Cassazione penale sezione I sentenza 20 aprile 2012 n 15251
Reati transnazionali, pubblico ministero, attività investigativa, limiti, esclusione

La prima sezione penale
(Presidente Giordano – Relatore Cassano)

Ritenuto in fatto
1. Il 28 gennaio 2011 la Corte d’appello di Reggio Calabria
rigettava l’opposizione proposta da G..P. e, nella qualità di
terzi interessati, da P.M.G.R. e M. avverso il provvedimento di
confisca (art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992) di beni immobili
intestati acquistati da P. o dalla s.r.l. “Pre. Ri. Co.”, o intestati a
P.M.G.R., a M. (fratello di G.), di beni mobili, della s.r.l.
“Prematica” (amministratore unico M.G.R., moglie di G..P.),
nonché della quota di partecipazione di P.G. al consorzio
“Cogemat con sede a xxxxxx, disposto dalla medesima
Autorità giudiziaria il 31 gennaio 2007 nei confronti di G..P.,
condannato con sentenza della Corte d’appello di Reggio
Calabria del 23 maggio 2003 (definitiva il 2 novembre 2004)
alla pena di sei anni, due mesi e venti giorni di reclusone in
relazione al delitto di associazione per delinquere finalizzata al
traffico di sostanze stupefacenti.
Con il provvedimento opposto veniva accolta la richiesta di
estensione del sequestro preventivo a beni ulteriori rispetto a
quelli oggetto della precedente richiesta formulata dal
Procuratore generale il 28 aprile 2007 (limitata agli immobili
posti in Rosarno e contraddistinti, rispettivamente, dalla part.
787 sub 1 piano terra e 787 sub 2 a f. 20 del catasto, dalla
part. 756 sub 2 a f. 21, dalla part. 1107 sub 1 del f. 20, dalla
part. 13 sub 15 piano terra categ. D/8 sub 47 piano terra cat.
C/6 sub 48 cat. C/6 del f. 1 del catasto) e veniva disposta la
confisca degli ulteriori beni indicati nel decreto impugnato.
La Corte, dopo avere respinto numerose eccezioni preliminari
formulate dalla difesa, osservava che l’accoglimento della
originaria richiesta avanzata dal Procuratore generale e di
quella successivamente proposta si fondava sulla condanna
definitiva di P. in ordine al delitto di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309
del 1990, sulla intestazione fittizia alla moglie e al fratello,
nonché alla s.r.l. “Pre.Ri.Co” dei beni, ritenuti riconducibili al
condannato per interposta persona, sulla accertata
sproporzione del valore dei beni stessi rispetto al reddito
dichiarato negli anni da G..P. (detenuto ininterrottamente – salva una parentesi tra il 15 maggio 2000 e il 5 luglio 2000

dall’8 marzo 2000 al 19 maggio 2005), dedito in maniera stabile e duratura ad ingenti traffici di sostanze stupefacenti a
partire dal 1998, nonché dalla moglie M.G.R.
2. Avverso il suddetto provvedimento hanno proposto ricorso
per cassazione, tramite i due comuni difensori di fiducia che
hanno redatto distinti atti di impugnazione, P.G., M.R., M.P.
