Cassazione civile sezione lavoro sentenza 15 novembre 2012 n 20016
Il licenziamento per esigenze di riorganizzazione aziendale è illegittimo se manca il presupposto fondamentale, ossia la presunta difficoltà a trovare un lavoratore part-time per solo centoventi minuti al giorno.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIDIRI Guido – Presidente
Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere
Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere

ha pronunciato la seguente sentenza

sul ricorso 13396/2008 proposto da (OMISSIS) S.R.L., in persona del legale rappresentante pro
tempore, gia’ elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato
(OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in
atti e da ultimo domiciliata, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE;
– ricorrente –
contro (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato
(OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in
atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 574/2007 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il
15/05/2007, r.g.n. 662/05;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2012 dal Consigliere
Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che
ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di Appello di Firenze, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la
domanda di (OMISSIS), proposta nei confronti della societa’ (OMISSIS), avente ad oggetto
l’impugnativa dei licenziamento intimatole da detta societa’ in ragione del rifiuto di svolgere
attivita’ lavorativa a tempo pieno come richiesto per esigenze organizzative aziendali.
La Corte del merito ponendo a base del decisum la massima di questa Corte, di cui alla
sentenza n. 9130 del 2010, riteneva che il motivo oggettivo di licenziamento, ai sensi della
Legge n. 604 del 1966, articolo 3, richiedeva che le ragioni inerenti all’attivita’ produttiva
siano tali, nella loro oggettivita’ e non in forza di un atto del datore di lavoro che presenti
margini di arbitrarieta’, da determinare, con stretto nesso di consequenzialita’,
l’inutilizzabilita’ della posizione lavorativa. Conseguentemente, affermava la predetta Corte,
le esigenze produttive sopravvenute, lungi dall’implicare la soppressione della posizione
lavorativa, imponendone invece il potenziamento escludevano la sussistenza di un giustificato
motivo oggettivo a fronte di un rifiuto del lavoratore (anteriore alla specifica disciplina dettata
al riguardo dal Decreto Legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, articolo 5, che ne escludeva
espressamente la configurabilita’) di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in
rapporto a tempo pieno, essendo in tal caso il licenziamento dovuto ad una determinazione
dell’imprenditore di preferenza, per mera convenienza economica, del rapporto a tempo pieno
in luogo di una pluralita’ di rapporti a tempo parziale.
Avverso questa sentenza la societa’ ricorre in cassazione sulla base di cinque motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va respinta l’eccezione, sollevata da parte resistente, d’inammissibilita’ del
ricorso prospettata in ragione, e della omessa indicazione dell’identita’ de soggetto che
rappresenta la societa’, e della mancata specificazione nella procura del ruolo della persona
che ha conferito il mandato.
Infatti secondo questa Corte nel ricorso per cassazione proposto da persona giuridica, la
mancata indicazione, rispetto alla persona fisica che abbia sottoscritto la procura in calce – pur
specificata nella sua identita’-, della qualifica che le attribuisca la rappresentanza legale della
persona giuridica determina – ove tale elemento non sia desumibile neanche da altri atti del
processo – la nullita’ della procura e quindi l’inammissibilita’ del ricorso (per tutte V. Cass.
S.U. 28 aprile 1999 n. 276).
Nella specie dagli atti del giudizio ed in particolare dalla sentenza di appello e dal ricorso in
appello si desume che il legale rappresentante della societa’ attuale ricorrente e’ (OMISSIS) il
quale firma la procura a margine del ricorso per cassazione. Con il primo motivo la societa’, deducendo violazione di legge e di norme collettive con
riferimento alla clausola n. 5, comma 2, della Direttiva 97/81 CE e alla Legge n. 604 del 1966,
articolo 3, pone il seguente quesito: se l’aver sostenuto, da parte della Corte di Appello di
Firenze, che il licenziamento intimato all’appellata non sarebbe giustificato dalla necessita’ di
utilizzare una unita’ lavorativa a tempo pieno, non essendo esigibile il ricorso ad un ulteriore
rapporto part-time in considerazione della difficolta’ di reperire una prestazione lavorativa per
sole due ore giornaliere, sia per ragioni economiche sia per non perdere la professionalita’
della dipendente assunta in sostituzione della medesima appellata, comporti la violazione e/o
erronea applicazione della clausola n. 5, comma 2, della Direttiva 97/81 CE ritenuta in linea
con la richiamata massima della sentenza n. 9310/2001 di codesto Supremo Collegio e della
Legge n. 604 del 1966, articolo 3″.
