Considerazioni sull’esegesi dell’art. 123 c.civ. (I)

Avv. Salvatore Magra

Art. 123 c.civ.: Il matrimonio può essere impugnato da ciascuno dei coniugi quando gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti L’azione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima Un problema di non poco rilievo è enucleare il ruolo della convivenza intervenuta fra i coniugi dopo il matrimonio concordatario, ove il medesimo sia stato dichiarato nullo e, in particolare, il collegamento intercorrente fra tale “fatto” della convivenza e il consenso iniziale al matrimonio. Si pone il nesso con la materia del riconoscimento per l’ordinamento italiano delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, di cui art. 8.2 dell’Accordo del 1984 tra Stato e Chiesa. La disciplina della simulazione è ontologicamente differente nel diritto canonico, che struttura la medesima secondo il paradigma della distinzione fra simulazione totale e parziale (ammesso poi che in una materia volatile come quella matrimoniale sia concepibile un’agevole distinzione fra parte e tutto), rispetto al diritto statale, in cui non emerge neppur ellitticamente tale distinzione e la simulazione si concepisce come totale senza residuo. La convivenza non ha rilievo nel diritto della Chiesa, in quanto essa enfatizza il ruolo del consenso delle parti come causa efficiente del matrimonio. Nel diritto dello Stato la convivenza prolungata inibisce l’esercizio dell’azione d’invalidità. Va rilevato come l’espressione “convivenza come coniugi” adoperata dall’art. 123 c.civ. sia di per sé ambigua, in quanto non è agevolmente comprensibile in base a quale parametro possa discriminarsi tra convivenza come coniugi e convivenza che sia sprovvista di tale caratteristica, ameno che si tenti una sovrapposizione fra i concetti di convivenza e coabitazione, ma anche in tal caso le incertezze residuano. L’art. 123 2° c. implica un tentativo di impostazione di una disciplina coerente nell’ambito delle forme di convalida matrimoniale. Si enfatizza il ruolo della stabilità situazionale ma resta, può ritenersi, la divaricazione, rispetto alla volontà originaria, orientata a negare il matrimonio. Queste ragioni possono anche far sorgere dei dubbi a proposito dell’inquadrabilità dell’ipotesi, di cui all’art. 123, 2 c. c.civ. come caso di simulazione, coerente con la disciplina generale dell’istituto (art. 1414 e ss. c.civ.), in quanto lo schema giuridico di cui all’art. 123 c.civ. potrebbe anche leggersi come negozio fiduciario o indiretto, con un utilizzo strumentale dell’istituto matrimoniale per il conseguimento di una causa atipica. L’impostazione rigida dell’art. 123 non consente di legittimare un’indagine, in rapporto alla dimostrazione di una volontà contraria, rispetto alla situazione “oggettiva” della convivenza. Pertanto, quest’ultima subisce una metamorfosi e si “matrimonializza” e forse proprio dall’art. 123, 2° c. può trarsi un’indicazione nel senso dell’esigenza di legittimare giuridicamente la convivenza more uxorio tout court sul piano del nostro diritto interno. L’efficacia preclusiva assegnata con frequenza all’intervenuta convivenza o coabitazione tra coniugi, rispetto all’assenza di riconoscimento della sentenza canonica di nullità del matrimonio, spiega, in ogni modo, l’opzione dell’ordinamento interno nel senso di parametrare la tutela economica del coniuge privo di adeguati redditi alla disciplina del matrimonio putativo, di cui agli artt. 129 e 129 bis c.civ., in base a cui vengono accordate delle somme periodiche di denaro per un periodo non superiore a tre anni a favore del coniuge in buona fede privo di mezzi e questa limitata tutela viene paralizzata dall’assenza di buona fede. L’art. 129-bis c.c. obbliga il coniuge in mala fede, cui sia ascrivibile la determinazione