L’avv. Carmela Pirrottina, difensore di P.G. e M. e di M.G.R. ,
denuncia, anche mediante una memoria difensiva,
inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e
carenza della motivazione in ordine ai profili oggetto delle
memorie difensive depositate nel corso del procedimento,
concernenti, in particolare, la congruità tra i redditi dichiarati
e/o comunque prodotti e gli esborsi sostenuti dai ricorrenti in
relazione ai singoli beni, sottolineando che l’elaborato peritale
a firma del dr S. ha omesso di considerare che: a) l’immobile
posto in xxxxxx era stato acquistato all’esito dell’esercizio di un
diritto di prelazione ed era stato comprato allo stesso prezzo
risultante nell’atto di compravendita; b) per l’immobile situato
in (omissis), il mutuo era stato contratto con solo per l’acquisto
del bene, ma anche per la sua ristrutturazione (peraltro non
realizzata) ed era stato garantito dalla s.r.l. “Fidart Calabria”
da ipoteca gravante sul bene e da Maria Grazia Rachele, già
titolare di beni immobili; c) per l’immobile di R. il tecnico
incaricato dal custode degli immobili sottoposti a sequestro
aveva ritenuto congruo il relativo prezzo di acquisto; d) la
difesa aveva contestato, nell’ambito delle memorie e delle
note redatte dal consulente di parte dr A.N. (la cui audizione
in contraddittorio con il perito d’ufficio veniva
immotivatamente respinta), l’applicazione rigorosa degli indici
Istat – non potendo gli stessi considerarsi come dati certi in
assenza di indagini sul tenore di vita del nucleo familiare – e le
modalità di calcolo e aveva confutato in maniera specifica
l’esistenza di un rapporto di sproporzione del valore dei beni
rispetto al reddito e alle attività economiche dell’interessato;
e) per l’immobile di (omissis), non essendo stato il prezzo
ancora pagato, era impossibile effettuare la necessaria
verifica tra il reddito e i costi che, negli anni successivi, la s.r.l.
“Pre.Ri.Co” aveva dovuto sopportare per onorare gli impegni
assunti e, in ogni caso, l’utile netto di esercizio della sala giochi
(omissis) era superiore a quello ritenuto dal perito.
L’avv. Managò, anch’egli difensore di fiducia di P.G. e M. e di
M.G.R. lamenta, anche mediante una memoria difensiva,
violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla
ritenuta insussistenza della preclusione processuale, che
invece si configura sotto due profili. Il giudice per le indagini
preliminari, all’esito del giudizio abbreviato nel cui ambito il

pubblico ministero aveva chiesto la condanna dell’imputato e
il sequestro e la confisca dei beni e la difesa del ricorrente
aveva prodotto documentazione patrimoniale per
contrastare la richiesta dell’Ufficio di Procura (v. verbale di
udienza), aveva deciso implicitamente, respingendola, in
merito alla richiesta ablativa. Inoltre, il Tribunale di Reggio
Calabria aveva respinto la richiesta di applicazione di misura
di prevenzione personale e patrimoniale avanzata dalla
Procura distrettuale di Reggio Calabria nei confronti di G.P.,
prendendo in esame il procedimento penale relativo al delitto
di cui all’art. 74 d.p.r. n. 309 del 1990, instaurato nei confronti
del predetto, e aveva disatteso la richiesta di confisca dei
beni di P. e del suo nucleo familiare con la logica
conseguenza che, almeno sino all’anno 2004, l’acquisizione
dei beni e delle società era da ritenersi lecito. Pertanto i
giudici dovrebbe dovuto nettamente distinguere tra i beni e le
società acquisiti prima dell’anno 2004 e quelli acquistati in
epoca successiva.
Lamenta poi illogicità della motivazione, in quanto non è stata
disposta la confisca della società “Pre.ri.co”, mentre è stata
ordinata la confisca dei beni acquistati dalla predetta società
(appartamento posto in via (omissis)) e dei locali di (omissis),
ove è situato il (omissis).
Eccepisce, inoltre, violazione degli artt. 3, 11 e 12 della l. n. 146
del 2006, essendo stati utilizzati, ai fini della confisca, gli esiti
degli accertamenti svolti dal pubblico ministero senza
l’osservanza del limite temporale fissato dall’art. 430 c.p.p.
Lamenta, altresì, erronea applicazione della legge penale
con riguardo alla ritenuta sussistenza di un rapporto di
sproporzione tra i redditi dichiarati e le altre attività
economiche svolte dai ricorrenti e gli investimenti dagli stessi
realizzati, atteso che il ragionamento contenuto nei
provvedimento impugnato si fonda su presunzioni o sulla
valorizzazione esclusiva dell’elaborato peritale d’ufficio con
totale pretermissione dei rilievi formulati dalla difesa con le
memorie ritualmente depositate e della documentazione ad
esse allegate, nonché delle valutazioni svolte dal custode
giudiziario (dott.ssa Po. ) e dal consulente di parte.

