CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE , SENTENZA 19 settembre 2013 n. 21438

a cura del Dott. Pietro Algieri

Il risarcimento del danno in caso di inadempimento di un preliminare di vendita.

I supremi Giudici della Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, hanno affrontato in maniera cristallina e con spirito risolutivo e attento, una questione particolarmente complessa, concernente la stipulazione dell’obbligazione risarcitoria in seguito a risoluzione x art. 1456 c.c. di un preliminare di vendita immobiliare senza consegna anticipata del bene al promissario acquirente inadempiente.

Prima di addentrarci nella disamina del “dictum” giudiziale, giova ricostruire, “in primis” la vicenda concreta su cui il Collegio ha dovuto pronunciarsi e, in secondo luogo, è opportuno spendere alcune considerazioni sull’obbligazione risarcitoria.

Concentriamoci, pertanto, sul caso di specie. Con atto di citazione regolarmente notificato, la società attrice conveniva in giudizio due coniugi, i quali, in virtù di una promessa di vendita, si erano impegnati ad acquistare, un’unità per il prezzo di L. 721.500.000 (oltre IVA), versando L. 20.000.000 a titolo di caparra confirmatoria e L. 124.300.000 a titolo di deposito cauzionale. La società attrice, tra le argomentazioni a sostengo delle sue ragioni,  deduceva che i medesimi non avevano fatto gli ulteriori pagamenti contrattualmente previsti, e si erano rifiutati di stipulare l’atto definitivo; chiedeva pertanto dichiararsi risolto o in via subordinata sentir risolvere l’anzidetto preliminare in data 3.7.92.

Il Tribunale adito, preso atto delle richieste attoree e considerata la contumacia dei coniugi convenuti, riteneva comprovato l’inadempimento dei convenuti che non avevano eseguito i pagamenti concordati, neppure nella forma dilazionata loro concessa dai promittenti venditori. Inoltre, secondo il Giudice di prime cure, i convenuti  si erano rifiutati di stipulare il rogito. Per tale ragione accoglieva la richiesta di la risoluzione del preliminare de quo, ma respingeva, tuttavia, le domande risarcitorie avanzate dall’attrice. La ragione che ha mosso il Tribunale ha respingere le istanze risarcitorie si basano sull’assunto che la società venditrice, nonostante la promessa di vendita e, soprattutto, stante l’inadempimento degli acquirenti, era rimasta, altresì, nel possesso del bene. Ma vi è un’altra ragione che ha spinto il Giudice ha respingere la richiesta risarcitoria. Nella motivazione si legge che:” non si riteneva provata la provvigione dedotta per l’asserita mediazione, né infine poteva ritenersi prevedibile ex art. 1325 c.c. il sopraggiunto calo sul mercato del prezzo dell’immobile promesso in vendita, ascrivibile invece a contingenze straordinarie, mentre non si versava nell’ipotesi d’inadempimento doloso come pretendeva la stessa attrice.”

Avverso la sentenza del Tribunale di primo grado, la società attrice propone appello, insistndo per la condanna dei promissari ai danni conseguenti alla risoluzione del contratto connessa con il loro colpevole e voluto inadempimento, danno che indicava in L. 433.953.338 (pari ad Euro 224.118,20) con interessi e rivalutazione o altra somma da determinarsi anche in via equitativa, che riteneva dovuta sia a titolo di danno emergente (per pagamento quote consortili, spese condominiali, ICI, provvigione al mediatore ed interessi passivi) che di lucro cessante (diminuzione valore commerciale dell’immobile e valore locativo). Nel corso del giudizio d’appello si costituivano entrambi i promissari acquirenti che rilevavano l’insussistenza del danno dedotto atteso che il bene promesso in vendita era sempre rimasto nella disponibilità della venditrice. La Corte d’Appello, esperita l’attività istruttoria necessaria al fine di decidere con una cognizione esaustiva, si pronunciava a favore della società appellante e condannava i coniugi al risarcimento del danno complessivo che liquidava in Euro 313.511,83, riconoscendo tutte le voci richieste sia per danno emergente che per lucro cessante.