della nullità del matrimonio, a corrispondere all’altro una congrua indennità, anche se tale ultimo soggetto sia finanziariamente in condizioni migliori del soggetto obbligato. Le sentenze canoniche di nullità delibate dalla Corte d’Appello competente nel senso del riconoscimento si considerano in modo simmetrico sentenze di nullità matrimoniale nel diritto dello Stato e a esse, quanto alla tutela del coniuge economicamente debole, si applica la disciplina del matrimonio putativo, e non la più intensa tutela, prevista dalla disciplina sul divorzio (legge n. 898 del 1970 e successivi interventi di modifica), in relazione alla diversità ontologica fra nullità, dipendente da un difetto genetico dell’atto, e divorzio, derivante da una Decisione del Giudice, in rapporto a una crisi nello svolgimento del rapporto matrimoniale (cfr. Corte Post., sent. 27 settembre 2001). Il rilievo della convivenza dopo il matrimonio, per come sono impostate le due normative (canonistica e civilistica), rappresenta una delle maggiori divaricazioni fra le medesime. La disciplina dell’art. 123 2° comma cod. civ., ove si tenti un primo approccio interpretativo alla medesima, sembra implicare che un coniugio, costituitosi solo in apparenza, e in realtà ab origine non voluto si struttura in modo pieno solo a seguito del decorso del tempo, accompagnato dall’inerzia delle parti. Il decorso del tempo attua un salvataggio del matrimonio, in rapporto al significato che l’ordinamento giuridico attribuisce nel caso specifico a esso decorso, il quale di per sé ha un valore neutro sul piano giuridico, fatta salva l’ipotesi in cui il Legislatore attribuisca a esso un senso, come nell’art. 123, 2°c.. L’art. 123 indica come termine il periodo di un anno, entro cui far valere la simulazione, ma tale decorso del termine non determina violazione dell’ordine pubblico, tale da precludere l’eventuale delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità correlata. Una scelta come quella operata dalla disciplina dell’art. 123 in merito alla convivenza “come coniugi” può determinare un’emancipazione dal ruolo preminente della volontà dei coniugi nella costruzione del concreto matrimonio, in antitesi con quella, che appare la lettura prevalente presso i giuristi, della medesima volontà come causa efficiente del matrimonio. L’ordinamento, come già accennato, sembra non offrire meccanismi logico- giuridici, per discriminare le ”tipologie” di convivenza, nel senso che la “qualità” della convivenza è impalpabile e, quindi, distinguere quando la medesima è coniugale e quando non lo è appare un problema non risolvibile. L’art. 123 cod., civ disciplina l’accordo fra i nubendi, volto a non ottemperare agli obblighi, derivanti dal matrimonio. Un’esegesi della disposizione suggerisce di ritenere rilevante, ai fini dell’applicazione della disciplina, solo una simulazione totale del matrimonio, con esclusione di tutti gli elementi, correlati al matrimonio stesso e ciò si desume proprio dalla disposizione, secondo cui l’azione di simulazione non è consentita se i coniugi hanno convissuto come coniugi dopo il matrimonio. Una divaricazione significativa fra diritto statale e diritto canonico, quanto alla simulazione del matrimonio è proprio la rilevanza nel diritto dello Stato, secondo l’interpretazione sopra indicata, della sola simulazione totale, a differenza del diritto canonico, in cui rilevano sia la simulazione totale, sia la simulazione parziale. Va, peraltro, evidenziato come tale lettura non sia pacifica, in quanto, ad esempio, una giurisprudenza in passato ha sostenuto che un’ipotesi rilevante di simulazione parziale, quale l’esclusione della finalità di procreazione, è stata reputata non contrastante con l’ordine pubblico italiano in materia matrimoniale (cfr. Cass. 4897-1986).