Osserva in diritto
I ricorsi non sono fondati.
1. Con riguardo al primo motivo di censura prospettato nel
ricorso a firma dell’avv. Managò, il Collegio osserva quanto
segue.

Il principio del ne bis in idem permea l’intero ordinamento
giuridico e fonda il preciso divieto di reiterazione dei
procedimenti e delle decisioni sull’identica regiudicanda, in
sintonia con le esigenze di razionalità e di funzionalità
connaturate al sistema. A tale divieto va, pertanto, attribuito, il
ruolo di principio generale dell’ordinamento dal quale, a
norma del secondo comma dell’art. 12 delle preleggi, il
giudice non può prescindere quale necessario referente
dell’interpretazione logico-sistematica. Il divieto di
duplicazione dei processi nei confronti della stessa persona in
relazione al medesimo fatto-reato non è espressamente
recepito nella Carta Costituzionale anche se nei lavori
dell’Assemblea costituente si discusse dell’opportunità di
costituzionalizzare il divieto, ma è espressamente elevato al
rango di diritto civile e politico nei più importanti documenti
internazionali di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali. Si
richiama, in proposito, l’art. 4, par. I del VII Protocollo alla
Cedu, dove si afferma che “nessuno può essere perseguito o
condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato
per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a
seguito di una condanna definitiva conformemente alla
legge e alla procedura penale di tale Stato”. Si deve, peraltro,
sottolineare che nel predetto Protocollo sussistono alcune
eccezioni alla portata del principio, laddove si stabilisce che il
ne bis in idem non è di per sé impeditivo di una “revisione in
peius” “se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio
fondamentale della procedura antecedente sono in grado di
inficiare la sentenza” da cui scaturisce la preclusione (art. 4,
par. 2).
È affermato anche dall’art. 14, par. 7 del Patto internazionale
per i diritti civili e politici che, a sua volta, recita: “nessuno può
essere sottoposto a nuovo giudizio o a nuova pena per un
reato per il quale sia già stato assolto o condannato con
sentenza definitiva in conformità al diritto e alla procedura
penale di ciascun Paese”. Analoghe formulazioni, con
riferimento anche ai rapporti interstatuali, sono contenute
nell’art. 20 dell’I.C.C. St. e nell’art. 50 della Carta di Nizza, poi
trasfuso nell’art. 11-100 della Costituzione Europea.
La matrice del divieto del ne bis in idem deve essere
identificata nella categoria della preclusione processuale,
ben nota alla teoria generale del processo, sia civile che
penale. Ancor prima di esplicarsi quale limite estremo segnato
dal giudicato, la preclusione assolve la funzione di scandire i
singoli passaggi della progressione del processo e di regolare i
tempi e i modi dell’esercizio dei poteri delle parti e del giudice, dai quali quello sviluppo dipende, con la conseguenza che la
preclusione rappresenta il presidio apprestato
dall’ordinamento per assicurare la funzionalità del processo in
relazione alle sue peculiari conformazioni risultanti dalle scelte
del legislatore. Il processo, infatti, quale sequenza ordinata di
atti, modulata secondo un preciso ordine cronologico di
attività, di fasi e di gradi, è legalmente tipicizzato in
conformità di determinati criteri di congruenza logica e di
economicità procedimentale in vista del raggiungimento di
un risultato finale, nel quale possa realizzarsi l’equilibrio tra le
esigenze di giustizia, di certezza e di economia.
