti di cui all’articolo 6 dello stesso decreto legislativo di attuazione. 2. Nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica.

L’articolo in questione esterna i proprio effetti su un duplice piano: soggettivo e oggettivo. Sul piano soggettivo, l’art 1 detta quali sono le categorie di soggetti legittimate a stipulare un contratto di appalto pubblico. La lettera dell’articola, nella prima parte del primo comma sancisce che soggetti legittimati a stipulare un contratto di appalto pubblico sono le “stazioni appaltanti”. Si tratta di un concetto molto ampio, il quale, non trova una definizione in seno al Codice.

A dimostrazione della portate estensiva di tale concetto, vengono ricomprese, all’interno del concetto di “stazioni appaltanti” sia gli enti che i soggetti aggiudicatori. L’ elencazione, tuttavia, è molto ampia ed è contenuta nell’art. 32 del Codice degli Appalti, il quale a sua volta, riproduce, con i giusti adeguamenti al diritto comunitario, sia l’art. 2 della l. n. 109/1994, sia gli articoli sulle amministrazioni aggiudicatrici contenute nel D.L.gs n. 358/1992 e nel D.L.gs n. 157/1995. Nello specifico, quindi, l’art. 32 disciplina che: 1. Salvo quanto dispongono il comma 2 e il comma 3, le norme del presente titolo, nonché quelle della parte I, IV e V, si applicano in relazione ai seguenti contratti, di importo pari o superiore alle soglie di cui all’art. 28: a) lavori, servizi, forniture, affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici; b) appalti di lavori pubblici affidati dai concessionari di lavori pubblici che non sono amministrazioni aggiudicatrici, nei limiti stabiliti dall’art. 142; c) lavori, servizi, forniture affidati dalle società con capitale pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi di diritto pubblico, che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi, non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza, ivi comprese le società di cui agli articoli 113, 113-bis, 115 e 116 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali; d) lavori, affidati da soggetti privati, di cui all’allegato I, nonché lavori di edilizia relativi ad ospedali, impianti sportivi, ricreativi e per il tempo libero, edifici scolastici e universitari, edifici destinati a funzioni pubbliche amministrative, di importo superiore a un milione di euro, per la cui realizzazione sia previsto, da parte dei soggetti di cui alla lettera a), un contributo diretto e specifico, in conto interessi o in conto capitale che, attualizzato, superi il 50 per cento dell’importo dei lavori; e) appalti di servizi, affidati da soggetti privati, relativamente ai servizi il cui valore stimato, al netto dell’I.V.A., sia pari o superiore a 200.000 euro, (1) allorché tali appalti sono connessi ad un appalto di lavori di cui alla lettera d) del presente comma, e per i quali sia previsto, da parte dei soggetti di cui alla lettera a), un contributo diretto e specifico, in conto interessi o in conto capitale che, attualizzato, superi il 50 per cento dell’importo dei servizi; f) lavori pubblici affidati dai concessionari di servizi, quando essi sono strettamente strumentali alla gestione del servizio e le opere pubbliche diventano di proprietà dell’amministrazione aggiudicatrice; g) lavori pubblici da realizzarsi da parte dei soggetti privati, titolari di permesso di costruire, che assumono in via diretta l’esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso, ai sensi dell’art. 16, comma 2, decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e dell’art. 28, comma 5, della legge 17 agosto 1942, n. 1150. L’amministrazione che rilascia il permesso di costruire può prevedere che, in relazione alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, l’avente diritto a richiedere il permesso di costruire presenti all’amministrazione stessa, in sede di richiesta del permesso di costruire, un progetto preliminare delle opere da eseguire, con l’indicazione del tempo massimo in cui devono essere completate, allegando lo schema del relativo contratto di appalto. L’amministrazione, sulla base del progetto preliminare, indice una gara con le modalità previste dall’art. 55. Oggetto del contratto, previa acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta, sono la progettazione esecutiva e le esecuzioni di lavori. L’offerta relativa al prezzo indica distintamente il corrispettivo richiesto per la progettazione definitiva ed esecutiva, per l’esecuzione dei lavori e per gli oneri di sicurezza; h) lavori, servizi forniture affidati dagli enti aggiudicatori di cui all’art. 207, qualora, ai sensi dell’art. 214, devono trovare applicazione le disposizioni della parte II anziché quelle della parte III del presente codice. 2. Ai soggetti di cui al comma 1, lettere d), e), f), g) non si applicano gli articoli 63; 78, comma 2; 90, comma 6; 92; 128; in relazione alla fase di esecuzione del contratto si applicano solo le norme che disciplinano il collaudo. Ai soggetti di cui al comma 1, lettere c) ed h), non si applicano gli articoli 78, comma 2; 90, comma 6; 92; 128; in relazione alla fase di esecuzione del contratto si applicano solo le norme che disciplinano il collaudo. 3. Le società di cui al comma 1, lettera c) non sono tenute ad applicare le disposizioni del presente codice limitatamente alla realizzazione dell’opera pubblica o alla gestione del servizio per i quali sono state specificamente costituite, se ricorrono le seguenti condizioni: 1) la scelta del socio privato è avvenuta nel rispetto di procedure di evidenza pubblica; 2) il socio privato ha i requisiti di qualificazione previsti dal presente codice in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita; 3) la società provvede in via diretta alla realizzazione dell’opera o del servizio, in misura superiore al 70% del relativo importo. 4. Il provvedimento che concede il contributo di cui alle lettere d) ed e) del comma 1 deve porre come condizione il rispetto, da parte del soggetto beneficiario, delle norme del presente codice. Fatto salvo quanto previsto dalle eventuali leggi che prevedono le sovvenzioni, il cinquanta per cento delle stesse può essere erogato solo dopo l’avvenuto affidamento dell’appalto, previa verifica, da parte del sovvenzionatore, che la procedura di affidamento si è svolta nel rispetto del presente codice. Il mancato rispetto del presente codice costituisce causa di decadenza dal contributo