Va rimarcato che prima della Riforma del diritto di famiglia del 1975, mancava una disciplina della simulazione del matrimonio, affine a quella dell’attuale art. 123 c.civ., con la conseguenza che si creava una discrasia ancor più intensa, rispetto alla realtà dell’ordinamento canonico, che già conosceva l’istituto della simulazione matrimoniale. La simulazione del matrimonio differisce nettamente, rispetto a quella del contratto, anche e soprattutto in rapporto alla disciplina da applicare, in quanto mentre il contratto simulato non produce effetto fra le parti (art. 1414, 1° c.), il matrimonio simulato produce effetti, salva la possibilità di paralizzare gli stessi, tramite l’azione di annullamento. Bisogna ragionare sull’essenza della disciplina, per comprendere la diversità fra simulazione del contratto e simulazione del matrimonio. E’ noto che per il matrimonio vale il principio di tipicità e non è consentito derogare ai diritti e doveri derivanti dall’istituto in questione. Da ciò discende la regola, secondo cui il matrimonio simulato ha, nel diritto italiano, effetti, salva la possibilità di un’azione di annullamento. Da quanto adesso esposto, si comprende la sostanziale eterogeneità delle ipotesi di simulazione del contratto e del matrimonio ed è intuibile come la disciplina afferente alla prima ipotesi non sia applicabile alla seconda. Si ritiene, peraltro, che l’art. 123 c.civ., anche in rapporto al suo tenore letterale, si riferisca proprio a un’ipotesi rientrante nel meccanismo simulatorio, nella sua generalissima accezione di creazione di una situazione apparente che nasconde quella reale ed effettiva. La realtà “negata” e occultata dall’apparenza è l’intento di non adempiere ai doveri e di non esercitare i diritti, derivanti dal matrimonio. Un paradigma, che appare da rigettare, per una costruttiva esegesi dell’art. 123, è quello della in parte inconsapevole influenza degli stereotipi ermeneutici usati dal diritto canonico, data la diversità degli ordinamenti e data anche l’impostazione diversa della regolamentazione. L’art. 123 sembra attribuire rilevanza alla sola simulazione totale, in cui venga consapevolmente “azzerata” l’intera gamma di doveri che nasce dal matrimonio. Questo sembra ricavabile dalla riflessione sulla parte dell’art. 123 in cui si prevede che l’azione di simulazione non può essere proposta, ove vi sia stata convivenza come coniugi dopo il matrimonio. Si pone un problema di interferenza fra diritto canonico e diritto interno, in rapporto alla delibabilità della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico, ove i coniugi abbiano convissuto come tali dopo la celebrazione. Un primo indirizzo conclude nel senso dell’ammissibilità della delibazione anche ove l’azione di nullità fosse presentata dopo un anno dalla celebrazione, senza differenziare le ipotesi, previste dall’art. 123 2° c. c.civ. La delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio per esclusione di uno dei bona matrimonii, secondo una tesi, deve ritenersi consentita anche se la domanda sia stata presentata trascorso un anno dalla data della celebrazione, dopo l’avvenuta convivenza dei coniugi, in contrasto con quanto previsto dall’art. 123, 2° c. cod. civ.. Se quest’ultima disposizione contenesse delle disposizioni in assoluto inderogabili, le conclusioni avrebbero dovuto essere difformi, in particolare ove si fosse ritenuto che la disciplina dell’art. 123 contempli norme concernenti l’essenza del matrimonio, secondo l’ordinamento interno. Pertanto, si è ammessa l’imperatività della disposizione, ma è come se si fosse contestualmente “temperata” tale affermazione di inderogabilità. Un’esegesi ha reputato, in antitesi con le indicazioni sopra esposte, di incorporare la convivenza successiva alla celebrazione del matrimonio nel novero dei principi di ordine pubblico matrimoniale, con la conseguenza di negare il riconoscimento delle sentenze di nullità canoniche, in conformità con la disposizione secondo cui la delibazione dev’essere negativa, ossia nel senso del non riconoscimento, ove si riscontri un contrasto con l’ordine pubblico. Ciò ha determinato un contrasto di giurisprudenza. Ad esempio, la Cass. civ., sez. I, 1 febbraio 2008, n. 2467, sostiene che  non rileva ai fini della delibazione, la circostanza che i coniugi abbiano convissuto successivamente alla celebrazione del matrimonio, in quanto tale circostanza non rileva come espressione di principi e regole fondamentali della struttura intima dell’istituto del matrimonio, secondo l’ordinamento dello