Questa impostazione teorica, comunemente accolta anche
dalla dottrina processuale penalistica, rende evidente che la
preclusione costituisce un istituto coessenziale alla stessa
nozione di processo, non concepibile se non come serie
ordinata di atti normativamente coordinati tra toro, ciascuno
dei quali – all’interno dell’unitaria fattispecie complessa a
formazione successiva – è condizionato da quelli che lo hanno
preceduto e condiziona, a sua volta, quelli successivi secondo
precise interrelazioni funzionali. L’istituto della preclusione,
attinente all’ordine pubblico processuale, è intrinsecamente
qualificato dal fatto di manifestarsi in forme differenti,
accomunate dal risultato di costituire un impedimento
all’esercizio di un potere del giudice o delle parti in
dipendenza dell’inosservanza delle modalità prescritte dalla
legge processuale, o del precedente compimento di un atto
incompatibile, ovvero del pregresso esercizio dello stesso
potere. In quest’ultima ipotesi la preclusione è normalmente
considerata quale conseguenza della consumazione del
potere. Nel perimetro della preclusione-consumazione ricade,
oltre all’esercizio dell’azione penale, anche il potere di ius
dicere ad opera del giudice, secondo quanto costantemente
affermato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte
(cfr. Sez. Un. 28 giugno 2005, n. 34655; Sez. Un. 14 luglio 2004, n.
36168; Sez. Un. 31 marzo 2004, n. 18339; Sez. Un. 29 maggio
2002, n. 28807; Sez. Un. 22 marzo 2000, n. 9; Sez. Un. 19 gennaio
2000, n. 1; Sez. Un. 23 febbraio 2000, n. 8; Sez. Un., 10 dicembre
1997, n. 17; Sez. Un. 31 luglio 1997, n. 10; Sez. Un. 18 giugno
1993, n. 19; Sez. Un. 8 luglio 1994, n. 2; Sez. Un. 23 novembre
1990, n. 373; Corte Cost., sent. n. 318 del 2001, n. 144 del 1999,
n. 27 del 1995).
Il ne bis in idem è, quindi, finalizzato ad evitare che per lo
“stesso fatto” (Sez. Un., 28 giugno 2005, n. 34655; Sez. I, 21 aprile
2006, n. 19787; Sez. II, 18 aprile 2008, n. 21035) si svolgano più
procedimenti e si adottino più provvedimenti anche non irrevocabili, l’uno indipendentemente dall’altro, e trova la sua
espressione in rapporto alle diverse scansioni procedimentali
disegnate dal legislatore.
In tale contesto le deduzioni difensive sono prive di pregio.
Infatti il giudice dell’esecuzione, con puntuale richiamo delle
emergenze processuali, ha evidenziato che non vi è alcuna
coincidenza (salvo che per il bene immobile posto in xxxxxxx,
part. 1107 di cui al foglio 20 del catasto) tra la richiesta di
confisca ex art. 12-sexies l. n. 356 del 1992 avanzata dal
pubblico ministero con l’atto in data 21 novembre 2001,
richiamato all’udienza preliminare del 22 novembre 2001, e il
provvedimento impugnato. In secondo luogo, con
spiegazione immune da vizi, ha messo in luce la circostanza
che il giudice per le indagini preliminari non ha adottato,
neppure implicitamente, alcuna decisione in tema di confisca
e che, pertanto, in assenza di un’espressa statuizione da parte
del giudice di merito, non sussistevano i presupposti per
ritenere configurarle la preclusione, intesa nel senso in
precedenza illustrato.
2. Alla luce dei principi in precedenza enunciati non sussiste
neppure la preclusione derivante, secondo la prospettazione
difensiva (cfr. secondo motivo del ricorso dell’avv. Managò),
dall’intervenuta decisione nell’ambito del procedimento di
prevenzione instaurato nei confronti di G..P. e conclusosi con il
rigetto della richiesta di applicazione della misura di
prevenzione personale e patrimoniale avanzata dal
Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria. Il
provvedimento impugnato, con iter argomentativo esente da
vizi logici e giuridici, ha evidenziato l’assenza di coincidenza
tra il decreto adottato nell’ambito del procedimento di
prevenzione e quello emesso in sede esecutiva sia sotto il
profilo soggettivo (atteso che al procedimento di prevenzione
sono rimasti estranei la moglie e il fratello del proposto, odierni
ricorrenti insieme con G..P. ) che sotto quello oggettivo,
considerata, relativamente a quest’ultimo aspetto, la parziale
diversità dei beni, risultando maggiori gli investimenti, anche
immobiliari, oggetto della domanda di confisca ex art. 12

sexies I. n. 356 del 1992, nel cui ambito viene in rilievo in
particolare l’immobile di (OMISSIS) il cui valore ha fatto
enormemente “lievitare” la sproporzione di detti investimenti
rispetto alle capacità economiche lecite, accertate in capo
a G.P.
