Prosegue la nostra collaborazione con la Fondazione Lelio Basso allo scopo di diffondere il bollettino in oggetto, che reputiamo di grande rilevanza anche per una riflessione globale della tematica dei diritti umani.

Buona lettura,

Avv. Federica Federici

 

Bollettino n.11 – Gennaio 2014

MIGRANTI, SFOLLATI, PROFUGHI, RICHIEDENTI ASILO E CLANDESTINI. LE RESPONSABILITÀ DELLITALIA E QUELLE DELLUNIONE EUROPEA

Nel Bollettino n. 2 dell’aprile 2011 abbiamo fornito un sintetico quadro generale della normativa internazionale ed europea riguardante i diritti fondamentali dei migranti e dei richiedenti asilo e le inadempienze italiane. Per riassumere: le legittime politiche di contrasto all’immigrazione irregolare sono soggette ai limiti imposti dal diritto internazionale e comunitario sulla protezione dei rifugiati, in particolare dal principio di non-refoulement, e, più in generale, dall’obbligo di rispetto dei diritti umani, prima di tutto del diritto delle persone a non essere esposte a rischio di tortura, trattamento inumano o degradante.

Da allora i problemi si sono aggravati.

Da un lato la normativa italiana si è dimostrata sempre più inadeguata: la “storica” sentenza Hirsi c.Italia della Corte europea dei diritti umani del 2012 (n.22765/09 del 23.2.2012) ha condannato l‘Italia per i respingimenti dei migranti dall’alto mare verso la Libia effettuati nel 2009 ed ha enunciato una serie di principi che, in materia di controllo delle frontiere, devono essere rispettati dagli Stati che hanno sottoscritto la Convenzione europea dei diritti umani. Analoghi principi informano la nuova Direttiva dell’Unione europea (2013/32/UE del 26.6.2013) sulla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, e la modifica al “Codice Frontiere Schengen” (Regolamento UE n.610/2013 del 26.6.2013).

D’altro lato si sono aggravate le condizioni dei migranti: con l’inizio della cosiddetta “primavera araba” e con i conseguenti cambiamenti geopolitici, ai migranti per motivi economici si sono aggiunte sempre più persone bisognose di protezione internazionale.

La tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013, con le centinaia di morti nel naufragio di una “carretta del mare” stracarica di migranti a poca distanza dalla costa, ha riproposto il problema delle responsabilità, rispettivamente nazionali ed europee, nella gestione delle frontiere comuni e, soprattutto, nel rispetto dei diritti umani e dell’obbligo del salvataggio in mare.

A proposito di quest’obbligo, va ricordato che la tutela della vita dei migranti in mare è regolata da diversi Trattati internazionali: la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS, del 1982, entrata in vigore nel 1994), la Convenzione sulla ricerca ed il soccorso in mare (SAR, adottata nel 1979 ed entrata in vigore nel 1985) e la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita in mare (SOLAS, adottata nel 1974 ed entrata in vigore nel 1980).

Frontex ed Eurosur

Si rimprovera all’Unione europea di avere lasciato la gestione di un problema complesso, che riguarda l’intero territorio dell’Unione, agli Stati più esposti per ragioni geografiche (Italia, Spagna, Grecia, Malta).

In effetti “Frontex”, l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati (istituita con Regolamento CE 2007/2004, modificato con regolamento UE 1168/2001), nonostante sia dotata di mezzi rilevanti in termini di budget, di effettivi, di mezzi aereonavali, non ha compiti autonomi di polizia o di guardia di frontiera, ma solo di coordinamento, di assistenza e di sostegno tecnico alle operazioni di controllo delle frontiere, che rimangono sotto la responsabilità degli Stati membri, anche quando intervengono squadre europee di guardie di frontiera, distaccate da singoli Stati (ad esempio, per operazioni congiunte).