Con la seconda censura la societa’ ricorrente, denunciando violazione di legge e di norme
collettive in relazione alla Legge n. 604 del 1966, articolo 3, formula il seguente quesito: “se
laddove risulti provato che le esigenze aziendali comportino la necessita’ di una prestazione di
lavoro a tempo pieno e questa non possa essere offerta dalla lavoratrice part-time in presenza
di difficolta’ obiettive di reperire una seconda prestazione di lavoro part time in misura di due
ore al giorno, costituisca violazione della Legge 15 luglio 1966, n. 604, articolo 3, l’aver
ritenuto illegittimo il licenziamento comunicato per giustificato motivo oggettivo a fronte del
rifiuto della lavoratrice di trasformare il proprio orario di lavoro da full time a part time”. Con
la terza critica la societa’ prospetta vizio di motivazione della sentenza impugnata.
Con il quarto motivo la societa’ ricorrente, allegando violazione di legge e di norme collettive in
relazione alla Legge n. 604 del 1966, articolo 3 ed agli articoli 115, 421 e 437 c.p.c., e
conseguente omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, pone il seguente quesito: “se
costituisca violazione degli articoli 115, 421 e 437 c.p.c., il fatto di non aver valutato una
circostanza acquisita agli atti che sulla base della comune esperienza, avrebbe consentito al
Giudice di merito di pervenire ad altra decisione rispetto a quella attuata”.
Con l’ultima censura la societa’ ricorrente, assumendo violazione di legge e di norme collettive
con riferimento all’articolo 41 Cost., formula il seguente quesito di diritto:” se, l’aver ritenuto
da parte della Corte di Appello di Firenze – omissis – che, allorquando le esigenze produttive
sopravvenute, lungi dall’implicare la soppressione della posizione lavorativa ne impongano,
invece, il potenziamento, non sussiste il giustificato motivo oggettivo di licenziamento a fronte
di un rifiuto del lavoratore di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in
rapporto a tempo pieno, essendo, in tal caso, il recesso datoriale dovuto ad una determinazione
dell’imprenditore di preferenza, per mera convenienza economica, del rapporto di lavoro a
tempo pieno in luogo di una pluralita’ di rapporti a tempo parziale, limiti l’autonomia dell’imprenditore medesimo nella gestione della propria azienda comportando ergo violazione
dell’articolo 41 Cost.”.
Preliminarmente rileva la Corte che, come ribadito di recente anche da Cass. S.U. 5 luglio
2011 n. 14661, il quesito di diritto, previsto dall’articolo 366 bis c.p.c., ha lo scopo precipuo di
porre in condizione la Cassazione, sulla base della lettura del solo quesito, di valutare
immediatamente il fondamento della dedotta violazione (Cass. 8 marzo 2007 n. 5353) ed a tal
fine e’ imposto ai ricorrente di indicare, nel quesito, anche l’errore di diritto della sentenza
impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759), in modo
tale che dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in maniera
univoca l’accoglimento od il rigetto del ricorso ( Cass. S.U. 28 settembre 2007 n. 20360).
In tale prospettiva questa Corte ha affermato che, a norma dell’articolo 366 bis c.p.c., non
potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo,
pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo, e’ inammissibile il motivo di ricorso per
cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto,
priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilita’ alla
fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso
voluto dal ricorrente, (Cass. S.U. 11 marzo 2008 n. 6420); ovvero quando, essendo la
formulazione generica e limitata alla riproduzione del contenuto del precetto di legge, e’
inidoneo ad assumere qualsiasi rilevanza ai fini della decisione del corrispondente motivo,
mentre la norma impone al ricorrente di indicare nel quesito l’errore di diritto della sentenza
impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759 cit.).
Pertanto questa Corte ha rimarcato che il quesito di diritto di cui all’articolo 366 bis epe deve
comprendere l’indicazione sia della regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del
diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in
sostituzione del primo con la conseguenza che la mancanza anche di una sola delle due
suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile (Cass. SU 30 settembre 2008 n. 24339 e
Cass. 19 febbraio 2009 n. 4044).
Ne’ puo’ ritenersi soddisfi la prescrizione di cui all’articolo 366 bis c.p.c., la mera indicazione
del fatto su cui si appunta la critica concernente il vizio di motivazione, atteso che oltre al
mero fatto il ricorrente deve indicare, in una sintesi riassuntiva simile al quesito di diritto, le
ragioni che rendono, in caso d’insufficienza, inidonea la motivazione a giustificare la decisione,
in caso di omissione, decisivo il difetto di motivazione e in caso di contraddittorieta’, non
coerente la motivazione (Cfr. Cass. 25 febbraio 2009 n. 4556, Cass. S.U. 18 giugno 2008 n.
16528 e Cass. S.U. 1 ottobre 2007 n. 2063).
Cosi’ ancora, il ricorso per cassazione nel quale si denunzi no con un unico articolato motivo
d’impugnazione vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto, e’ bensi’ ammissibile, ma esso deve concludersi “con una pluralita’ di quesiti, ciascuno dei. quali contenga un rinvio
all’altro, al fine di individuare su quale fatto controverso vi sia stato, oltre che un difetto di
motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto (Cass. S.U. 5 luglio 201J n.
14661).