L’ordinanza impugnata è, inoltre, esente da censure nella
parte in cui ha messo ulteriormente in luce la diversità
dell’intero thema decidendum, anche alla luce delle ulteriori indagini effettuate dall’Ufficio di Procura e confluite
nell’articolata richiesta formulata dalla Procura generale in
sede esecutiva, nonché la non riconducibilità alla posizione di
G.P., bensì a quella di Gi.Pi., delle considerazioni svolte in
merito alla legittima provenienza dei beni oggetto della
domanda di applicazione della misura di prevenzione
patrimoniale. A tale riguardo il giudice dell’esecuzione ha
evidenziato che il Tribunale della prevenzione aveva ritenuto
insussistente, nei confronti di G.P., il requisito della attuale
pericolosità sociale e che, solo in conseguenza di ciò, non
aveva proceduto al vaglio del requisito della sproporzione e
della legittima provenienza dei beni riconducibili al medesimo
direttamente o per interposta persona.
Le considerazioni sinora svolte consentono di ritenere priva di
pregio anche la censura difensiva di omessa distinzione, da
parte del giudice dell’esecuzione, tra acquisizione (legittima)
dei beni in epoca antecedente al 2004 e acquisto dei beni in
data posteriore.
3. Priva di pregio è anche la dedotta violazione degli artt. 3,
11 e 12 della l. 16 marzo 2006 n. 146 di ratifica ed esecuzione
della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il
crimine transnazionale (cfr. quarto motivo del ricorso a firma
dell’avv. Managò).
Ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 12 della l. n. 146
del 2006 il pubblico ministero può compiere, “nel termine e a i
fini di cui all’art. 430 del codice di procedura penale” ogni
attività di indagine che si renda necessaria circa i beni, il
denaro o le altre utilità soggette a confisca a norma dell’art.
11 in quanto costituenti il prodotto, il profitto o il prezzo di un
reato da considerare “transnazionale” a norma dell’art. 3 della
medesima legge.
Il chiaro ed univoco tenore letterale dell’art. 12 della l. 146 del
2006 consente di affermare che i limiti posti dalla norma allo
svolgimento degli accertamenti da parte del pubblico
ministero si riferiscono esclusivamente all’attività integrativa di
indagine (art. 430 c.p.p.) funzionale alla formulazione delle
richieste al giudice del dibattimento in vista dell’eventuale
adozione della confisca per equivalente (art. 11 l. n. 146 del
2006) o di una misura ablativa ex art. 12 sexies l. n. 356 del
1992. La previsione contenuta nell’art. 12 non può, quindi,
trovare applicazione al di fuori del processo di cognizione e
non può comportare, mediante una non consentita lettura
estensiva della norma, l’introduzione di limiti allo svolgimento,
in sede esecutiva, da parte del pubblico ministero di
accertamenti funzionali alla esatta individuazione dei beni del condannato e alla doverosa verifica circa la provenienza dei
beni di cui lo stesso disponga, anche per interposta persona, e
il rapporto di proporzione rispetto ai redditi dichiarati e
all’attività economica svolta.
La confisca ex art. 12-sexies l. n. 356 del 1992, già
positivamente scrutinata dal giudice delle leggi (Corte cost.,
ordinanza 29 gennaio 1996, n. 18) ha inteso inserire nel sistema
processuale una misura di sicurezza atipica che, sulla base di
predeterminati presupposti, aggredisce entità patrimoniali,
evocando una presunzione relativa d’ingiustificata
locupletazione, rispetto alla quale la tutela del bene.