Dall’elenco contenuto nell’art. 32, quindi, si può desumere come nel concetto di stazione appaltante vengono ricomprese sia le amministrazioni aggiudicatrici che i soggetti privati che si sono aggiudicati l’appalto e che sono tenuti ad ottemperare al Codice degli Appalti. Da un punto di vista soggettivo, poi, è opportuno soffermare la nostra attenzione sulle  amministrazioni aggiudicatrici di un appalto. Il comma 25 dell’art. 3, infatti, specifica che: 25. Le “amministrazioni aggiudicatrici” sono: le amministrazioni dello Stato; gli enti pubblici territoriali; gli altri enti pubblici non economici; gli organismi di diritto pubblico; le associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti.

Un’altra categoria di soggetti che rientrano nel ampio concetto di stazione appaltante riguarda coloro che vengono definiti come: “altri soggetti aggiudicatori”. Questi vengono identificati come soggetti privati che sono soggetti alle norme del Codice degli Appalti pubblici e che costituiscono, pertanto, stazioni appaltanti. Infatti l’art. 32 comma 1 lett d)integra il disposto dell’art. 3 comma 31, identificando gli “altri soggetti aggiudicatori” sotto un profilo oggettivo, ossia come soggetti privati a cui vengono affidati lavori ricompresi nell’Allegato I del Codice e, quindi, lavori concernenti ospedali, impianti sportivi e ricreativi per il tempo libero, edifici scolastici e universitari, edifici destinati a funzioni pubbliche amministrative, di importo superiore ad un milione di euro, per la cui realizzazione sia previsto per i soggetti di cui alla lettera a) un contributo diretto e specifico, in conto  interessi o in conto capitale, che attualizzato superi il 50% dell’importo dei lavori. I maggiori problemi interpretativi, tuttavia, sono sorti sul concetto di organismo di diritto pubblico, il quale rientra nel genus dell’amministrazione aggiudicatrice. Per organismo di diritto pubblico si intende un qualsiasi organismo, organizzato anche in forma societaria che:

1)     Sia istituito per soddisfare appositamente esigenze di interesse generale, che non presentino i caratteri della commerciabilità;

2)     Sia dotato di personalità giuridica;

3)     La cui attività sia maggiormente dallo Stato o dagli Enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure, la gestione di detto organismo sia soggetta al controllo di uno di questi enti, o ancora, che il consiglio di direzione e vigilanza o di amministrazione sia composto da membri la cui metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altro organismo di diritto pubblico.

Queste sono le caratteristiche principali di un organismo di diritto pubblico. Peculiarità che sono descritti in modo esaustivo dall’art. 3 comma 26 del Codice degli Appalti.

La definizione data dall’art. 3 c. 26 del Codice, ricalca quella data dal diritto comunitario, nella direttiva 2004/17, ai sensi dell’art. 2 comma 1 lett. a) e della direttiva 2004/18, ex art. 1 comma 9, che a sua volta deriva da una direttiva precedente, la n. 89/4407CEE, ai sensi dell’art. 1 lett. b), sugli appalti di lavori pubblici, poi trasfusa nella direttiva 93/37/CEE, quest’ultima, venne poi ripresa dal D.L.gs n, 406/1991, ex art. 3 e, infine, nella direttiva 92/50, riguardante gli appalti pubblici di servizi. È facile intuire come l’espressione organismo di diritto pubblico  deriva dal diritto comunitario, il quale si era preoccupato di superare la nozione di “ente pubblico” fatta propria dalla giurisprudenza e dalla dottrina italiana, il cui fine ultimo era quello di applicare la disciplina in tema di contrattazione tramite una valorizzazione a 360 gradi del concetto di stazione aggiudicatrice. La dottrina, soprattutto Chiti, sottolinea come la nozione comunitaria è molto ampia e comprende sia soggetti privati e sia pubblici, che vengono individuati secondo criteri sostanziali che rispondono alle esigenze di una maggiore tutela del mercato in ambito europeo.

