Cassazione penale sezioni unite ordinanza 10 settembre 2012 n 34473
Custodia cautelare in carcere.

Le sezioni unite penali
Presidente Lupo – estensore Romis

Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Palermo, in funzione di giudice dell’appello
cautelare, accoglieva, con provvedimento del 14 ottobre
2011 – dep. il 2 novembre successivo – l’impugnazione
proposta dal pubblico ministero avverso l’ordinanza del 26
settembre 2011, con la quale il Giudice per le indagini
preliminari del medesimo Tribunale aveva applicato la misura
cautelare degli arresti domiciliari, in luogo di quella della
custodia carceraria inizialmente disposta, nei confronti di L.M.,
condannato in esito a giudizio abbreviato per il reato di
favoreggiamento personale aggravato dalla circostanza di
cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, così riqualificata l’originaria
imputazione di partecipazione ad un’associazione di tipo
mafioso.
Il Tribunale, dopo aver rilevato che anche per i reati aggravati
secondo la previsione di cui all’art. 7 del citato decreto opera
la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in
carcere, al sensi dell’art. 275 c.p.p., comma 3, concludeva nel
senso che detta misura non poteva essere sostituita, in corso
di esecuzione, con altra meno afflittiva.
2. Avverso detta ordinanza ricorre per cassazione, per mezzo
del difensore, il L., deducendo violazione di legge e difetto di
motivazione con argomentazioni che possono così
sintetizzarsi: a) la sentenza di condanna ha riqualificato il fatto,
evidenziando l’assenza di significativi contatti del L. con la
consorteria mafiosa; b) la recente giurisprudenza
costituzionale ha individuato, nelle presunzioni di
adeguatezza, aspetti della disciplina processuale contrastanti
con il principio di uguaglianza, ove non rispondano a “dati di
esperienza generalizzati”; c) la presunzione di adeguatezza,
nel caso di specie, sarebbe irragionevole, stante l’assenza di
collegamenti con la criminalità organizzata di tipo mafioso; d)
l’ordinanza impugnata non avrebbe valutato le deduzioni
difensive circa la prospettata insussistenza dei presupposti per
l’adozione di misure cautelari.
Con atto successivo, il ricorrente, per mezzo di altro difensore,
ha depositato motivi nuovi con i quali, richiamato il contrasto
giurisprudenziale in materia e dedotta la necessità di una rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, ha sottolineato il
carattere eccezionale della disposizione contenuta nell’art.
275 c.p.p., comma 3, e, dunque, l’impossibilità di farne
oggetto di interpretazione estensiva e di applicazione
analogica per regolare anche le ipotesi diverse da quella
della primigenia applicazione della misura e quindi le vicende
successive del regime cautelare.
3. La Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato
assegnato in relazione ai criteri tabellari, con ordinanza n. 7586
dei 14 febbraio 2012, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite,
rilevando un contrasto circa resistenza o meno di un
automatismo legale in riferimento anche al perdurare della
presunzione legale di pericolosità in ordine ai delitti di matrice
mafiosa.
Con decreto del 29 febbraio 2012, il Primo Presidente ha
disposto la restituzione del procedimento alla Seconda
Sezione Penale per una nuova vantazione circa la sussistenza
e attualità del denunciato contrasto, alla luce del principio di
diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, n. 27919
del 31/03/2011, Ambrogio, secondo cui “anche nel momento
della sostituzione della misura cautelare giocano le
presunzioni” di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3; “una diversa
soluzione, evidentemente, renderebbe del tutto irrazionale il
sistema”.
In merito a detto decreto presidenziale la difesa del ricorrente
ha depositato note, osservando, tra l’altro, che, a suo avviso,
la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in
carcere potrebbe trovare giustificazione soltanto nei casi di
condotte di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso e
non anche nei casi di addebiti qualificati dalla circostanza
aggravante di cui al citato art. 7: ha chiesto quindi la
rimessione della questione alla Corte Costituzionale. Con
ordinanza del 18 aprile 2012, dep. l’11 maggio successivo, la
Seconda Sezione Penale, pur dopo il decreto del Primo
Presidente di restituzione del procedimento – di cui sopra si è
detto – ha nuovamente rimesso il ricorso del L. alle Sezioni
Unite, rilevando che, alla luce della recente giurisprudenza
costituzionale sull’art. 275 c.p.p., comma 3, il momento
genetico di applicazione della misura cautelare e le vicende
successive del titolo dovrebbero essere autonomamente
considerati in riferimento alla ragione che giustifica la deroga
alla disciplina ordinaria prevista per i procedimenti di mafia.
La massima di esperienza, secondo cui il vincolo di
appartenenza a un sodalizio criminoso può essere interrotto
soltanto dalla misura cautelare della custodia in carcere, sarebbe altamente persuasiva in riferimento al momento
applicativo, non così relativamente al periodo successivo,
proprio perchè il vincolo associativo sarebbe stato nel
frattempo contrastato dall’applicazione della misura. La
parificazione dei due momenti ai fini della presunzione legale
di adeguatezza non risulterebbe allora giustificata secondo il
criterio della ragionevolezza. Peraltro, non sembrerebbe
ragionevole l’estensione di questo trattamento derogatorio,
dagli addebiti cautelari di appartenenza ad associazioni di
tipo mafioso, agli addebiti per qualsivoglia delitto che sia
soltanto aggravato dall’uso del metodo mafioso o dalla
finalità di agevolazione di un’associazione mafiosa, secondo
la previsione di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, perchè in tali
ultime ipotesi non sarebbe ravvisabile la necessità di recidere
un vincolo nemmeno contestato.
4. Con decreto del 14 maggio 2012, il Primo Presidente ha
assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando l’odierna
udienza per la trattazione in camera di consiglio.