patrimonio si affievolisce nel bilanciamento di valori che
privilegiano esigenze di soddisfacimento di istanze diffuse,
tese all’espropriazione di beni sottratti in maniera illecita alla
collettività, cui vanno restituiti, salvo giustificazione, una volta
eliminata con la condanna l’apparenza della disponibilità
legittima (Sez. Un. 30.5.2001, n. 29022). Il correlativo diritto di
difesa non va inteso in senso assoluto, ma va modulato
secondo l’oggetto del procedimento, essendo indubitabile la
differenza ontologica insita tra l’accertamento della
colpevolezza e l’applicazione di una misura di sicurezza
patrimoniale.
Il provvedimento impugnato ha fatto corretta applicazione di
questi principi, laddove ha argomentato l’inapplicabilità
dell’art. 12 della l. n. 146 del 2006 al caso in esame, in cui gli
accertamenti sono stati svolti in sede esecutiva dopo il
passaggio in giudicato (2 novembre 2004) della sentenza
pronunziata dalla Corte d’appello di Reggio Calabria nei
confronti di G.P., imputato del delitto di associazione a
delinquere finalizzata a traffici di sostanze stupefacenti (art. 74
d.P.R. n. 309 del 1990).
4.Parimenti infondate sono sia le ulteriore doglianze difensive
contenute nel ricorso a firma dell’avv. Managò che quelle
sviluppate nell’atto di ricorso a firma dell’avv. Pirrottina e nelle
rispettive memorie difensive.
Il giudice dell’esecuzione è pervenuto alla decisione di
respingere l’opposizione al decreto di confisca in base ad un
ben articolato percorso argomentativo, che lungi dal
valorizzare esclusivamente le risultanze le indagini svolte
dall’ufficio del pubblico ministero e l’elaborato peritale a firma
del Dott. S., univocamente indicativi della sproporzione
esistente tra il reddito dichiarato da G.P. e dai suoi familiari ed
il valore dei beni oggetto della richiesta di confisca, ha
valutato attentamente i molteplici rilievi difensivi e la
documentazione di parte prodotta. In tale ottica, con argomentazione immune da vizi logici e giuridici, ha spiegato
le ragioni per le quali non poteva tenersi conto, per ritenere
giustificata la provenienza dei beni o delle altre utilità,
dell’attività economica svolta da Pretti nel settore dei
videogiochi e non documentata in modo obiettivo e
incontrovertibile (Sez. Un. 17.12.2003, n. 920) e in presenza di
una illiceità originaria del comportamento che continuava a
dispiegare i suoi effetti ai fini della confisca (Sez. VI, 27.5.2003
n. 36762; Sez. V, 5 maggio 2000, n. 3203; Sez. VI, 22 marzo 1999,
n. 950; Sez. II, 6.5.1999, n. 2181).
Il giudice dell’esecuzione ha, inoltre, spiegato le ragioni per le
quali, pure alla luce dei rilievi difensivi e della documentazione
prodotta dalle parti, le conclusioni dell’articolato e completo
elaborato peritale del Dott. S. devono ritenersi del tutto
appaganti e logiche, tenuto conto della metodologia seguita
(stima dei beni immobili e delle partecipazioni societarie e alle
aziende acquisiti da P.G. e M. e M.G.R. a far data dal 1988;
ricostruzione degli investimenti effettuati dalla s.r.l. “Pre.Ri.Co”,
dalla s.a.s. “Pierre”e dalla s.r.l. “Prematica” sin dalla fase delle
rispettive costituzioni, avvenute nel 1997, nel 1993, nel 2006;
puntuale analisi, da parte del perito d’ufficio, della perizia
tecnico-contabile di parte a firma del dott. N., delle relazioni
del custodie giudiziario, Dott. Gi.Po., delle dichiarazioni dei
redditi del P., della R., della s.r.l.”Pre.Ri.Co”, dei coniugi P.M. e
D.F., delle informazioni reddituali acquisite presso i competenti
uffici).