Quanto ai tre caratteri, la giurisprudenza comunitaria[1], ha sottolineato come questi devono essere tutti e tre compresenti, e non possono considerarsi alternativi gli uni con gli altri, va da sé che in caso di aggiudicazione di un appalto pubblico ad un organismo che si ritiene di diritto pubblico, ma manca di uno dei requisiti necessari, lo stesso appalto verrà revocato, o meglio ancora l’organismo sarà estromesso dalla gara ad evidenza pubblica. E’ necessario, tuttavia, chiarire la portata dei tre elementi che costituiscono un organismo di diritto pubblico. Il primo carattere che deve avere un organismo per essere definito di diritto pubblico è che quest’ultimo deve soddisfare interessi generali e non deve presentare i caratteri della commerciabilità. Sul punto, è opportuno sottolineare come la Corte di Giustizia ha differenziato gli interessi generali aventi carattere industriale e commerciale, da quelli che non ne hanno. I bisogni non aventi caratteri non commerciale o  non industriale, sono quelli che vengono soddisfatti in modo diverso dall’offerta di beni e servizi sul mercato, e sono quei bisogni che lo Stato preferisce soddisfare o direttamente o attraverso l’ausilio di altri soggetti nei confronti dei quali intende mantenere una notevole influenza. Al fine di accertare la sussistenza o meno del requisito in esame, occorre, pertanto, dapprima verificare se l’attività dell’ente soddisfi effettivamente bisogni di interesse generale e, successivamente, determinare se tali bisogni abbiano o meno carattere commerciale o industriale.[2] L’esistenza o meno di un bisogno di interesse generale deve essere valutata tenendo conto di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali, per esempio, le circostanza che hanno presieduto alla creazione dell’organismo. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizie Europea, pertanto, per determinare se un interesse abbia carattere generale, industriale o commerciale, si possono utilizzare vari parametri. Uno di questi, per esempio, può essere la presenza o meno di un esercizio in regime di concorrenza.[3] Ma tale carattere presenta un’attenuazione di non poco conto. Infatti la Corte sostiene che non è necessario che l’organismo svolga attività volte a soddisfare l’interesse generale in via esclusiva o prevalente. Tale apertura, infatti, comporta che tale ente può essere considerato   di diritto pubblico anche se svolge attività lucrativa, anche in modo secondario, purché, correlativamente a questa ponga in essere quelle attività che soddisfino interessi generali. Quanto al finanziamento dell’attività dell’ente da parte dello Stato o da altro ente territoriale, la Corte di Giustizia ha ritenuto che il finanziamento può avvenire anche in modo indiretto in favore di detto ente, per esempio, mediante l’imposizione di un pagamento di un canone ad opera degli utenti. Classico esempio di ciò sono i sistemi di radiodiffusione. La giurisprudenza italiana, tuttavia, non è rimasta inerte, e si è occupata dei problemi che derivano dalla nozione di organismo di diritto pubblico e dei caratteri imprescindibili che esso deve avere. Ma essa si è occupata prevalentemente di due problemi:

1)la possibilità di qualificare come organismo di diritto pubblico enti a forma societaria con partecipazione totale o parziale di un ente pubblico;

2)se vi sono margini di riconoscere come organismo di diritto pubblico enti che svolgono attività sia privata che pubblica. La prima questione è stata risolta in senso affermativo. Infatti una società per azioni a partecipazione pubblica può avere la veste di organismo di diritto pubblico, ma è necessario che la veste societaria sia neutrale. Infatti, si sostiene che la veste societaria non sia un elemento impenditivo per essere considerato organismo di diritto pubblico.[4] Per quel che concerne, infine, la seconda questione, anche qui la giurisprudenza amministrativa è orientata a riconoscere anche all’organismo che svolge attività privata, la qualifica di organismo. Ciò è dovuto all’ovvia conclusione che un organismo rimane tale indipendentemente se sia pubblico o privato. Quello che conta è che quest’ultimo abbia i requisiti di legge per essere considerato un organismo di diritto pubblico. La seconda parte  del 1 comma dell’art.1 del Codice del Consumo, determina che i contratti di appalto hanno:”  per oggetto l’acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere.

Si è già chiarito che cosa si intenda per contratto di “appalto pubblico”, ora è opportuno, invece, indicare quali siamo le differenze sostanziali tra i contratti di appalto di “opera”, di “servizi” e di “forniture”.