I coniugi, insoddisfatti dalla sentenza di condanna del Giudice d’Appello, proponevano ricorso in Cassazione, adducendo ben 16 motivi a sostegno delle proprie ragioni.

In particolare:

a)      Con il primo motivo gli esponenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli artt. 111 e 132 c.p.c.;

b)      Con il 2 motivo gli esponenti denunciano violazione di legge in ordine alla determinazione del danno (artt. 1123-1453 c.c.) nonché il vizio di motivazione circa il danno derivato dal mantenimento del possesso dell’immobile;

c)       I coniugi, inoltre, sostenevano la violazione di legge degli  artt. 1223, 1224, 1453, 1456 c.c. con riferimento alla determinazione del danno, e, in più, adducevano il  vizio di motivazione, in ordine alla domanda relativa alla corresponsione degli interessi sulle somme che i compratori si erano impegnati a versare) e ancora, evidenziavano, con il  4 motivo di ricorso, la violazione di norme in ordine alla determinazione del danno e della corrispondenza tra richiesto e giudicato (art. 112 c.p.c. 1223, 1224, 1453, 1456 c.c.). E’ opportuno premettere che quest’ultime motivazioni, e quelle ivi contenute nei motivi che vanno dal numero 8 al 16, sono stati tutti assorbiti e trattati congiuntamente con il secondo motivo di ricorso, quello di cui alla lettera sub b);

d)      Passando all’esame del 5 motivo, con esso i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 cpc. In particolare, i ricorrenti, sottopongono all’attenzione del Collegio un interrogativo particolarmente importante, ossia, si chiedono se:” . alle c.d. prove precostituite – per quanto interessa, ai documenti – si applichi, in appello il divieto di ammissione stabilito dall’art. 345 comma 3 c.p.c. per i nuovi mezzi di prova e se la loro produzione sia o meno subordinata, al pari delle prove c.d. costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile che abbia impedito alla parte di produrle in primo grado ovvero alla valutazione della loro indispensabilità”.

L’interrogativo è legittimo e fondato e viene accolto dalla Corte. Infatti, la Corte d’Appello non ha fornito alcuna motivazione  sulla inammissibilità sollevata dagli appellanti per violazione dell’art. 345 c.p.c. con riferimento alla produzione dei documenti in esame. L’accoglimento del suddetto motivo comporta l’assorbimento del 6 e del 7 motivo, nonché delle residue doglianze.

 

Terminata, pertanto, la disamina del caso concreto, passiamo all’analisi della motivazione resa dal Collegio giudicante sui singoli motivi di ricorso.

I coniugi ricorrenti, con l primo motivo di ricorso, adducevano la violazione degli artt. 111 e 132 cp.c.  Nello specifico, i ricorrenti, evidenziavano come la sentenza della Corte d’Appello, riportava integralmente i motivi svolti dalla difesa della società appellante nella comparsa conclusionale. Così operando il giudice ad quem avrebbe violato l’obbligo di motivare la sentenza imposto dall’art. 132 c.p.c. oltre che dall’art. 111 Cost..

Tale conclusione viene avallata dal  Collegio, il quale, sottolinea che nella sentenza sono state trasfuse e fatte proprie dal giudice tutte le tesi e le argomentazioni dell’appellante contenute nella conclusionale, senza alcun autonomo cenno critico di adesione. Nonostante ciò, sottolineano i Giudici che tale non viola alcuna norma processuale e in particolare l’art. 132 c.p.c. prospettato dai ricorrenti, ma potrebbe, tutto al più, avere risvolti disciplinari a carico del redattore della sentenza.