Recentemente è stato compiuto un passo ulteriore, con l’approvazione del Regolamento (UE n. 1052/2013 del 22.10.2013) che istituisce il sistema europeo di sorveglianza delle frontiere “Eurosur”,entrato in vigore il 2 dicembre per Bulgaria, Estonia, Francia, Spagna, Croazia, Italia, Cipro, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Slovacchia e Finlandia.  Gli altri paesi aderiranno dal primo dicembre 2014.

Questo sistema rafforzerà Frontex, potenziando  lo scambio di informazioni tra stati in tempo reale, la raccolta dati, l’analisi dei rischi e l’identificazione dei gruppi di migranti. L’obbiettivo è quello di limitare il numero dei cittadini di paesi terzi che entrano illegalmente nel territorio dell’UE, di ridurre il numero di decessi, di rafforzare la sicurezza interna in tutta l’UE contribuendo a prevenire la criminalità. Concretamente, ogni stato dovrà rendere operativo un centro nazionale di coordinamento per Eurosur che funzionerà come un sistema di scambio di informazioni. Dovrebbe inoltre essere messo in pratica un sistema di sorveglianza e segnalazione attraverso droni e satelliti.

Sembrano ancora una volta prevalere le esigenze di sicurezza e di limitazione dell’immigrazione, anche se è prescritto che siano rispettati i diritti fondamentali e i principi UE in materia di immigrazione, compreso il divieto di respingimento verso paesi a rischio, la protezione dei dati personali e la non comunicazione di questi dati ai paesi di origine dei migranti per non mettere in pericolo la loro vita.

Resta ampiamente trascurata la norma introdotta dal Trattato di Lisbona, secondo cui le politiche dell’Unione relative al controllo delle frontiere, all’asilo e all’immigrazione “e la loro attuazione sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri anche sul piano finanziario” (art.80 del TFUE). In realtà, come in altre importanti materie, il grado di sviluppo dell’integrazione europea dipende dalla disponibilità dei governi e dei parlamenti dei Paesi membri a cedere quote di sovranità, in mancanza di che è difficile ottenere condivisioni di responsabilità che non appaiano di immediato interesse dei Paesi che ne vengano richiesti.

Norme e prassi nazionali

All’Italia si rimprovera che, pur accogliendo un numero di immigrati e di rifugiati assai minore di quello presente nei Paesi dell’Unione con più radicate tradizioni di accoglienza (dalla Germania alla Francia, dalla Gran Bretagna, alla Svezia, all’Olanda), tuttavia non ha ancora una legislazione statale organica in materia di asilo, né una disciplina adeguata agli standards europei in materia di procedure di esame delle domande di asilo e di ricorso avverso i dinieghi, né vere politiche di integrazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

Sebbene si calcoli che soltanto il 10% dell’immigrazione irregolare verso l’Unione europea avvenga via mare (questa essendo anche l’ultima risorsa dei più disperati), è nelle misure di contrasto a questa via di accesso al territorio dell’Unione che si manifestano i maggiori problemi per una corretta tutela dei diritti fondamentali garantiti dalle norme europee e internazionali e dalla Costituzione italiana.

Ne fa testo da ultimo la citata condanna dell’Italia da parte delle Corte europea dei diritti umani nel caso Hirsi. Il fatto si riferisce al salvataggio, avvenuto in acque internazionali a sud di Lampedusa il 9 maggio 2009, da parte di vascelli della Guardia di finanza e della Guardia costiera italiani, di alcune imbarcazioni che trasportavano oltre duecento persone di origine eritrea, somala e in generale africana. Le imbarcazioni erano salpate dalla Libia. In esecuzione della politica dei respingimenti adottata dal Governo italiano e in conformità agli accordi bilaterali conclusi con la Libia, invece di trasportare i profughi verso le coste italiane, le navi militari li trasferirono a Tripoli, dopo un viaggio di oltre 10 ore, consegnandoli alle autorità libiche, senza accertare se vi fossero esigenze di protezione  internazionale. Per questo fatto la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia:  a) per una duplice violazione dell’art.3 della Convenzione europea dei dritti umani, l’aver esposto i ricorrenti al rischio di trattamenti inumani o degradanti in Libia e averli esposti al rischio di essere rinviati nei rispettivi Paesi di origine, dove avrebbero potuto subire trattamenti vietati dalla CEDU; b) per violazione dell’art. 4 Protocollo n.4 aggiunto alla CEDU, trattandosi di un’espulsione collettiva senza alcuna forma di esame delle situazioni individuali; c) per violazione dell’art.13 della CEDU per aver privato i ricorrenti della possibilità di far valere le loro ragioni davanti a un’autorità competente prima di eseguire la misura di respingimento.