5. In data 3 luglio 2012 sono state depositate ulteriori note
difensive da uno dei difensori, con le quali sono state
richiamate tutte le precedenti argomentazioni svolte con il
ricorso e con i motivi nuovi, ed è stato inoltre evidenziato
quanto segue: a) con la recente sentenza n. 110 del 2012, la
Corte Costituzionale ha sottolineato che le precedenti
declaratorie di incostituzionalità concernenti l’art. 275, comma
3, del codice di rito, non possono estendersi alle altre
fattispecie criminose ivi disciplinate e che la lettera della
norma impugnata – il cui significato non può essere valicato
neppure per mezzo dell’interpretazione costituzionalmente
conforme – non consente in via interpretativa di conseguire
l’effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale
può produrre: in proposito, il difensore ha pertanto richiamato
la questione di legittimità costituzionale della normativa di
riferimento quale già prospettata con le precedenti note; b)
la imputazione originariamente elevata a carico del L. è stata
poi derubricata in favoreggiamento personale aggravato dal
D.L. n. 152 del 1991, art. 7, con conseguente riconosciuta
estraneità del L. stesso alla compagine associativa mafiosa:
vengono quindi riprese le argomentazioni della Corte
Costituzionale circa le presunzioni assolute e si osserva che,
quanto al L., la presunzione di adeguatezza della più grave
misura cautelare rimarrebbe collegata all’aggravante ritenuta
in sentenza; c) nel ritenere giustificato il regime derogatorio in
rapporto ai delitti di mafia, la Corte Costituzionale ha in
particolare valorizzato l’appartenenza del soggetto ad associazioni mafiose, situazione non riscontrabile nel caso del
L. in conseguenza della derubricazione del reato; d) nel corso
della vicenda cautelare andrebbe sempre verificata ed
assicurata la conformità della misura ai principi di
adeguatezza e proporzionalità, potendo il giudice disporre,
nel prosieguo, di elementi di valutazione delle esigenze
cautelari diversi da quelli presenti al momento
dell’applicazione della misura restrittiva: ed in proposito si
sostiene che, diversamente opinando, ci si porrebbe in
contrasto con i principi affermati dalla Corte Costituzionale
nelle numerose sentenze in materia nonchè con l’indirizzo di
fondo della stessa sentenza Ambrogio delle Sezioni Unite. A
conclusione delle note quali appena illustrate, il difensore ha
ribadito la richiesta principale di accoglimento del ricorso e, in
subordine, ha chiesto che venga sollevata questione di
legittimità costituzionale della normativa di riferimento – art.
275 c.p.p., comma 3, e art. 299 c.p.p., comma 2, – sotto i
seguenti profili: 1) nella parte in cui è prevista l’obbligatorietà
della custodia in carcere per ogni delitto aggravato dal citato
art. 7 ovvero, in più stretta relazione al caso di specie,
“commesso al fine di agevolare l’attività delle associazioni
previste dall’art. 416 bis c.p.”; 2) nella parte in cui non prevede
che l’obbligatorietà della misura della custodia in carcere
operi soltanto in occasione del provvedimento genetico, e
non quando siano invece successivamente acquisiti elementi
specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono
essere soddisfatte con altre misure.

Considerato in diritto
1. Il tema di indagine e di decisione sul quale le Sezioni Unite
sono state chiamate a pronunciarsi consiste nello stabilire “se
la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere ex
art. 275 c.p.p., comma 3, operi solo in occasione
dell’adozione del provvedimento genetico della misura
coercitiva o riguardi anche le vicende successive che
attengono alla permanenza delle esigenze cautelari” (nella
concreta fattispecie relativa a reato aggravato ai sensi del
D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, conv. dalla L. 12 luglio 1991,
n. 203).
Pertanto, i riferimenti normativi di carattere procedurale sui
quali bisogna focalizzare l’attenzione in questa sede sono l’art.
275 c.p.p., comma 3, e art. 299 c.p.p., comma 2, disposizione,
quest’ultima, in cui risulta espressamente richiamato lo stesso
art. 275, comma 3. 2. L’art. 275 c.p.p., indica i criteri cui il giudice deve attenersi
per individuare la misura da ritenersi idonea in relazione alla
natura ed at grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel
caso concreto; nel comma 3, dello stesso articolo è però
stabilita una presunzione assoluta di adeguatezza della sola
misura della custodia in carcere per i delitti ivi elencati, “salvo
che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono
esigenze cautelari”:
dunque, per tali delitti, è obbligatoria la più afflittiva delle
misure cautelari, purchè sussistano esigenze cautelari, a nulla
rilevando la natura ed il grado delle stesse.
L’art. 299 c.p.p., comma 2, è così formulato: “Salvo quanto
previsto dall’art. 275, comma 3, quando le esigenze cautelari
risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare più
proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene
possa essere irrogata, il giudice sostituisce la misura con
un’altra meno grave ovvero ne dispone l’applicazione con
modalità meno gravose”.
In relazione alle due norme citate, è sorto nella giurisprudenza
di questa Corte un contrasto interpretativo in ordine alla
questione se la presunzione assoluta di adeguatezza della
custodia in carcere, per i reati indicati nell’art. 275 c.p.p.,
comma 3, debba trovare applicazione solo in occasione
dell’adozione del provvedimento genetico della misura
coercitiva o riguardi anche le vicende successive a tale
momento, con conseguente irrilevanza dell’eventuale
attenuazione delle esigenze cautelari (a meno che,
ovviamente, le stesse non siano venute a mancare del tutto).
3. Il quadro giurisprudenziale che si è delineato sulla questione
giuridica controversa può essere sinteticamente illustrato
come segue.
3.1. La tesi secondo cui la presunzione assoluta di
adeguatezza della custodia in carcere governa soltanto il
momento iniziale della misura è stata prospettata, nell’epoca
più recente, da Sez. 6, n. 25167 del 18/02/2010, Gargiulo, Rv.
247595: con detta decisione è stato affermato che
l’obbligatorietà della custodia in carcere non può avere
riguardo alle vicende successive all’adozione della misura
stessa, perchè in tali ipotesi occorre valutare il decorso del
tempo e la concreta sussistenza della pericolosità sociale, con
la conseguenza della doverosità della verifica circa la
possibilità di sostituzione della misura originaria con altra meno
afflittiva.