 

Passando alla descrizione del secondo motivo di ricorso, i ricorrenti  denunciano violazione di legge in ordine alla determinazione del danno, in particolare, invocano la disciplina di cui agli artt. 1123-1453 c.c, e correlativamente, asseriscono il vizio di motivazione circa il danno derivato dal mantenimento del possesso dell’immobile. Inoltre, sostengono che la Corte d’Appello abbia applicato in modo erroneo gli articoli suindicati in ordine alla accolto alla condanna dei promissari acquirenti a corrispondere, a titolo di danno emergente, le spese di gestione dell’immobile ed in genere per tutti gli oneri derivanti dal mantenuto possesso del fabbricato da parte della venditrice (quali: pagamento quote consortili, spese condominiali, ICI, ISI), trattandosi di pagamenti effettuati a causa della mancata stipulazione del contratto definitivo. Secondo la corte distrettuale, in effetti, se ci fosse stato il puntuale adempimento dei promissari acquirenti (che si erano obbligati a concludere il contratto definitivo), le spese predette, proprio perché connesse al possesso dell’immobile, sarebbero state sopportate da costoro e non certo dal promittente venditore, che invece aveva adempiuto agli obblighi contrattualmente previsti a suo carico.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte D’appello, gli esponenti, sostenevano che le somme suddettenon sono dovute, poiché, il bene immobile oggetto della promessa di vendita preliminare, era rimasto nel pieno possesso della società venditrice e, pertanto, era precluso, ai coniugi acquirenti il godimento del bene. A sostengo di tale argomentazione, i ricorrenti, evidenziavano come né in nessuna norma del preliminare di vendita, né tantomeno negli atti precedenti al primo, è rinvenibile un obbligo per i promissari acquirenti di pagamento delle spese stesse prima del trasferimento del possesso dell’immobile, ma anzi risultano al riguardo disposizioni e clausole di opposto contenuto. Ne consegue, quindi, che tali voci di danno troverebbero ragion d’essere solo nell’ipotesi in cui la venditrice avesse optato non per la risoluzione, bensì per l’esecuzione del contratto (stipula tardiva del definitivo, ovvero domanda ex art. 2932 c.c.), giacché ” solo allora esse avrebbero costituito un aggravio ulteriore rispetto all’ordinaria esecuzione di quest’ultimo”.

I Giudici di piazza Cavour accolgono il seguente motivo di ricorso e ciò comporta, altresì, l’assorbimento del terzo motivo motivo (violazione di legge: artt. 1223, 1224, 1453, 1456 c.c. in ordine alla determinazione del danno e vizio di motivazione, con riferimento alla domanda relativa alla corresponsione degli interessi sulle somme che i compratori si erano impegnati a versare) e del e 4 motivo (violazione di norme in ordine alla determinazione del danno e della corrispondenza tra richiesto e giudicato (art. 112 c.p.c. 1223, 1224, 1453, 1456 c.c.), nonché dei motivi dall’8 al 16.

Nell’accogliere il seguente motivo di ricorso, la Corte, in maniera cristallina e lodevole, interpreta esaustivamente, l’art 1223 c.c. Preliminarmente però, è utile spendere alcune considerazioni sull’obbligazione risarcitoria.

L’art. 1223 c.c. è la disposizione d’apertura relativa al risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento delle obbligazioni preesistenti. A mente dell’articolo citato,  in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il soggetto inadempiente è obbligato a risarcire i danni che siano conseguenza immediata e diretta della condotta non esattamente adempiente e, in particolare, a risarcire il creditore per la perdita subita e per il mancato guadagno (cc.dd. danno emergente e lucro cessante).

La norma,  dunque, individua la tipologia di danni oggetto di risarcimento e il criterio di imputazione causale degli stessi al debitore inadempiente stabilendo un nesso di causalità giuridica.