Non si può trascurare l’obbligo di individuare, nell’ambito del regime giuridico di tali contratti il significato attribuito dal legislatore alla “nozione di appalto pubblico di forniture e/o servizi” in contrapposizione a quello di appalto di opere pubbliche al fine di stabilire il contenuto intrinseco ed evitare confusioni concettuali.  Infatti, l’oggetto di un appalto è determinato in modo elastico comprendendo qualsiasi opera o servizio o fornitura. Nel nostro diritto positivo l’intitolazione di una legge ha proprio compito di delimitare il campo d’azione ed il settore in cui le singole norme in essa contenute sono destinate ad operare. Così, se la legge è concepita con riferimento agli “appalti di opere pubbliche” tutte le disposizioni in essa contenute, sono destinate ad operare, in via di principio, solo in quell’ambito. Non si può operare una commissione per le varie discipline ma si deve operare una scelta a seconda del tipo di contratto. Il criterio adottato dal legislatore nazionale, espresso in una netta divisione fra le normative dei lavori, forniture e servizi, è di derivazione comunitaria.Per opera pubblica deve intendersi “una modificazione, una distruzione, una costruzione, un restauro, una riforestazione, una ricostruzione paesaggistica che, nella grandissima maggioranza dei casi, ha come risultato la costruzione, modificazione e distruzione di cose immobili.[5]

Se sulla materia del contratto di lavoro pubblico la dottrina e la giurisprudenza pervengono alle medesime conclusioni, di diverso tenore è il problema relativo alla natura del contratto di pubblica fornitura.

La circolare del Ministero di Grazia e Giustizia 8 giugno 1983 n.1/2439, afferma che “il contratto di fornitura può di volta in volta, essere assimilato ad un contratto di somministrazione o ad un contratto di vendita in cui la prestazione può essere in un’unica soluzione o frazionata per cui,in quest’ultimo caso, si ha un contratto di compravendita e consegne ripartite. Può essere assimilato ad un contratto di appalto”.

Dello stesso tenore è l’orientamento seguito in giurisprudenza[6] .Pertanto  il tipo di contratto va, dunque, ricercato di volta in volta, avendo riguardo alla “prestazione” in esso dedotta.

Nel caso che la prestazione “sia di dare” si ha la specie fornitura-compravendita o fornitura-somministrazione” a seconda delle modalità della consegna della cosa. Si ha la fornitura-compravendita quando la prestazione può essere in unica soluzione o anche frazionata, ma tale frazionamento ha luogo, in ogni caso, in sede di esecuzione e non di formazione del contratto.

Si ha la fornitura-somministrazione quando la prestazione avviene con carattere di periodicità o continuità. Non è concepibile una prestazione unica. Nel caso in cui la prestazione dedotta su contratto “sia di fare” si ha la specie “fornitura – appalto”.

 

L’appalto di servizi rispetto a quello di opere è caratterizzato dal fatto che entrambi possiedono gli elementi tipici del contratto di appalto e cioè il “facere” ed il “risultato”, ma si distinguono  in quanto nei servizi la promessa di un risultato ben definito, oggetto della prestazione, è una utilita’ che soddisfa l’interesse  della P.A. senza la trasformazione della materia; mentre nell’appalto di opera il risultato consiste tipicamente nella produzione di un bene materiale ottenuto a seguito dell’elaborazione della materia da parte dell’appaltatore. A sua volta, l’appalto di servizi, in considerazione del fatto che il contenuto della prestazione è un “facere” si distingue dal contratto di somministrazione che ha per oggetto un “dare”.

L’appalto di servizi  presentandosi come una utilità che soddisfa l’interesse  della P.A. senza la trasformazione della materia, prende significato in relazione alla sua capacità di rispondere ai bisogni soggettivi, e, pertanto, gli elementi qualificanti del sistema dei rapporti fra la P.A. ed il prestatore di servizi sono caratterizzati dalla flessibilità del servizio offerto, dalla variabilità del prezzo e la sua relativa indipendenza del fattore costo, dalla componente fiduciaria che la P.A. esprime nei confronti di una  e non altre offerte, e la variabilità del servizio offerto. Il contratto di servizi è, quindi, riconducibile ad una qualsiasi utilità con contenuto economico costituente un risultato (un quid) ottenuto da una attività di lavoro. Nel servizio è negoziata non una cosa ma una attività volta ad un risultato utile per il committente e che richiede un’attrezzatura tecnica ed un apparato organizzativo.