Tale sentenza ha fatto richiamo, per avvalorare la soluzione
adottata, a due precedenti datati, e cioè Sez. 6, n. 54 del 13/01/1995, Corea, Rv. 200564 e Sez. 1, n. 3592 del 24/05/1996,
Corsanto, Rv. 205490 che enunciarono il seguente principio:
“qualora in grado di appello venga affermata, nei confronti di
un soggetto sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, la
sussistenza, esclusa nel primo giudizio, di uno dei reati per i
quali l’art. 275 c.p.p., comma 3, impone la custodia cautelare
in carcere, ai fini della decisione sullo status libertatis
dell’imputato deve aversi riguardo non già al suddetto art.
275, poichè non si verte in tema di prima applicazione di una
misura cautelare di coercizione personale, bensì all’art. 299
c.p.p., comma 4, che prevede la modifica peggiorativa della
precedente misura in corso quando risultino aggravate le
esigenze cautelari; ne consegue che la pura e semplice
intervenuta condanna per uno dei reati predetti, non
accompagnata da alcun elemento sintomatico
dell’emergere di qualche evenienza negativamente influente
sulle esigenze cautelari, non può essere idonea a modificare il
quadro giuridico-processuale esistente al momento della
concessione degli arresti domiciliari ed a fondare il ripristino
della custodia in carcere”. In particolare, la seconda, tra le
due decisioni appena richiamate, fonda il proprio
convincimento sulla regolamentazione specifica e autonoma
del c.d.
ripristino, contemplato dall’art. 300, comma 5, e art. 307,
comma 2, del codice di rito. Da tale premessa sì trae la
conclusione che i parametri valutativi per l’accertamento
delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., comma 1, lett.
b) e c), richiamate dall’art. 300 c.p.p., comma 5, devono
essere ricavati dalla regola generale di cui all’art. 299 c.p.p.,
comma 4, secondo cui “il giudice, su richiesta del p.m.,
sostituisce la misura applicata con altra più grave ovvero ne
dispone l’applicazione con modalità più gravose”, ove “le
esigenze cautelari risultano aggravate”.
Da ultimo, detto indirizzo interpretativo è stato ribadito, senza
però il ricorso ad ulteriori argomentazioni a sostegno, da Sez.
6^, n. 4424 del 20/10/2010, dep. 04/02/2011, D’Angelo, Rv.
249188.
3.2. In senso contrario si è invece orientata la prevalente
giurisprudenza.
Già Sez. 1, n. 3274 del 07/07/1992, Bigoni, Rv. 191558 precisò,
quanto alla disposizione dell’art. 275 c.p.p., comma 3, nella
formulazione allora in vigore, che “la custodia in carcere, una
volta accertata l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza
dell’indagato, non può essere sostituita con gli arresti
domiciliari”: con tale decisione fu ritenuto inapplicabile, in relazione ai reati indicati in detta disposizione, il criterio di
scelta sull’idoneità e sull’adeguatezza della misura.
Nello stesso senso, a poca distanza di tempo, si espresse Sez.
1, n. 931 del 04/03/1993, Granato, Rv. 193997, secondo cui
“allorchè si procede per uno dei reati indicati nell’art. 275
c.p.p., comma 3, è preclusa la sostituzione della custodia
cautelare in carcere con altra misura meno grave: la
permanenza delle esigenze cautelari, ancorchè attenuate,
purchè continuino a sussistere i gravi indizi di colpevolezza,
comporta il mantenimento dell’originaria più grave misura
coercitiva. Per poter far cessare la custodia cautelare devono
venire a mancare completamente le suddette esigenze, ma
a tale ipotesi consegue la revoca della misura imposta, a
norma del comma 1 deil’art. 299 cod. proc. pen il quale, non
prevedendo – per ovvi motivi – la riserva contenuta nel
comma 2 in ordine ai reati contemplati nel citato art. 275,
comma 3, stabilisce che le misure coercitive (e interdittive)
sono immediatamente revocate quando risultano mancanti,
anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità
previste dall’art. 273 c.p.p., o dalle disposizioni relative alle
singole misure, ovvero le esigenze cautelari previste dall’art.
274 c.p.p.”.
Ancora, il principio di diritto, così enunciato, fu ribadito da Sez.
5, n. 1753 del 12/05/1993, Giugliano, Rv. 195408, con specifico
riferimento al reato di cui all’art. 416 bis c.p., trattandosi di “uno
dei reati per i quali, in presenza di gravi indizi di colpevolezza,
l’unica misura applicabile è la custodia in carcere, salvo che
siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono
esigenze cautelari”. Nel medesimo senso, a distanza di anni,
Sez. 3, n. 2711 del 03/08/1999, dep. 21/04/2000, Valenza, Rv.
216566 – 7 ribadì che “la presunzione di adeguatezza esclusiva
della custodia cautelare in carcere nei confronti di soggetti
gravemente indiziati di taluno dei reati previsti dall’art. 275
c.p.p., comma 3, opera in tutte le fasi del procedimento
penale, e non solo in occasione dell’applicazione della misura
cautelare”. E così ancora:
Sez. 5, n. 24924 del 07/05/2004, Santaniello, Rv. 229877; Sez. 6,
n. 9249 del 26/01/2005, Miceli Corchettino, Rv. 230938.
Questo indirizzo interpretativo si è ulteriormente rafforzato con
Sez. 6, n. 20447 del 26/01/2005, Marino, Rv. 231451, che ha
dichiarato la manifesta infondatezza della questione di
costituzionalità dell’art. 299 c.p.p., comma 2, nella parte in cui
prevede che, nell’ipotesi di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, il
giudice non possa sostituire la misura cautelare adottata con
altra meno grave, quando le esigenze risultino attenuate: è stato affermato, sul punto, che dette norme non costituiscono
nè irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa, nè
violazione del principio di uguaglianza, e ciò in ragione
dell’elevato e specifico coefficiente di pericolosità per la
convivenza e la sicurezza collettiva inerente ai reati ivi
considerati. Con tale decisione è stato ulteriormente
specificato come, risultando rispettata la riserva di legge, non
possa apprezzarsi nemmeno la violazione dell’art. 13 Cost.,
comma 1; con l’ulteriore precisazione che l’art. 27 Cost.,
comma 2, non è applicabile alle misure coercitive di tipo
personale adottate per finalità cautelari.
Nello stesso senso si sono ancora espresse: Sez. 2, n. 16615 del
13/03/2008, Vitagliano ed altro, non massimata sul punto; Sez.