Stato. La fattispecie canonistica dell’esclusione dei bona matrimonii è reputata in armonia con l’art. 123 c.c.. Una diversa esegesi orientata in senso preclusivo al riconoscimento viene motivata sulla base di un articolato raffronto tra la disciplina canonistica della simulazione e l’art. 123 c.c., che prevede la decadenza dall’azione quando sia decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio e quando vi sia stata convivenza tra i coniugi, indipendentemente dalla durata di questa. Le pronunce discriminano le due cause di decadenza in rapporto all’ordine pubblico matrimoniale nel senso che il mero decorso del tempo (un anno dalla celebrazione del matrimonio) non comporta un’incompatibilità con l’ordine pubblico interno, che invece, secondo tale orientamento, sussiste con riguardo alla seconda causa di decadenza, vale a dire la convivenza come coniugi. La Cassazione a SS.UU con la sentenza del 20.7.1988, n. 47008,  ha affermato che non è contraria all’ordine pubblico dell’ordinamento interno la sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità di un matrimonio religioso, per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, ove tale esclusione sia stata manifestata all’altro coniuge, anche se vi sia stata convivenza fra i coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio o l’azione di nullità sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione del matrimonio stesso. Si perviene a una valorizzazione dell’art. 29 Cost, in riferimento alla circostanza che la definizione di famiglia come società fondata sul matrimonio richiede di attribuire eguale importanza agli elementi della medesima definizione. Le Sezioni Unite argomentano nel senso della esclusione della qualificabilità del secondo comma dell’art. 123 c.c come principio essenziale afferente all’ordine pubblico interno, anche perché essa si riferisce alla convivenza e non alla coabitazione, e in ogni caso configura una presunzione assoluta di inesistenza della simulazione. Le Sezioni Unite si occupano anche delle implicazioni della legge sul divorzio (l. 1.12.1970, n. 898, come modificata dalla l. 6.3.1987, n. 74), in riferimento alla previsione di scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suo effetti civili  a seguito di mancata possibilità di mantenimento o di ricostruzione della comunione di vita. L’ordinamento antepone la valorizzazione del matrimonio-rapporto rispetto al matrimonio atto. Si aggiunga che il giudizio di divorzio non è pregiudiziale al giudizio di nullità matrimoniale, in quanto solo il secondo si focalizza sull’accertamento dell’invalidità dell’atto di matrimonio. Una cospicua giurisprudenza si allinea negli anni successivi all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite. Peraltro, la I/a Sezione della Corte di Cassazione con la sentenza 20 gennaio 2011, n. 134315 si discosta da quanto affermato dalle Sezioni Unite nel 1988, avallando l’idea che sia ostativa alla delibazione in senso positivo della sentenza ecclesiastica di nullità la convivenza successiva al matrimonio, in quanto la medesima inequivocabilmente testimonia l’accettazione del coniugio. Occorre che la convivenza si sia prolungata per un periodo di tempo apprezzabile e in questo
profilo vi è un’asimmetria, rispetto all’art. 123 2°c., in cui si riscontra un riferimento alla convivenza a mo’ di coniugi, senza l’indicazione di un parametro temporale ben preciso, salvo che, attraverso un’interpretazione “psicologica” del testo normativo, si intenda considerare come paradigma orientativo il termine di un anno, cui si accenna nel medesimo art. 123.  Va segnalata anche la sentenza delle Sezioni Unite n.19809 del 18 luglio 2008, le quali, avendo come paradigma di riferimento l’art. 122 c.civ. e non il 123, hanno sostenuto che la delibazione delle sentenze ecclesiastiche può essere non accordata dalla Corte d’Appello soli nei casi di antinomia “assoluta” con l’ordine pubblico. Per inciso, le SS.UU. affermano che vi sia un contrasto assoluto con l’ordine pubblico italiano quanto alle sentenze ecclesiastiche “intervenute dopo molti anni di convivenza o coabitazione dei coniugi, ritenendo l’impedimento a chiedere l’annullamento di cui sopra mera condizione di azionabilità, da considerare esterna e irrilevante come ostacolo d’ordine pubblico alla delibazione”. Si creano i presupposti per il mutamento di giurisprudenza che si cristallizza nella citata sentenza del 2011. Gli ulteriori sviluppi saranno esaminati in un successivo contributo.

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