Ne’ puo’ demandarsi a questa Corte di estrapolare dai singoli quesiti di diritto e dalla parte
argomentativa quali passaggi siano riferibili al vizio di motivazione e quali al violazione di
legge, diversamente sarebbe elusa la ratio dell’articolo 366 bis c.p.c..
Nella specie rileva la Corte che LI terzo motivo del ricorso, con il quale si deduce vizio di
motivazione non e’ accompagnato da alcuna sintesi riassuntiva, ed il quarto motivo pur
contenendo la contemporanea deduzione della violazione di legge e del vizio di motivazione si
conclude con un solo quesito sicche’ non consente, in difetto di una pluralita’ di quesiti,
d’individuare quali siano le critiche riferibili alla violazione di legge e quali al vizio di
motivazione.
Conseguentemente i richiamati motivi vanno ritenuti inammissibili per violazione dell’articolo
366 bis c.p.c..
Tanto premesso rileva il Collegio che tutte le altre censure sono infondate.
Invero le stesse muovono dal presupposto “della inesigibilita’ del ricorso ad un ulteriore
rapporto part-time in considerazione della difficolta’ di reperire una prestazione lavorativa per
solo due ore giornaliere”. Tuttavia tale presupposto non risulta affatto accertato nella
sentenza impugnata. Conseguentemente non possono trovare ingresso in questa sede le
censure in esame che, rivendicando la detta inesigibilita’, contestano la correttezza giuridica
della soluzione adottata dal giudice di appello.
Peraltro questa Corte ha gia’, condivisibilmente, affermato che ,in tema di lavoro a tempo
parziale, il tenore inequivocabile del Decreto Legge 30 ottobre 1984, n. 726 articolo 5, comma
4, convertito con modificazioni dalla Legge 19 dicembre 1984, n. 863 – che vietava la
prestazione di lavoro supplementare rispetto a quello concordato, salvo diversa previsione dei
contratti collettivi, anche aziendali, espressamente giustificata con riferimento a specifiche
esigenze organizzative – esclude, con riguardo al periodo anteriore alla sua abrogazione da
parte del Decreto Legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, articolo 12, la possibilita’ di attribuire
rilievo, sul piano interpretativo, alla direttiva CE n. 97/81 del Consiglio, del 15 dicembre 1997,
alla quale non puo’ d’altronde riconoscersi, anteriormente all’attuazione da parte del Decreto
Legislativo n. 61 cit., efficacia diretta nei rapporti tra privati (c.d. efficacia orizzontale),
essendo detta efficacia limitata, per le direttive comunitarie sufficientemente precise ed
incondizionate, ai rapporti tra autorita’ dello Stato inadempiente e i soggetti privati (ed.
efficacia verticale) ( Cass . 14 settembre 2009 n. 19771). Cosi’ come ha, altresi’, ritenuto che nell’ipotesi di licenziamento motivato da determinate
esigenze relative ad una riorganizzazione aziendale finalizzata ad una piu’ economica gestione
mediante la trasformazione di alcuni rapporti da tempo pieno a tempo parziale, ai fini della
sussistenza o meno del giustificato motivo obiettivo di recesso nel caso di rifiuto della
trasformazione, rileva la presenza delle cosiddette clausole elastiche, che (ora legittime a
determinate condizioni secondo il Decreto Legislativo n. 61 del 2000) erano vietate ai sensi del
Decreto Legge n. 726 del 1984, articolo 5 (convertito nella Legge n. 863 del 1984), applicabile
“ratione temporis”, il quale – nel quadro di una rigorosa predeterminazione della collocazione
temporale dell’orario di lavoro – escludeva la possibilita’ di attribuire al datore di lavoro la
facolta’ di disporre unilateralmente variazioni dei tempi della prestazione (Cass. 16 luglio
2005 n. 14215). D’altro canto se, ai fini della legittimita’ del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, vi deve essere anche uno stretto nesso di consequenzialita’ e necessita’ tra
esigenze produttive ed eliminazione del rapporto lavorativo, tanto comporta che la sussistenza
di tale nesso e’ sottoposta alla verifica giudiziale la quale pero’, non intacca l’autonomia
dell’imprenditore, in quanto egli rimane pur sempre libero di assumere le scelte -insindacabili
nella loro opportunita’ – ritenute maggiormente idonee ai fini della gestione dell’impresa.
In altri termini quello che viene in considerazione, ai fini di cui trattasi, non e’ l’opportunita’
della determinazione datoriale, quanto piuttosto l’effettivita’ della ragione posta a fondamento
della scelta e il nesso di questa con il singolo rapporto di lavoro coinvolto dalla scelta.
Sulla base delle esposte considerazioni il ricorso, in conclusione, va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimita’ seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore di ciascun
resistente della somma di euro 40,00 per esborsi, oltre euro 3.000,00 per onorario ed oltre
I.V.A., C.P.A. e spese generali.

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