5, n. 27146 del 08/06/2010, Femia, Rv. 248034; Sez. 6, n. 32222
del 09/07/2010, Galdi, Rv. 247596; Sez. 5, n. 34003 del
18/05/2010, Di Simone, Rv. 248410; Sez. 2, n. 11749 del
16/02/2011, Armens, Rv.
249686, secondo cui “non avrebbe senso imporre l’adozione
della custodia cautelare in carcere se poi fosse possibile
sostituirla con misura meno afflittiva”.
Da ultimo Sez. 5, n. 35190 del 22/06/2011, Ciminello, Rv.
251201, ha ribadito che l’orientamento prevalente, ritenuto
nell’occasione condivisibile, si fonda su un argomento
sistematico, costituito dal rilievo che l’art. 299 c.p.p., comma 2,
consente la sostituzione della misura, in caso di attenuazione
delle esigenze cautelari o della sopravvenuta assenza di
proporzione all’entità del fatto o alla sanzione, “ma con
espressa eccezione proprio delle ipotesi contemplate dall’art.
275, comma 3”.
4. La questione oggetto del contrasto così delineatosi non è
mai stata tematicamente affrontata dalle Sezioni Unite. Mette
conto però sottolineare che di recente le Sezioni Unite, con la
sentenza n. 27919 del 31/03/2011, Ambrogio, Rv. 250195-6, nel
ragionare sulla portata applicativa delle interpolazioni dell’art.
275 c.p.p., comma 3, hanno avuto modo di precisare, come
sopra ricordato nella parte narrativa, quanto segue: “Anche
nel momento della sostituzione della misura cautelare
giocano le presunzioni alle quali si è già fatto cenno nel
considerare il momento genetico della misura cautelare: una
diversa soluzione, evidentemente, renderebbe del tutto
irrazionale il sistema. Tuttavia, in tale fase non possono operare
presunzioni prima inesistenti”. Le Sezioni unite hanno, dunque,
avvalorato l’orientamento affermatosi come prevalente nella
giurisprudenza di legittimità che, come si è visto, ha origini
ormai datate. 5. Così descritto il quadro giurisprudenziale, ritengono queste
Sezioni Unite di dover confermare l’opzione interpretativa
privilegiata dalla prevalente giurisprudenza e già
recentemente avallata dalle Sezioni Unite con la citata
sentenza Ambrogio.
A tanto inducono – e fermo restando quanto già argomentato
con le sentenze che hanno dato vita all’orientamento
maggioritario e con la stessa sentenza delle Sezioni Unite,
Ambrogio – le ragioni di ordine letterale, sistematico e logico
di seguito indicate.
Una corretta operazione ermeneutica, finalizzata ad
individuare la ratio sottesa alla norma da interpretate, deve
muovere innanzi tutto dal dato letterale.
Orbene, la formulazione delle disposizioni che rilevano ai fini
della soluzione della questione de qua non sembra possa
dare adito a particolari difficoltà interpretative, in
considerazione della sua sufficiente chiarezza; ed è noto che,
in presenza di un dato testuale sufficientemente chiaro,
l’interprete deve attenersi a tale dato, il cui significato va
ricostruito senza sovrapposizione di opzioni per le valutazioni
politico-criminali discendenti dalla stessa lettera normativa.
Ciò premesso, è agevole argomentare, da una lettura
complessiva del testo normativo, che il legislatore ha inteso
per certo attribuire alla presunzione assoluta di cui all’art. 275,
comma 3, del codice di rito, il carattere di eccezionalità
com’è reso palese dall’elencazione specifica dei reati cui ha
voluto ricollegare detta presunzione e dall’espressione “salvo
che non siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari”.
Dunque, in deroga alla regola generale enunciata nel
comma 1 dello stesso articolo -secondo cui il giudice, nel
disporre le misure, “tiene conto della specifica idoneità di
ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze
cautelari” – ed in deroga altresì al principio della custodia in
carcere quale extrema ratio, fissato nell’incipit del comma 3, il
legislatore ha ritenuto, per determinati reati, specificamente
indicati, di dover stabilire una presunzione assoluta di idoneità
della più afflittiva delle misure. Da tanto, consegue che
l’interpretazione della disposizione non può che essere quella
più rigorosa consentita dall’enunciato letterale, in stretta
aderenza alla ratio normativa, chiaramente ravvisabile, nel
caso in esame, nella necessità di ricercare un giusto
contemperamento delle opposte esigenze del diritto alla
libertà dell’indagato (o imputato) e della tutela della collettività (come evidenziato dalla Corte Costituzionale con
l’ordinanza n. 450 del 1995).
Così individuata la ratio della norma, deve ritenersi, quale
logica conseguenza, che detta presunzione debba operare
non solo nel momento genetico della misura, ma per tutte le
vicende successive, in presenza di esigenze cautelari.
Conclusione, questa, che risulta poi viepiù rafforzata, come
detto, da ragioni di ordine logico e sistematico. Sotto il primo
aspetto, è sufficiente osservare che non risponderebbe a
criteri di logica – avuto riguardo alla ratio della disposizione
quale individuata già sulla scorta del dato letterale – imporre,
per delitti ritenuti dal legislatore di particolare gravitt,
l’adozione della custodia cautelare in carcere se poi fosse
possibile sostituirla con misura meno afflittiva (così come
evidenziato da Sez. 2, n. 11749 del 16/02/2011, Armens, Rv.