La sentenza citata chiarisce pienamente quali siano attualmente le regole cui l’Italia (al pari degli altri Stati europei) deve attenersi in questa materia.

Le polemiche seguite alla tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013 hanno richiamato l’attenzione su tutta la normativa italiana in materia di immigrati e richiedenti asilo. In particolare sul “reato di clandestinità”, introdotto dalla Legge 15 luglio 2009, n. 94 (facente parte del c.d. pacchetto sicurezza), che punisce lo straniero che faccia ingresso o si trattenga sul territorio in condizione d’irregolarità con un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro e prevede la sanzione alternativa dell’espulsione, che però nulla aggiunge all’espulsione già prevista in via amministrativa. Sebbene la Corte Costituzionale abbia ritenuto legittima la norma in questione (sentenza n. 250 dell’8.7.2010) essa viene tuttavia  criticata sotto diversi punti di vista: perché punirebbe uno status personale anziché una condotta materiale; perché se n’è affidata la competenza al giudice di pace, mentre su questioni che incidono così profondamente sulla libertà personale garantita dalla Costituzione dovrebbe decidere il giudice ordinario; perché ha intasato gli uffici giudiziari già gravemente oberati con procedimenti che, quando arrivano a condanna, puniscono persone insolventi, e nulla aggiungono alle procedure amministrative di espulsione, mentre comportano elevati costi a carico dello Stato senza alcuna efficacia deterrente verso chi fugge per disperazione dal proprio paese né per chi si trovi ad essere “clandestino” per aver perso il lavoro e il permesso di soggiorno. Il 9 ottobre 2013 la Commissione giustizia del Senato ha approvato un emendamento a un disegno di legge riguardante percorsi riabilitativi alternativi al carcere, che prevede l’eliminazione del reato di immigrazione clandestina.

Spesso i problemi più gravi in queste materie si  manifestano nella gestione concreta delle misure adottate dal legislatore per l’assoluta inadeguatezza delle strutture, l’insufficienza dei mezzi e del personale. Numerosi episodi di insostenibile sovraffollamento e di inaccettabili umiliazioni delle persone che vi sono trattenute hanno riguardato anche di recente sia i Cie sia i Cara.

I Cie sono i Centri di identificazione ed espulsione (così definiti dal D.L.n. 92 del 23.5.2008) istituiti (come CTP, Centri di permanenza temporanea) dalla L. 40/1998 per trattenere gli stranieri “sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera” nel caso in cui il provvedimento non sia immediatamente eseguibile. A tutt’oggi i soggetti prigionieri nei CIE non sono considerati detenuti, e di norma vengono definiti ospiti della struttura, ma di fatto le loro condizioni non raramente sono persino peggiori di quelle delle carceri.

Una anomalia che spesso si riproduce anche riguardo ai Cara, che sono i Centri di accoglienza dei richiedenti asilo, ai quali questi vengono assegnati, quando sia necessario verificarne o determinarne la nazionalità ed essi non siano in possesso di documenti di viaggio o di identità (art.20, co.2 D.Lgs 25/08). Il fatto che la gestione di questi Centri sia affidata a privati,cooperative, società nate per l’occasione, ma anche multinazionali, comporta il rischio che sia le condizioni materiali di accoglienza sia il rispetto dei diritti delle persone che vi soggiornano non siano adeguatamente garantiti.

 

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