Un altro tema particolarmente importante e spinoso che ha fatto nascere numerosi interrogativi è quello delle società miste. Per società “miste” s’intendono, in generale, quelle con presenza nel capitale sociale sia di soggetti pubblici che di soggetti privati Queste sono disciplinate dal 2 comma dell’art. 1 del Codice dei contratti pubblici, il quale, però, a fronte di un’apertura verso questo tipo di società nell’amministrare la cosa pubblica, nella seconda parte del 2 comma dell’art.1 del Codice degli appalti, si evince un contemperamento, in quanto  la scelta del contraente privato deve avvenire sempre mediante una gara ad evidenza pubblica. L’orientamento giurisprudenziale prevalente ha ritenuto necessario lo svolgimento di una gara pubblica per la scelta del socio privato nel procedimento di costituzione di tutte le società miste (a capitale pubblico di minoranza, come previsto dalla legge, o di maggioranza)[7]. Cadendo la scelta del socio tendenzialmente su di un imprenditore, dotato di requisiti tecnico – finanziari e strutturali, risulta coerente con i principi generali in tema di buona amministrazione l’espletamento di un giudizio comparativo tramite le regole dell’evidenza pubblica, al fine di assicurare la migliore funzionalità del servizio stesso[8]. Tali regole si applicano anche laddove si tratta di socio finanziario, il quale è privo di requisiti tecnici o organizzativi inerenti la gestione del servizio stesso; ciò in conformità ai principi di trasparenza, imparzialità ed efficienza della pubblica amministrazione, nella specie consistenti nella scelta di un soggetto capace di pagare il prezzo più vantaggioso per l’ingresso nella compagine sociale.

La mancanza della fase concorsuale nell’individuazione della società affidataria si riteneva, dunque, compensata, nel rispetto dei valori della concorrenza e della par condicio, proprio dall’applicazione delle regole dell’evidenza pubblica per la scelta del socio privato[9]. E’ rimasta, quindi, minoritaria la tesi secondo cui le regole dell’evidenza pubblica possono essere imposte solo con riferimento ai contratti di scambio, e non anche ai contratti associativi, tra i quali quelli societari; in cui assumerebbe valenza determinante, non già la minore o maggiore convenienza, quanto l’aspetto fiduciario della scelta dei partner.

 

 

 

Ciò risponde ad esigenze sia di imparzialità che di conoscibilità da parte dei cittadini, dei soggetti privati che fanno parte di una società che eroga un servizio pubblico o costruisce un’opera, a seguito di un appalto pubblico. Il modello delle società miste, però, porta con sé, come detto precedentemente, numerosi problemi. Il fenomeno è assai diffuso nel nostro Paese tanto negli ambiti statali e regionali quanto nell’area degli enti locali. Le società “miste” sono state “legittimate” anche per la gestione dei servizi pubblici locali con la legge 8 giugno 1990 n°142 che prevede , dopo la forma di gestione in economia, a mezzo di azienda speciale e della istituzione, la società per azioni a prevalente capitale pubblico locale qualora si renda opportuno in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati (articolo 22 comma 3 lettera e). Le società miste della Legge 142 potevano essere solo s.p.a e solo a maggioranza pubblica locale. Con successivi interventi giurisprudenziali e normativi ( tra i quali assume particolare rilievo la legge 23.12. 1992 n ° 498) venne ammessa anche la società con partecipazione minoritaria dell’ente locale come pure la società a responsabilità limitata. Veniva previsto che queste società potessero oltre che gestire servizi pubblici, realizzare infrastrutture ed altre opere di interesse pubblico. Veniva nel frattempo chiarito da dottrina e giurisprudenza che tra l’ente locale e la società mista non si stabiliva un rapporto di concessione, del tipo previsto alla lettera b) del citato articolo 22, comma 3 ed affidato di regola a seguito di confronto concorrenziale, ma si era in presenza di affidamento diretto, come per le aziende speciali, regolato attraverso il cosiddetto “contratto di servizio” . Circa il socio privato nulla stabiliva la legge 142/90 né in merito alle caratteristiche né circa le modalità di scelta salvo, ovviamente, l’obbligo di “motivazione” come per tutti gli atti amministrativi. Quindi nella prassi come partner di Enti locali sono entrati imprenditori del settore, ma anche istituti finanziari. La legge 498 / 92 sopra citata relativa alle “minoritarie” affidava l’attuazione ad un regolamento approvato con notevole ritardo, con DPR 16 settembre 1996 n° 533. Nell’anno 1997 con la legge 15 maggio n 127 (cosiddetta Bassanini bis) si avvia un preciso percorso di “privatizzazione” formale delle aziende speciali (trasformate in società di capitali ) . L’ente locale poteva infatti rimanere socio unico per non oltre due anni. Il quadro normativo quale risulta dopo l’ultimo intervento legislativo ( legge 20 novembre 2009 , n°166) con l’avvertenza che occorre distinguere la disciplina dei servizi distribuzione gas ed energia elettrica, farmacie che restano regolati dalle leggi di settore , dagli altri servizi ( i principali dei quali: servizio idrico , rifiuti e trasporto pubblico). Per questi ultimi la Legge prevede che il conferimento della gestione avviene ordinariamente :

▪ mediante procedura ad evidenza pubblica a favore di imprenditori o di società in qualunque

forma costituite

▪ a società a partecipazione mista pubblica e privata a condizione che la selezione del socio privato

avvenga mediante procedure ad evidenza pubblica che abbiano per oggetto al tempo stesso la

qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi. In sostanza, in conformità a quanto

indicato nei documenti dell’Unione Europea, al socio pubblico spetta il controllo ed al socio privato

la gestione.