249686, sopra ricordata). Dal punto di vista sistematico, mette
conto sottolineare che: a) nel primo periodo dell’art. 275
c.p.p., comma 3, con riferimento alla custodia in carcere
quale misura da adottare solo ove ogni altra misura risulti
inadeguata, è stata usata la formulazione “può essere
disposta”, mentre con riferimento alla presunzione assoluta di
adeguatezza della sola custodia in carcere, di cui al
successivo periodo, il legislatore ha fatto ricorso alla diversa
formulazione “è applicata”: orbene, non sembra che tale
diversa terminologia sia senza significato, posto che il termine
“disposta” consente di individuare certamente proprio il
momento genetico, a differenza della parola “applicata” che,
infatti, risulta poi usata anche nell’art. 299 c.p.p., dedicato alla
“revoca e sostituzione delle misure”; b) nell’art. 299 c.p.p., che,
come appena ricordato, pur contiene le disposizioni che
disciplinano la revoca e la sostituzione delle misure, vi è,
nell’incipit del comma 2, il richiamo alla presunzione di
adeguatezza di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, quale
eccezione alla possibilità di sostituzione della misura in corso
nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari ovvero
quando la misura applicata non appare più proporzionata
all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere
irrogata: risulta dunque chiara l’intenzione del legislatore,
avuto riguardo alla collocazione dell’eccezione ed alla
formulazione della norma, di aver voluto rendere operativa la
presunzione di adeguatezza della misura della custodia in
carcere, prevista dall’art. 275 c.p.p., comma 3, per i reati ivi
elencati, per l’intera durata della vicenda cautelare e non per
il solo momento iniziale in cui detta misura viene disposta. Nè tale opzione ermeneutica risulta efficacemente
contrastata dall’argomento che, in alcune delle sentenze,
espressione dell’indirizzo minoritario, si è ritenuto di poter
individuare nell’art. 299 c.p.p., comma 4, laddove è previsto
che, fermo restando quanto è stabilito nell’art. 276 c.p.p.
(provvedimenti in caso di trasgressione alle prescrizione
imposte), “quando le esigenze cautelari risultano aggravate, il
giudice, su richiesta del pubblico ministero, sostituisce la
misura applicata con un’altra più grave ovvero ne dispone
l’applicazione con modalità più gravose”. Ed invero, nell’art.
299 c.p.p., accanto alla revoca della misura (comma 1), è
prevista anche la sostituzione della misura: in senso meno
afflittivo, nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari
(comma 2) o in senso più severo, e su richiesta del pubblico
ministero, nel caso di aggravamento delle esigenze stesse
(comma 4). Le disposizioni di cui all’art. 299 c.p.p., commi 2 e
4, sono dunque simmetriche, e non si rilevano nella
formulazione del comma 4 elementi persuasivi a favore
dell’orientamento interpretativo minoritario.
La sostituzione di una misura con altra meno afflittiva, nel caso
di attenuazione delle esigenze cautelari, così come prevede
l’art. 299 c.p.p., comma 2, è chiara espressione della regola
generale che comporta una continua verifica, da parte del
giudice, circa il permanere delle condizioni che hanno
determinato la limitazione della libertà personale e la scelta di
una determinata misura cautelare.
Orbene, a tale regola – che governa l’aspetto per così dire
dinamico della vicenda cautelare, disciplinato nel contesto
normativo dell’art. 299 c.p.p. – il legislatore ha inteso porre
un’eccezione, attenuando la discrezionalità del giudice, con
l’introduzione di criteri legali di vantazione, e così ponendo
una presunzione assoluta di adeguatezza della misura della
custodia in carcere per determinati reati in quanto ritenuti di
particolare pericolosità sociale: presunzione che deve ritenersi
operante non solo in occasione dell’adozione del
provvedimento genetico della misura coercitiva (art. 275
c.p.p., comma 3) ma, necessariamente, anche per il
prosieguo della vicenda cautelare proprio perchè
espressamente richiamata nell’art. 299 c.p.p., comma 2,
(“salvo quanto previsto dall’art. 275, comma 3”).
6. Va pertanto enunciato il seguente principio: “La presunzione
di adeguatezza della custodia in carcere ex art. 275 c.p.p.,
comma 3, opera non solo in occasione dell’adozione del
provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle vicende successive che attengono alla permanenza
delle esigenze cautelari”.
7. Risolto il quesito sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite,
bisogna ora procedere all’esame della questione di legittimità
costituzionale prospettata dalla difesa del L., posto che, alla
luce del principio sopra enunciato, secondo la formulazione
dell’art. 275 c.p.p., comma 3, tale disposizione dovrebbe
trovare applicazione anche in relazione ai delitti aggravati ai
sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, (convertito dalla L. n. 203
del 1991).
Orbene, ritiene il Collegio che trattasi di questione non
manifestamente infondata, avuto riguardo, in particolare,
proprio all’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in
relazione alla portata della presunzione di cui all’art. 275
c.p.p., comma 3, essendo intervenute plurime pronunce di
declaratoria di parziale incostituzionalità di tale norma.
La questione si presenta altresì rilevante, in relazione alla
concreta fattispecie, in considerazione del fatto che a carico
del L. è stata ritenuta sussistente raggravante prevista dal
citato art. 7 e tenuto conto dell’espresso richiamo dell’art. 299
c.p.p., comma 2, a tale presunzione, di cui si è prima detto.
La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 450 del 1995 statuì
la compatibilità della presunzione in argomento con i principi
costituzionali, rilevando che la scelta del tipo di misura non
implica necessariamente l’attribuzione al giudice di un potere
di apprezzamento in concreto, perchè ben può essere
oggetto di una valutazione in termini generali del legislatore,
“nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto
bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti”. Osservò il
Giudice delle leggi che ricade nell’ambito della discrezionalità
legislativa l’individuazione del punto di equilibrio tra diverse
esigenze, e in particolare tra quella della minore possibile
restrizione della libertà personale e quella della tutela degli
interessi costituzionali presidiati attraverso la previsione degli
strumenti cautelari. Muovendo da tali premesse, si ritenne che
la predeterminazione in linea generale dell’area dei delitti di
criminalità organizzata di tipo mafioso, per l’operatività della
presunzione di adeguatezza della custodia cautelare
carceraria, rendesse manifesta la non irragionevolezza
dell’esercizio della discrezionalità legislativa, atteso il
coefficiente di pericolosità per e condizioni di base della
convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel
genere è connaturato: non può, infatti, dirsi che sia soluzione
costituzionalmente obbligata l’affidamento sempre e
comunque al giudice della fissazione del punto di equilibrio e contemperamento tra il sacrificio della libertà personale e gli
opposti interessi collettivi, anch’essi di rilievo costituzionale.
