Corte di Cassazione, Sezione Penale III, 15 settembre 2020, n. 25990

Avv. Prof. Leonardo Ercoli

In materia di illeciti tributari aventi rilevanza penale, è noto che i beni costituenti il profitto del reato sono soggetti a confisca, diretta (nei confronti della persona giuridica) o per equivalente (nei confronti del legale rappresentante). La materia è attualmente regolata dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 che ha contrassegnato una decisiva rivisitazione della materia oggetto di esame, fino ad allora disciplinata dalla legge 7 agosto 1982, n. 516 ed oggetto poi, di una rilevante modifica ad opera del d.lgs. 24 settembre 2015 n. 158 con cui si è dato ingresso a nuove fattispecie di reato e con cui sono state modificate talune delle pene inizialmente previste.

Ebbene, a seguito dell’entrata in vigore del suddetto decreto legislativo che ha escluso ex art. 12-bis, comma 2, la confisca in presenza di un impegno del contribuente al versamento del dovuto mediante un preventivo accordo con il Fisco, sono sorti notevoli dubbi in ordine alle conseguenze sul sequestro preventivo finalizzato alla confisca, in caso di richiesta di rateizzazione del debito tributario.

Detto in termini differenti, ci si è chiesti se la norma citata precluda il sequestro preventivo finalizzato alla confisca solamente in relazione alle somme già versate o piuttosto in relazione all’intero importo oggetto dell’accordo con il Fisco, anche se non ancora versato.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, secondo il suo costante orientamento, in tema di reati tributari l’art. 12-bis, comma 2, del d.lgs. 74/2000, va inteso nel senso che la confisca e, dunque, il sequestro preventivo ad essa preordinato, può essere disposta pur in presenza dell’impegno di pagamento assunto, producendo effetti, tuttavia, solo relativamente agli importi non ancora corrisposti ove si verifichi, cioè, l’evento futuro ed incerto costituito dal mancato pagamento del debito[1].

Di recente, sul punto, è intervenuta la Corte di Cassazione la quale, nel richiamare i precedenti giurisprudenziali, con sentenza n. 25990 depositata il 15 settembre 2020, ha offerto chiarimenti su una questione di rilevante impatto pratico nelle indagini per reati fiscali nel corso delle quali, spesso, è proprio la misura reale propedeutica all’ablazione che induce alla sottoscrizione di accordi tra contribuente-indagato e Fisco, aventi ad oggetto il debito tributario, peraltro, molto spesso oggetto di contestazione penale.

La contestazione nasce dal provvedimento del Tribunale di Pesaro con cui era stata rigettata l’istanza di riesame presentata da un imprenditore indagato per aver commesso il reato di indebita compensazione, in violazione dell’art. 10-quater del d.lgs. n. 74/2000 il quale, nelle more del giudizio, veniva attinto dalla misura cautelare reale del sequestro preventivo diretto e per equivalente, per un valore pari al profitto conseguito con il reato.

Avverso il citato provvedimento di rigetto, la difesa decideva di presentare un’istanza di riesame innanzi al Tribunale competente, che però ne rigettava le doglianze. Il mancato accoglimento era motivato con il sostanziale convincimento che il contribuente avesse utilizzato, in qualità di legale rappresentante di un ente, crediti inesistenti a seguito di un accollo di un debito tributario da parte di due società, nonché ulteriori crediti inesistenti per la compensazione delle addizionali e dei contributi INPS.

L’indagato, contro l’ordinanza di rigetto, proponeva ricorso in Cassazione, per evidenziare fra i vari motivi, in particolare, l’erronea applicazione della legge penale da parte del Tribunale del Riesame nella misura in cui non aveva disposto la riduzione del sequestro, in proporzione alla somma pagata e della conciliazione avvenuta con l’Agenzia delle Entrate nelle more del giudizio.