Il legislatore ha disposto l’equiparazione fra i due modelli sopra descritti , entrambi considerati

forme ordinarie di “conferimento della gestione”, alla condizione che la società mista sia strutturata in conformità a quanto richiesto dalle norme. In deroga all’affidamento ordinario e quindi come forma residuale la legge prevede la gestione cosiddetta “in house” e cioè a favore a società che abbia tre requisiti:

1. totale partecipazione pubblica ( di uno o più enti locali);

2. controllo analogo a quello esercitato dall’ente locale sui propri

Servizi;

3. attività svolta dalla società con l’ente o gli enti pubblici che la

controllano (si deve intendere i modo estensivo anche l’attività

svolta a favore dei cittadini);

A questi requisiti derivanti dalle direttive UE il legislatore italiano ne ha aggiunto uno particolare che possiamo definire “ambientale” : quello relativo alle “caratteristiche economiche, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento che non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato.” E’ richiesta una verifica di mercato il cui esito va trasmesso all’Autorità garante della concorrenza per l’espressione di un parere (obbligatorio, ma non vincolante) che deve essere espresso entro sessanta giorni. Nella stragrande maggioranza dei casi l’Autorità si è espressa negativamente, per cui si può concludere che l’affidamento “in house” è in pratica assai difficile per non dire impossibile. La normativa in atto, sopra, citata prevede un periodo transitorio per le società miste esistenti che, se affidate con gara congiunta ( scelta del socio ed affidamento del servizio) cessano alla scadenza del contratto di servizio, mentre in caso contrario vengono a cessare alla data del 31.12. 2011. Le società miste il cui socio è stato scelto senza gara cessano al 31.12.2010. Anche le gestioni “in house” cessano al 31.12. 2011, ma la legge offre la possibilità di proroga fino alla scadenza prevista nel contratto di servizio qualora entro la predetta data le amministrazione cedano il 40% del capitale con procedure competitive ad evidenza pubblica ( con gara congiunta) . E’ da prevedere quindi un “rilancio” delle società miste in trasformazione delle gestioni in house. Peraltro secondo la più autorevole dottrina ( CAIA) nelle società miste di nuova costituzione il socio privato sarà investito di tutti i compiti operativi e si realizzerà ‐ nella sostanza ‐ una società senza azienda , una sorta di “sub concessione conforme a quanto stabilito nel “libro verde “ UE presentato il 30 aprile 2004. In estrema sintesi , secondo la Commissione UE:

a) la società mista deve essere costituita per svolgere prestazioni definite in modo chiaro e

preciso;

b) al socio privato spetta svolgere le prestazioni rientranti nell’oggetto sociale;

c) il socio pubblico deve svolgere il ruolo del “controllore” in seno agli organi decisionali

dell’impresa comune:

Nel caso di società in house esistenti , che dispongono già di una vera e propria organizzazione aziendale il privato svolgerà nella società mista solamente alcuni specifici compiti operativi per la durata residua dell’affidamento in corso. In conseguenza ci troveremo di fronte non una società mista in senso proprio e tipizzato, ma una figura di diritto transitorio all’interno della quale si avrà una ripartizione di compiti tra la società divenuta mista ed il socio privato. La società mista sarebbe quindi una specie di società consortile con il fine di coordinamento tra le due aziende sottostanti : quella della società in house e l’organizzazione aziendale del socio privato che svolge alcune predefinite fasi dell’attività con propri mezzi e proprio personale. Dalla necessità di una partecipazione minima del socio privato al capitale sociale nella misura del 40% non si deve dedurre che la quantità (meglio il fatturato) delle prestazioni rese dal privato rispetto a quello complessivo della società mista debba essere di identica misura, anche se non può essere insignificante o eccessiva. Va osservato che le nuove norme non realizzano, come da taluni sostenuto, una “privatizzazione” del servizio dal momento che è il governo resta in capo all’ente pubblico ; tanto meno per il settore idrico in cui l’oggetto (l’acqua) è pubblica e gli impianti (gli

acquedotti) rientrano nei beni demaniali e quindi sono incedibili.

Alla luce dell’evoluzione normativa e del crescente sviluppo delle società miste, la giurisprudenza italiana, stante l’assenza di specifiche decisioni, ha optato per un’interpretazione, a volte restrittiva, a volte estensiva, del dettato comunitario in ordine ai principi che presiedono alla stipulazione dei contratti pubblici.