Anni dopo, ma riprendendo giurisprudenza consolidata, la
Corte costituzionale, con la sentenza n. 139 del 2010, ha
ricordato che le “presunzioni assolute, specie quando limitano
un diritto fondamentale della persona, violano il principio di
eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali”, cioè se non
rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella
formula dell’id quod plerumque accidit. E ciò ha fatto in
occasione dello scrutinio di costituzionalità del D.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, art. 76, comma 4 bis, (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di
giustizia), del quale ha decretato l’illegittimità nella parte in
cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con
sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il
reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al
patrocinio a spese dello Stato, non ammette la prova
contraria.
Con una pluralità di interventi, la Corte costituzionale ha poi
recentemente ridisegnato i confini delle presunzioni in materia
cautelare, il cui ambito applicativo era stato ampliato, ben
oltre il settore della criminalità mafiosa, dall’intervento
normativo sulla sicurezza pubblica, vale a dire dal D.L. n. 11
del 2009, convertito, con modifiche, con L. n. 38 del 2009.
Con la sentenza n. 265 del 2010 è stata dichiarata la
illegittimità dell’art. 275 c.p.p., comma 3, nella parte in cui ha
esteso la presunzione di adeguatezza della custodia
carceraria, senza possibilità di apprezzare in concreto
l’adeguatezza di altra e meno afflittiva misura, nei
procedimenti per i reati di cui all’art. 609 bis c.p., comma 1,
artt. 609 bis e 609 quater c.p.. Dopo aver ricordato che nel
criterio di adeguatezza trova espressione il principio del
“minore sacrificio necessario”, architrave del sistema cautelare
personale, e che il ricorso alla custodia carceraria deve essere
residuale – eccezionale, di extrema ratio – la Corte ha chiarito
come tratto saliente del sistema sia l’assenza di automatismi e
presunzioni.
La deroga, costituita dalle presunzioni di sussistenza delle
esigenze cautelari e di adeguatezza della misura carceraria
per i delitti di mafia in senso stretto, ha superato il vaglio della
Corte Costituzionale e della Corte Europea dei diritti
dell’uomo, avendo entrambe le Corti valorizzato le peculiarità
di tali delitti, la cui connotazione strutturale astratta, come
reati associativi e dunque permanenti, rende ragionevoli le
presunzioni, e specificamente quella di adeguatezza della custodia carceraria, misura ritenuta maggiormente idonea
per soddisfare l’esigenza di neutralizzazione del periculum
libertatis “connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra
imputato e associazione”.
La Corte Europea aveva avuto già modo di pronunciarsi
esplicitamente in tal senso, osservando che la disciplina
derogatoria in esame appariva giustificabile alla luce “della
natura specifica del fenomeno della criminalità organizzata e
soprattutto di quella di stampo mafioso”, e segnatamente in
considerazione del fatto che la carcerazione provvisoria delle
persone accusate del delitto in questione “tende a tagliare i
legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito
criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse
mantengano contatti personali con le strutture delle
organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo
delitti” (sentenza 6 novembre 2003, Pantano c. Italia).
La Corte Costituzionale, appunto con la decisione n. 265 del
2010, ha quindi tratto la conclusione dell’impossibilità di
estendere una rado siffatta, calibrata sui delitti di mafia in
senso stretto, ad ambiti criminosi per i quali vale una regola di
esperienza diversa, ossia che essi possono proporre esigenze
cautelari suscettibili di essere soddisfatte con misure
alternative alla custodia in carcere.
Si tratta di delitti che, per quanto odiosi, sono spesso
meramente individuali e tali da non postulare esigenze
affrontagli rigidamente con la massima misura.
Con argomentazioni del tutto simili, il Giudice delle leggi, con
la sentenza n. 164 del 2011, ha successivamente dichiarato la
incostituzionalità dell’art. 275 c.p.p., comma 3, nella parte in
cui non consente di apprezzare, nei procedimenti per il delitto
di omicidio volontario, l’esistenza di elementi specifici dai quali
in concreto risulti che le esigenze cautelari possano essere
soddisfatte con misure meno gravose della custodia in
carcere. Nonostante la gravità del reato – ha osservato la
Corte – il delitto di omicidio non implica e non presuppone
necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a
un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di
pericolosità, perchè può essere, e sovente è, un fatto
meramente individuale. Anche in tale circostanza è stato
ricordato che entrambe le Corti – e cioè la stessa Corte
Costituzionale e la Corte Europea dei diritti dell’uomo –
avevano in vario modo valorizzato la specificità dei delitti di
mafia.
Sulla scia di questa giurisprudenza è poi intervenuta ancora la
Corte costituzionale con sentenza n. 231 del 2011 con la quale è stata dichiarata la illegittimità dell’art. 275, comma 3, del
codice di rito, nella parte concernente il riferimento ai
procedimenti per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art.
74. Anche per tale delitto la presunzione assoluta di
adeguatezza della sola custodia carceraria è stata
considerata non rispondente a un dato di esperienza
generalizzato, ricollegabile alla struttura stessa e alle
connotazioni criminologiche della figura criminosa, pur se essa
presuppone uno stabile vincolo di appartenenza a un
sodalizio criminoso. Con tale sentenza è stato precisato che il
delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze
stupefacenti o psicotrope si concretizza in una forma speciale
del delitto di associazione per delinquere, qualificata
unicamente dalla natura dei reati-fine, che non postula
necessariamente la creazione di una struttura complessa e
gerarchicamente ordinata, essendo sufficiente una
qualunque organizzazione, anche rudimentale, di attività
personali e di mezzi economici, benchè semplici ed
elementari. Detta figura criminosa, ha osservato ancora la
Corte Costituzionale, si presta, pertanto, a qualificare
penalmente fatti e situazioni in concreto i più diversi ed
eterogenei, sì che non è possibile enucleare una regola di
esperienza, ricollegabile ragionevolmente a tutte le
connotazioni criminologiche del fenomeno, secondo cui la
custodia carceraria sarebbe l’unico strumento idoneo a
fronteggiare le esigenze cautelari.
Mette conto sottolineare che il Giudice delle leggi con la
precedente sentenza n. 331 del 2010 ha fatto venir meno la
presunzione assoluta di adeguatezza della custodia
carceraria anche in riferimento ai delitti di favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998,
art. 12, comma 3.