Con riferimento all’individuazione del nesso causale tra la condotta inadempiente ed il danno e, con riferimento al lucro cessante, deve sottolinearsi come, a volte, non sia agevole stabilire con certezza la riconducibilità di determinati danni allegati al dedotto inadempimento. Alla fine di accertare tale nesso, soccorre  il criterio della chance che, secondo le diverse tesi prospettate, può o agevolare la prova del nesso causale sicchè, ove s’acclari con criterio probabilistico comunque superiore al 50%, che il danno è riconducibile all’inadempimento, esso sarà risarcito per intero, o costituire un bene in sè risarcibile nella misura determinata dal valore del bene perduto o non acquisito al proprio patrimonio diminuito attraverso un coefficiente percentuale pari alla chance di conseguire il bene atteso attraverso un esatto adempimento.

Sempre a livello di imputazione causale dei danni, l’art. 1225 c.c) stabilisce che, salvo il caso d’inadempimento doloso, il debitore inadempiente non sia chiamato a rispondere dei danni che non siano prevedibili al momento in cui è sorta l’obbligazione.

In tal senso la disposizione normativa si  limita al risarcimento dei danni a quelli normalmente conseguenti al mancato adempimento della prestazione oggetto dell’obbligazione. Particolarmente dibattuta è l’omogeneità di oggetti tra gli artt. 1225 . 1223 cc, ovvero, se quest’ultima norma abbia riguardo al danno evento mentre l’art. 1225 cc si riferisca ai cc.dd danni conseguenza. Nel primo caso, la norma varrebbe solo a prevedere un aggravamento  del criterio d’imputazione del danno stabilito dall’art. 1223 cc per l’ipotesi dell’inadempimento doloso con la conseguenza, che in via generale, vi sarebbe un criterio di imputazione della responsabilità più mite in caso di illecito aquiliano che in materia di inadempimento da contratto in considerazione del mancato richiamo dell’art. 1225 cc ad opera dell’art. 2056 cc.

Sempre con riferimento ai danni risarcibili, l’art. 1227 c.c. limita il risarcimento del danno a carico del debitore inadempiente in relazione al comportamento colposo del creditore che, con la propria condotta, abbia concorso a determinare il danno; in tal caso il risarcimento del danno è diminuito nella misura determinata dalla gravità della colpa e dall’entità delle relative conseguenze.

Il secondo comma dell’art. 1227 c.c., poi, stabilisce un limite al risarcimento del danno, nel senso che il debitore inadempiente non è tenuto a risarcire quella quota di danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza; secondo la giurisprudenza tale fattispecie configurerebbe un’eccezione processuale in senso. Da ultimo, ai sensi dell’art. 1228 c.c. il debitore inadempiente risponde dei danni che siano stati prodotti dagli ausiliari di cui si sia avvalso nell’adempimento dell’obbligazione; al riguardo deve escludersi, per un verso, che il debitore debba rispondere in ordine agli atti posti in essere da terzi in via autonoma (si pensi al caso di cui all’art. 1180 cc) o da terzi che siano in una posizione equidistante rispetto alle parti contrattuali (si pensi alla figura del mediatore). Per altro verso, nell’ambito della disciplina della responsabilità contrattuale, il debitore deve rispondere delle condotte poste in essere con colpa o dolo da qualsivoglia terzo di cui si sia servito nell’adempimento della prestazione; al contrario, nell’ambito della responsabilità aquiliana, si richiede il vincolo giuridico della subordinazione. Deve, peraltro, soggiungersi che, con riferimento ai terzi, l’orientamento dominante esclude la validità di clausole che esonerino il debitore ex art. 1229 cc dalla responsabilià per attività compiuta dai terzi dei quali si sia avvalso nell’adempimento dell’obbligazione, salvo per l’ipotesi della colpa lieve.

Per quanto riguarda, invece, la liquidazione del danno, l’art. 1226 c.c. stabilisce che la stessa possa essere effettuata in via equitativa dal giudice; tale facoltà è prevista sia laddove la quantificazione esatta del danno sia impossibile, sia laddove detta quantificazione risulti particolarmente complessa sotto il profilo della prova.