In particolare, in ordine alla possibilità di affidamento diretto ai sensi dell’art. 113, comma 5, lettera b) T. U. E. L., è possibile riassumere i due orientamenti nel seguente modo:

  1. l’uno restrittivo, secondo il quale il fondamentale principio comunitario della libera concorrenza sarebbe tutelato, nell’affidamento da parte dell’ente pubblico di un servizio, esclusivamente mediante il ricorso a procedure di evidenza pubblica, essendo tassativamente esclusa ogni ipotesi di affidamento diretto, anche a società miste partecipate dall’ente;
  2. l’altro estensivo, secondo il quale, nell’ipotesi disciplinata dal citato art. 113 T.U.E.L, comma 5 lettera b), il rispetto del principio della concorrenza sarebbe assicurato, per le società miste pubblico private, dalla scelta del partner privato mediante procedure ad evidenza pubblica, che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza, secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche.

Per il primo orientamento, si rammenti, per tutte, la pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, decisione 27 ottobre 2006, n. 589, che ha ritenuto “doversi pervenire ad una interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa dell’art. 113, comma 5, lett. b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dall’effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio”..

Per il secondo orientamento si veda TAR Campania Salerno, Sez. I, 19 luglio 2005, n. 1290 e, in senso convergente, T.A.R. Lazio Roma, Sez. II, 9 gennaio 2007, n. 72: “L’affidamento diretto di pubblici servizi a società miste con capitale maggioritario pubblico costituite dagli enti locali non contrasta con il sistema garantistico dell’ordinamento, posto che la scelta del partner privato delle compagini de quibus avviene attraverso procedure ad evidenza pubblica”.

Tra i due riferiti orientamenti, una posizione intermedia, che, ad oggi, è anche quella più rivoluzionaria, stante l’interpretazione in chiave del tutto nuova dell’istituto delle “società miste”, è quella espressa dalla Sezione II del Consiglio di Stato con il Parere n. 456 del 18 aprile 2007 che si incentra sulla ritenuta ampia fungibilità tra lo schema funzionale della società mista e quello dell’appalto.

In altri termini, secondo la sezione consultiva, la gestione del servizio può essere indifferentemente affidata con apposito contratto di appalto o con lo strumento alternativo del contratto di società, costituendo una società a capitale misto.

La Giurisprudenza del Consiglio di Stato, investita, infatti, della questione dal Mistero delle Politiche Agricole e Forestali con riferimento alla legittimità dell’affidamento diretto del servizio da parte dell’AGEA (Agenzia per l’Erogazione in Agricoltura) al socio privato scelto tramite gara al fine di affidare la gestione e lo sviluppo del SIAN (Sistema Informativo Agricolo Nazionale), ha ritenuto di pervenire a conclusioni differenti da quelle alle quali la giurisprudenza italiana era giunta sulla falsariga delle decisioni comunitarie, introducendo un orientamento di favore nei confronti del modello gestionale “società mista”, opportunamente contemperato con i principi comunitari.

La Sezione ha nuovamente analizzato la figura della “società mista” quale forma, già elaborata da autorevole dottrina, di “collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori nella gestione di un pubblico servizio”, ritenendo che essa costituisca “una modalità organizzativa ulteriore per la soddisfazione delle esigenze generali”, volta a rendere più flessibile la risposta istituzionale a determinate esigenze e risultando, almeno in certi casi, di particolare efficacia[10]

L’iter logico seguito nel citato Parere è di immediata comprensione e può essere così semplificato:

  1. alla stregua degli orientamenti comunitari in materia di in house providing, vi è da chiedersi se il modello organizzativo “società mista pubblico-privato” sia riconducibile al modello dell’in house providing e, solo in caso affermativo, si potrà discutere del rinvenimento o meno, in concreto, dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza comunitaria;
  2. una volta esclusa la riconducibilità del modello organizzativo “società mista pubblico-privato” al modello “in house providing”, vi è da concludere per l’inutilità della ricerca dei requisiti, sempre più selettivi, richiesti per tale modello organizzativo, a partire dal “controllo analogo”, anche nel modello di partenariato “società mista pubblico-privato”, al fine di giustificarne la compatibilità con la disciplina comunitaria;
  3. la non riconducibilità della figura della “società mista” a quella dell’in house providing non implica, di per sé, l’esclusione automatica della compatibilità comunitaria della diversa figura della società a partecipazione pubblica maggioritaria, il cui socio privato sia scelto con procedura ad evidenza pubblica;
  4. il modello organizzativo “società mista pubblico-privato” risulta compatibile con i principi espressi dalla Corte di Giustizia Europea.

 

La giurisprudenza italiana che successivamente si è occupata della fattispecie si è sostanzialmente adeguata al modello di società mista costruito dal Consiglio di Stato.

Essa ha ribadito la necessità di far ricorso a procedure di evidenza pubblica ogniqualvolta debba scegliersi un socio privato per la costituzione di una società mista, “a prescindere dal tipo di attività che tale società deve espletare[11].