Infine, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 110 del 2012,
è intervenuta ancora una volta con una ulteriore (parziale)
declaratoria di incostituzionalità dell’art. 275 c.p.p., comma 3,
con specifico riferimento alla fattispecie di cui all’art. 416 c.p.,
realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt.
473 e 474 c.p., facendo così venir meno la presunzione
assoluta di adeguatezza della custodia in carcere per tale
reato associativo.
Nel riprendere le argomentazioni delle precedenti pronunce,
la Corte ha significativamente precisato che le parziali
declaratorie di illegittimità costituzionale non si possono
estendere alle altre fattispecie criminose disciplinate dall’art.
275 c.p.p., comma 3, e non prese in esame specificamente dalle dichiarazioni di incostituzionalità, perchè “la lettera della
norma…, il cui significato non può essere valicato neppure per
mezzo dell’interpretazione costituzionalmente conforme…, non
consente in via interpretativa di conseguire l’effetto che solo
una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre”. Ha
quindi aggiunto che anche per la fattispecie presa in esame
può dirsi che mancano quelle connotazioni normative (forza
intimidatrice del vincolo associativo e condizione di
assoggettamento ed omertà) proprie dell’associazione di tipo
mafioso e in grado di fornire una congrua base statistica alla
presunzione assoluta di adeguatezza. Con tale decisione, la
stessa Corte ha definito “particolarmente significativa” la
propria sentenza n. 231 del 2011 (sopra illustrata), con la quale
è stata dichiarata illegittima la presunzione in argomento in
riferimento ad una fattispecie associativa ( D.P.R. n. 309 del
1990, art. 74), ed ha evidenziato che nell’occasione è stato in
particolare sottolineato che il delitto di associazione di tipo
mafioso è “normativamente connotato – di riflesso ad un dato
empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo
esprime una forza di intimidazione e condizioni di
assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per
conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è
proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto,
implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e
permanente adesione tra gli associati, una rigida
organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un
radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati
illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza
intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari
connotazioni a fornire una congrua base statistica alla
presunzione considerata, rendendo ragionevole la
convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze
cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire
adeguatamente fronteggiate se non con la misura
carceraria”.
Ai fini dello scrutinio della questione di legittimità costituzionale
oggetto della citata sentenza n. 110 del 2012, la Corte
Costituzionale ha quindi precisato che le argomentazioni
svolte nella sentenza n. 231 del 2011 – come si è visto,
diffusamente richiamate – devono ritenersi riferibili anche al
delitto di associazione per delinquere realizzata allo scopo di
commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p..
Nell’occasione, la Corte Costituzionale ha altresì
significativamente evidenziato – il che appare rilevante ai fini
della delibazione della questione di legittimità costituzionale prospettata dalla difesa del L. – quanto segue: “deve
escludersi che l’inserimento dell’associazione per delinquere
realizzata allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473
e 474 c.p., tra i reati indicati dall’art. 51 c.p.p., comma 3 bis,
sia idoneo a offrire legittimazione costituzionale alla norma in
esame: questa Corte ha infatti chiarito che la disciplina
stabilita dall’art. 51 c.p.p., comma 3 bis, risponde a “una
logica distinta ed eccentrica rispetto a quella sottesa alla
disposizione sottoposta a scrutinio”, trattandosi di una norma
“ispirata da ragioni di opportunità organizzativa degli uffici del
pubblico ministero, anche in relazione alla tipicità e alla
qualità delle tecniche di indagine richieste da taluni reati, ma
che non consentono inferenze in materia di esigenze
cautelari, tantomeno al fine di omologare quelle relative a
tutti i procedimenti per i quali quella deroga è stabilita”.
8. Le ragioni che, ad avviso di queste Sezioni Unite,
sostengono il giudizio di non manifesta infondatezza della
questione di costituzionalità in esame, si sostanziano, per una
parte, negli argomenti, quali sopra ricordati, che la stessa
giurisprudenza costituzionale ha nel tempo utilizzato per
eliminare la presunzione assoluta di adeguatezza della
custodia cautelare in carcere per alcuni tipi di reato (con
particolare riferimento a quello associativo di cui al D.P.R. n.
309 del 1990, art. 74, ed a quello di associazione per
delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati di cui
agli artt. 473 e 474 c.p., caratterizzati da un vincolo di
appartenenza alla organizzazione malavitosa, dal Giudice
delle leggi ritenuto di per sè solo inidoneo a giustificare la
presunzione assoluta di adeguatezza della più afflittiva misura
cautelare, in assenza delle altre connotazioni specifiche del
legame che caratterizza gli appartenenti ad un’associazione
di tipo mafioso);
per altra parte, nel rilievo che anche i delitti aggravati ai sensi
del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, – avendo, o potendo avere, una
struttura individualistica – potrebbero, per le loro
caratteristiche, non postulare necessariamente esigenze
cautelari affrontabili esclusivamente con la custodia in
carcere. La circostanza aggravante in esame può
accompagnare, invero, la commissione di qualsiasi fattispecie
delittuosa; di talchè, ove si volesse ricomprendere anche i
reati così aggravati nella locuzione “delitti di mafia”, cui si fa
ripetutamente richiamo nelle decisioni della Corte
Costituzionale, si finirebbe con l’assimilare, sotto il profilo del
disvalore sociale e giuridico, manifestazioni delittuose del tutto
differenti, sia con riferimento alla loro portata criminale sia con riferimento alla pericotosità dell’agente: la presunzione di
adeguatezza della misura della custodia in carcere per delitti
commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni
previste dall’art. 416 bis c.p., comporterebbe, infatti, una
parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito e chi,
invece, senza appartenere ad esse, abbia inteso agevolare le
attività delle associazioni stesse. Parificazione che
sembrerebbe ingiustificata sulla scorta delle considerazioni
svolte dalla stessa Corte Costituzionale laddove la presunzione
in argomento è stata ritenuta ragionevole e giustificata, come
ricordato, solo in presenza di un legame associativo, peraltro
connotato da specifiche caratteristiche, quali la forza
intimidatrice del vincolo associativo stesso e la condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva, che non
sembrano riscontrabili in una condotta delittuosa pur
aggravata ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7;
comportamento ovviamente grave e indice di pericolosità
ma non necessariamente, ed in ogni caso maggiore, di chi sia
– ad esempio – partecipe di un’associazione dedita al traffico
di stupefacenti, posto che, giova ripeterlo, in relazione
all’aggravante contestata sotto il profilo dell’agevolazione
delle attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis c.p. –
situazione corrispondente alla concreta fattispecie, avuto
riguardo al reato per il quale è intervenuta sentenza di
condanna del L. – è escluso un vincolo o legame con
l’associazione.