Il giudice dell’esecuzione ha, inoltre, sottolineato il rigore del
metodo seguito dal perito che, per gli anni in esame, ha dato
conto dei redditi prodotti dai singoli soggetti, dei redditi
d’impresa e dei redditi di partecipazione in società di persone,
degli oneri deducibili (quote di muto e contributi
previdenziali), dell’imposta netta, del reddito effettivamente
spendibile, e ha preso in debita considerazione le osservazioni
difensive alla luce delle quali ha tenuto conto degli utili
societari non distribuiti della s.r.l. “Pre.Ri.Co”, sommando tali utili
ai redditi personali dei soggetti interessati dall’accertamento.
L’ordinanza impugnata ha, poi, messo in luce il fatto che il
perito ha valutato i finanziamenti di terzi per mutui o per
affidamento di conto corrente, i relativi costi e i successivi
rientri, passando quindi alla vantazione dell’importo necessario
per il sostentamento della famiglia P. , composta da due
percettori di reddito (G.P. e la moglie, M.G.R. ) e da tre figli a
carico e attingendo, al pari del consulente di parte, ai dati
Istat.

Contrariamente all’assunto difensivo, il provvedimento
censurato ha puntualmente ricostruito tutte le vicende
relative: a) all’acquisto, da parte di G.P., immobile posto in
(omissis) e all’accensione del mutuo; b) all’acquisto, ad opera
della R., dell’immobile di Ricadi (peraltro non oggetto di
confisca), le cui vicende sono state motivamente ritenute
rilevanti ai fini della delineazione del modus operandi; c) alla
compravendita dell’immobile di (omissis) , acquistato dalla R.,
la cui parte locataria, il 22 marzo 2004, effettuava in favore
della minorenne M.P., figlia di G., la donazione di un immobile
con relative pertinenze, posto in (omissis), simulante un vero e
proprio atto di investimento della famiglia P.; d) all’acquisto,
da parte della s.r.l. “Pre.Ri.Co”, dell’immobile di (omissis) in cui
era situata l’azienda “(omissis)”, alle modalità del relativo
prezzo, all’accensione del mutuo assistito da ipoteca su detto
immobile, nonché alla correlate vicende societarie con
conseguente distribuzione delle cariche, agli investimenti
effettuati in attrezzature e arredi, ai bilanci di esercizio della
“(omissis) “.
Dopo tale complessa analisi, il giudice dell’esecuzione, con
motivazione immune da vizi logici e giuridici, ha osservato che
tali cospicui investimenti non trovavano, pur tenendo conto di
tutti i rilievi difensivi, un’obiettiva giustificazione nella situazione
reddituale dei soggetti controllati e che esisteva un’obiettiva
sproporzione tra il valore dei suddetti beni e i redditi dichiarati
dai ricorrenti.
Ha, infine, argomentato che non era ravvisabile alcuna
contraddittorietà riconducibile al fatto che la confisca non ha
riguardato la s.r.l. “Pro.Ri.Co”, costituita nel 1997, atteso che la
misura reale ha piuttosto colpito i maggiori investimenti dalla
stessa operati (acquisto dell’immobile di (OMISSIS) e
dell’attrezzatura del “(omissis) ” e acquisto dell’immobile posto
in (omissis)), trattandosi di un’entità economica direttamente
riconducibile a G.P.
Sulla base di quanto sin qui esposto è agevole rilevare che le
prospettazioni difensive in ordine a pretese carenze
argomentative dell’ordinanza impugnata si risolvono, in
definitiva, in una sostanziale “rilettura” degli elementi di fatto,
condotta in base a dati ritenuti motivatamente poco
attendibili dal giudice dell’esecuzione, che risulta preclusa in
sede di legittimità e sono volte a sollecitare una non
consentita diversa lettura delle emergenze processuali in
presenza di un complessivo apparato argomentativo sorretto
da una completa, solida e coerente motivazione, fondata
sulla scrupolosa analisi di tutto il materiale acquisito anche su iniziativa di parte e sulla confutazione dei rilievi formulati dagli
opponenti.
Al rigetto dei ricorsi consegue di diritto la condanna dei
ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali.

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