Per quel che concerne i danni risarcibili, la prima parte dell’art. 1223 c.c., introduce le nozioni di ‘danno emergente’ e ‘lucro cessante’.

La distinzione tra le due voci opera su un piano giuridico più che economico, considerato da un punto di vista esclusivamente economico, esse sono entrambe interamente risarcibili.

La nozione di danno emergente indica il danno afferente all’insieme di quei beni e di quegli interessi che, pur non appartenendo ancora materialmente al patrimonio del soggetto, vi si collocano in prospettiva, perché il relativo titolare ha acquisito il diritto al loro conseguimento. Il danno emergente, in altri termini, designa una posta attiva del patrimonio del soggetto, un bene su cui si è maturata una legittima aspettativa. E che, in quanto tale, possiede il requisito della attualità.

Il lucro cessante, invece, si riferisce alla violazione di un diritto non ancora maturato, un bene non ancora presente nel patrimonio del soggetto, il cui ristoro è legato alla impossibilità di realizzare l’arricchimento tipico dell’acquisizione di un nuovo diritto. E che, di conseguenza, si proietta nel futuro, richiedendo una ragionevole certezza in ordine al suo accadimento.

 

Parte della dottrina descrive i contenuti tipici del danno emergente e del lucro cessante.

Quanto al primo, questi consisterebbero nel mancato conseguimento della prestazione, nella sua difformità o mancanza di qualità, nel temporaneo impedimento del godimento di un bene, nelle prestazioni  a terzi, nei danni alla persona e ai beni dei creditori, nonché nelle spese sostenute dal creditore per riparare la cosa o sostituirla, per la conclusione del contratto o per la sua esecuzione, per la tutela e l’attuazione del suo diritto.

Quanto al secondo, essi si specificherebbero nella mancata utilizzazione del bene, nella mancata realizzazione di specifici rapporti contrattuali, nella perdita e diminuzione della capacità di lavoro, nella perdita di prestazioni alimentari e assistenziali, nella perdita della reputazione professionale.

Le nozioni delle due voci di danno, non vanno confuse con i concetti di danno da interesse positivo e danno da interesse negativo. Il danno emergente, infatti, non è pari all’interesse positivo; né tanto meno il lucro cessante è assimilabile all’interesse negativo.

Attraverso la dicotomia interesse positivo/interesse negativo, in realtà, si intende far riferimento ad una tecnica di quantificazione del danno che guarda al profilo degli interessi in gioco incisi, risarcendo comunque l’intero danno (sia in termini di danno emergente che di lucro cessante).

L’interesse positivo scandisce l’interesse alla esecuzione del contratto. Il relativo danno è dato dalla perdita che il soggetto ha subito (danno emergente) e dal vantaggio economico che ha mancato di conseguire (lucro cessante) a causa della inesecuzione del contratto.

L’interesse negativo, al contrario, si sostanzia nell’interesse a non incappare in trattative infruttuose o a stipulare contratti che, senza l’altrui illecita ingerenza, non si sarebbero conclusi o si sarebbero conclusi a condizioni diverse. Anche in tale ipotesi il danno è la risultante di entrambe le voci: le spese sostenute per la contrattazione (danno emergente) e la perdita di favorevoli occasioni contrattuali (lucro cessante).

La dottrina ha evidenziato, a tal proposito, che “si possono esemplificare casi di lucro cessante con riferimento sia a lesioni di interesse positivo (la differenza di valore del bene non consegnato che si poteva sicuramente rivendere a prezzo maggiore, o i mancati guadagni per inutilizzazione del bene destinato ad attività professionale o imprenditoriale), che a lesioni di interesse negativo (occasioni perdute di concludere altri contratti)”.

Il danno, quindi, è unico, comprensivo tanto del danno emergente che del lucro cessante e va risarcito sempre integralmente, a meno che non sia la legge a circoscrivere la risarcibilità solo a taluni aspetti.