9. Oltre alla non manifesta infondatezza, appare ravvisabile –
come in precedenza già accennato – anche la rilevanza
della questione, posto che l’appello del P.m., avverso
l’ordinanza con la quale era stata concessa al L. la detenzione
domiciliare, è stato accolto dal Tribunale (con il
provvedimento oggetto del presente ricorso) proprio
muovendo dal presupposto che la presunzione di
adeguatezza della misura della custodia in carcere per il
reato di favoreggiamento personale, in quanto aggravato ai
sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, deve ritenersi operante
non esclusivamente in occasione dell’adozione del
provvedimento genetico della misura coercitiva, e riguarda
quindi anche le vicende successive che attengono alla
permanenza o meno delle esigenze cautelari.
Giova ricordare, infine, che in merito alla circostanza
aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, sono
intervenute anni addietro le Sezioni Unite di questa Corte
(Sent. n. 10 del 28/03/2001, Cinalli, Rv. 218377) per risolvere la
questione se detta aggravante, contestata per i reati fine, sia applicabile ai partecipi di un’associazione di stampo mafioso.
Dopo aver precisato che essa si articola in due diverse forme,
l’una a carattere oggettivo, costituita dall’impiego del metodo
mafioso nella commissione dei singoli delitti, l’altra di tipo
soggettivo, che si sostanzia nella volontà specifica di favorire
o facilitare l’attività del gruppo, le Sezioni Unite hanno dato
risposta positiva al quesito, escludendo che possa configurarsi
un’ipotesi di concorso apparente di norme, e specificamente
di reato complesso, sulla base dell’indiscussa autonomia del
reato associativo rispetto al reato-fine. Hanno in particolare
chiarito che il metodo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p., e
quello di cui alla disposizione che prevede la circostanza
aggravante integrano due distinte entità: il primo connota il
fenomeno associativo ed è, al pari del vincolo, un elemento
che permane indipendentemente dalla commissione dei vari
reati; il secondo costituisce eventuale caratteristica di un
concreto episodio delittuoso, ben potendo accadere, di
converso, che un associato ponga in essere una condotta
penalmente rilevante, pur costituente reato- fine, senza
avvalersi del potere intimidatorio del gruppo. Lo stesso
ragionamento hanno poi sviluppato in riferimento alla forma
soggettiva della circostanza aggravante in esame: l’associato
risponde di un contributo permanente allo scopo sociale, che
prescinde dalla commissione dei singoli delitti. Qualora
l’associato concorra in essi e la sua condotta sia qualificata
dal dolo specifico di agevolare l’attività dell’associazione, tale
fatto psicologico si prospetta come ulteriore, e pertanto può
essergli addebitato in funzione di aggravamento della pena.
Del resto, il reato associativo richiede un effettivo apporto alla
causa comune, mentre la previsione aggravatrice è relativa
alla semplice volontà di favorire, indipendentemente dal
risultato, l’attività del gruppo, e cioè qualsiasi manifestazione
esteriore del medesimo, che non coincide con il
perseguimento dei fini sociali in cui si sostanzia il dolo specifico
di cui all’art. 416 bis c.p..
10. Alla stregua di tutte le argomentazioni sin qui svolte, deve
conclusivamente dichiararsi rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275
c.p.p., comma 3, secondo periodo, come modificato dal D.L.
23 febbraio 2009, n. 11, art. 2, (Misure urgenti in materia di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,
nonchè in tema di atti persecutori), convertito, con
modificazioni, dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui –
nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di
colpevolezza in ordine ai delitti commessi al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis c.p.
(aggravante così contestata nella concreta fattispecie), è
applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano
acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze
cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti
che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre
misure; non manifesta infondatezza ravvisabile in relazione ai
seguenti articoli della Costituzione: art. 3, per l’ingiustificata
parificazione dei procedimenti relativi ai delitti aggravati ai
sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, a quelli concernenti i delitti
di mafia nonchè per l’irrazionale assoggettamento ad un
medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete
riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; art. 13, primo
comma, quale referente fondamentale del regime ordinario
delle misure cautelari privative della libertà personale; art. 27,
comma 2, con riferimento all’attribuzione alla coercizione
personale di tratti funzionali tipici della pena.
Per completezza argomentativa, appare opportuno
sottolineare che analoghe considerazioni ben possono valere
anche con riferimento alla forma aggravatrice del c.d.
“metodo mafioso” (profilo non contestato al L.). Ed invero, la
presunzione di adeguatezza della misura della custodia in
carcere per un reato in tal senso aggravato, comporterebbe
una parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito e
chi, invece, senza appartenere ad esse, abbia inteso
approfittare della condizione di assoggettamento, dalle
medesime creato, per portare più efficacemente a
compimento il proprio, e specifico, proposito criminoso dei
tutto estraneo al programma delinquenziale dell’associazione
malavitosa.
A norma della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, deve dichiararsi
la sospensione del procedimento e deve disporsi l’immediata
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ferma restando
la misura cautelare in atto.
La Cancelleria provvederà alla notifica di copia della
presente ordinanza alle parti in causa e al Presidente del
Consiglio dei Ministri ed alla comunicazione della stessa ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento.

P.Q.M.

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 c.p.p.,
comma 3, secondo periodo, al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, (convertito dalla L. n. 203 del 1991), in riferimento all’art. 3
Cost., art. 13 Cost., comma 1, e art. 27 Cost., comma 2.
Sospende il giudizio in corso e dispone l’immediata
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che la
presente ordinanza sia notificata alle parti in causa nonchè al
Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento.

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