La Corte, investita della questione, dà atto, anzitutto, di come l’ordinanza impugnata abbia, di fatto, rilevato che si trattava di compensazioni operate nel 2018 e, dunque, successive alla nota dell’Agenzia delle Entrate che, nel 2017, aveva chiarito l’impossibilità di operare la compensazione fra soggetti diversi e che, nonostante l’interlocuzione con il medesimo ente, il pagamento di quanto dovuto 1 fino al 2019, per poi passare al vaglio della questione relativa al rapporto fra confisca e accordo con l’erario, chiarendo, sul punto, che la disposizione di cui al comma secondo dell’art. 12-bis, d.lgs. n. 74/2000 secondo cui la confisca diretta o di valore dei beni costituenti profitto o prodotto del reato “non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro”, deve essere intesa nel senso che la confisca, così come il sequestro preventivo ad essa preordinato, può essere adottata anche a fronte dell’impegno di pagamento assunto, producendo tuttavia effetti solo ove si verifichi l’evento futuro ed incerto costituito dal mancato pagamento del debito.

Il Supremo Collegio, nel corpo della sentenza in esame, puntualizza, però, che con la locuzione “non opera” non si intende escludere, a fronte dell’accordo, la confisca ma che la stessa non divenga efficace con riguardo alla parte coperta da tale impegno, salvo essere disposta allorquando l’impegno non venga rispettato e il versamento promesso non si verifichi. A sostegno di tale ricostruzione milita il dato testuale della norma invocata («la confisca non opera […] anche in presenza di sequestro»), non avendo il legislatore specificato – come sarebbe stato logico ritenere ove l’accordo intervenuto fra contribuente ed Erario avesse avuto effetti preclusivi anche sul mantenimento del sequestro in corso – che esso andava revocato. Inoltre, l’ultimo periodo dell’art. 12-bis del D.Lgs n. 74/2000 precisa che, in caso di mancato versamento delle somme che il contribuente si è impegnato a versare, la confisca è sempre disposta: «con il che risulta chiaro che l’accordo in discorso non estingue il potere di confisca, ma semplicemente ne sospende la possibilità di esecuzione» solo in occasione dell’avvenuto adempimento. Di talché, solamente l’intera corresponsione del debito tributario, in virtù della necessità di evitare la sostanziale duplicazione dello stesso, può condurre alla non operatività della confisca e, correlativamente, alla obliterazione del sequestro imposto a tal fine, rilevandosi del tutto insufficiente la mera ammissione ad un piano rateale di pagamento o il parziale pagamento effettuato a tale ultimo titolo[2].

Gli Ermellini, a definitiva smentita di certe letture apparenti ed oltremodo indulgenti dell’art. 12-bis, comma 2, del d.lgs. n. 74/2000 precisano come non può essere il mero impegno a legittimare l’immediata revoca (parziale o addirittura totale) del sequestro preventivo in essere, la cui finalità, ai sensi dell’art. 321, comma 2, del c.p.p., è quella di assicurare l’effettività della successiva, possibile confisca del profitto del reato fiscale.

La Cassazione, dunque – quasi come a voler dire ‘ben vengano gli accordi, ma senza strumentalizzazione alcuna’ – fuga ogni dubbio sul punto concludendo come, nella specie, l’impegno al pagamento del debito non fosse sufficiente ad escludere il mantenimento del sequestro, giacché […] solo l’integrale pagamento del debito tributario, al fine di evitarne la sostanziale duplicazione, può condurre alla non operatività della confisca e, contestualmente, alla rimozione del sequestro. Pertanto, la mera assunzione dell’impegno da parte dell’interessato in ordine al versamento del dovuto all’Erario non è idonea ad incidere sul volume della misura”.

[1] Sul punto cfr. Cass. Pen., Sez. III, sentenza del 13 Luglio 2016, n. 42470; Cass. Pen., Sez. III, sentenza del 14 gennaio 2016, n. 5728.

[2] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, sentenza 27 novembre 2013, n. 5681; In senso conforme, si veda, di recente Cass. Pen., Sez. III, sentenza 26 giugno 2019, n. 40793.

 

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