Così TAR Valle d’Aosta[12], che nel riprendere e mettere in atto i principi espressi nel parere n. 456/2007, pronuncia la seguente massima: “E’ legittimo l’affidamento diretto del servizio di distribuzione del gas ad una società mista il cui socio privato sia stato selezionato con gara”.

Ma tale decisione va oltre. Ritiene, infatti, il tribunale amministrativo regionale di poter prescindere dall’elemento della temporaneità dell’affidamento, considerando legittima la proroga, a società il cui socio privato sia stato scelto con le modalità di cui al Parere n. 456/2007, di un affidamento in essere per un periodo contenuto e definito entro margini ragionevoli (5 anni). Alla scadenza del quale l’amministrazione indirà una nuova gara per la scelta del nuovo socio gestore.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 03/03/2008, n. 1, poi, nel pronunciarsi, specificatamente, sul modello di società mista elaborato dal Cons. Stato nel 2007, ha ritenuto che tale modello rappresenta “una delle possibili soluzioni delle problematiche connesse alla costituzione di tali società e all’affidamento del servizio alle stesse, anche se in mancanza di indicazioni precise da parte della normativa e della giurisprudenza comunitaria, non è allo stato elaborabile una soluzione univoca o un modello definitivo di società mista”.

Mentre, prosegue l’Adunanza Plenaria, “il modello di società costruito con il citato del 2007 non è rinvenibile allorché il socio non venga scelto con procedura ad evidenza pubblica nella quale la gestione del servizio sia stata definita e precisata”.

Pertanto, la stessa assemblea, accoglie il modulo organizzativo indicato nel parere n. 456/2007 optando per l’ammissibilità dell’affidamento diretto del servizio pubblico in tutti quei casi in cui per la definitezza dell’oggetto e per la durata del servizio, la selezione del socio sia stata anche la scelta del socio gestore.

Infine, pare opportuno dar conto del recentissimo orientamento della Corte dei Conti[13], in ordine alle questioni legittimanti l’affidamento in house e sui presupposti per l’affidamento diretto ad una società mista: ““L’affidamento diretto ad una società mista può operare laddove vi sia stata, oltre ad una procedura ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato, anche e, al tempo stesso, una procedura che definisca il servizio operativo da affidare direttamente al medesimo socio”.

E’ evidente” prosegue la Corte dei Conti “la ratio di questa corrente di pensiero: se l’amministrazione, in sede di procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio privato, fissa con chiarezza e trasparenza anche l’oggetto del servizio che la società mista dovrà realizzare, appare coerente con i principi di libera concorrenza evitare una successiva ed ulteriore gara per l’affidamento dl servizio, nel presupposto che tale valutazione è già stata effettuata in favore del socio privato”.

Tale orientamento basato sulla fungibilità tra contratto di appalto e contratto sociale, rappresenta, ad avviso della sezione controllo della Corte dei Conti Siciliana, “un ottimo compromesso tra le esigenze di partenariato pubblico e privato proprie della potestà organizzativa dell’amministrazione pubblica, rispetto alle esigenze della comunità europea di tutela dei principi di libera concorrenza volti a prevenire eventuali distorsioni del mercato”.

Pare, dunque, di poter affermare che la giurisprudenza statale tenda ad uniformarsi alla proposta interpretativa avanzata dal Consiglio di Stato, con il parere n. 456/2007 che, dunque, a ragion veduta può considerarsi il nuovo punto di riferimento dal quale l’interprete deve prendere le mosse nel prosieguo della vicenda di cui si è discusso.

 



[1] Corte di Giustizia Europea, nella sentenza del 15 gennaio del 19998 C-44/96

[2] C.Gius. Europea, sex V 22 maggio 2003 C.18/01 Taitolo oy

[3] C. Gius. Europea, sex V 22 maggio 2003 C.18/01 Taitolo oy

[4][4] C. Stato Sez. VI. 28 ottobre 1998 n. 1478

[5] M.S. Giannini Diritto pubblico dell’economia

[6] Consiglio di Stato 01.03.1990 n.342.

 

[7] Cons. Statosez. V: 3 settembre 2001, n. 4586, in Cons. Stato, 2001, I, 1949; 19 febbraio 1998, n. 192, in Giur. it., 1999, 1267.

[8] Cons. Stato, sez. V, 6 aprile 1998, n. 435, in Giur. it., 1998, 1945.

[9]Cons. Stato, sez. V, 15 febbraio 2002, n. 917, in questa Rivista, 2002, 417

[10]  Libro Verde della Commissione Europea del 30 aprile 2004 e la Risoluzione del Parlamento Europeo del 26 ottobre 2006.

[11] Consiglio di Stato, sez. V, 04/03/2008, n. 889.

[12] TAR Valle d’Aosta, 13 dicembre 2007, n. 163

[13]Corte dei Conti  Sezione Regionale di Controllo per la Regione Sicilia, espresso con la pronuncia del 2 aprile 2008, n. 14

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