Chiarito ciò, riprendiamo dall’analisi del secondo motivo di ricorso. Nello specifico, il collegio, applicando l’art. 1223 c.c e richiamando il principio generale della “compensalo lucri cum damno” statuito dalla medesima Cassazione  in forza del quale la determinazione del danno risarcibile deve tener conto degli effetti vantaggiosi per il danneggiato che hanno causa diretta nel fatto dannoso – è desumibile dalla regola generale, a base del risarcimento integrale del danno contrattuale o extracontrattuale, secondo la quale il danno non deve essere fonte di lucro e la misura del risarcimento non deve superare quella dell’interesse leso. Ne consegue, quindi, che secondo l’orientamento dominante in giurisprudenza, la compensazione di cui sopra presuppone che il vantaggio sia cagionato dall’inadempimento o dall’illecito, secondo il principio della causalità giuridica di cui all’art. 1223 c.c., e che esso sia inerente al bene o all’interesse leso, secondo il principio dell’omogeneità dei reciproci vantaggi ex art. 1243 cod. civ.

La corte,  a tal fine, chiarisce che i suddetti danni  trovano giustificazione nel possesso di bene immobile, ma non, diversamente da quanto opina la società venditrice, dall’inadempimento dei promissari a cui è strettamente connesso la risoluzione del contratto.

Applicando il principio “de quo” i danni pretesi dalla società venditrice non trovano ragion d’essere e non sono dovuti dai ricorrenti promissari acquirenti, dato che non sono conseguenza immediata dell’inadempimento del debitore. Il ragionamento dei Giudici viene completato tramite il richiamo a quanto statuito dal giudice di prime cure, il quale, sottolinea come il rimborso trova giustificazione solo se la società venditrice avesse optato per l’esecuzione del contratto ex art. 2932 c.c., poiché, avvalendosi di tale strumento di tutela, il mancato adempimento avrebbe comportato un ulteriore aggravio rispetto all’ordinaria esecuzione del contratto. Tuttavia la società, tramite la risoluzione, ha fatto venir meno l’obbligo di trasferimento della proprietà del bene immobile oggetto della controversia. La conseguenza logica di quanto statuito dalla Corte, è che la società venditrice, avendo fatto venir meno gli obblighi derivanti dalla promessa preliminare di vendita, ha conservato il possesso del bene e, pertanto, la medesima società non ha subito alcun pregiudizio e danno.

Quindi il danno richiesto non può prescindere dalla domanda di trasferimento della proprietà che non era stata proposta dall’attrice, mentre, d’altra parte neppure vi erano specifici obblighi contrattuali che trasferissero l’onere di tali spese ai promissari.

In conclusione, i Giudici ermellini, richiamando la massima pronunciata dal Tribunale di primo grado, statuiscono che:” a seguito della risoluzione ex art. 1456 c.c. di un preliminare di vendita immobiliare senza consegna anticipata del bene al promissario acquirente, costui, resosi inadempiente,debba al promittente venditore a titolo di risarcimento di danno emergente e relativamente al periodo intercorrente tra la data fissata per la stipula del definitivo e quella della risoluzione, le spese (condominiali e consortili) e le imposte (ISI ed ICI) correlate al possesso del bene, anche se quest’ultimo sia rimasto, nell’anzidetto periodo, nella disponibilità del promittente”.

Applicando tale massima al caso di specie, si può evincere come alla società venditrice, dato che la proprietà non è stata trasferita ai coniugi futuri acquirenti, quest’ultimi, nonostante l’inadempimento, non sono tenute a risarcire le voci di danno pretese, in quanto, queste trovano giustificazione soltanto nel possesso del bene oggetto del preliminare, ma non nella condotta inadempiente dei promissari strettamente correlato alla risoluzione del contratto oggetto specifico della domanda della società attrice, che non ha invece optato per l’adempimento coattivo del preliminare ai sensi dell’art. 2932 c.c. Detto altrimenti, il promittente venditore avrebbe potuto legittimamente pretendere il rimborso di tali spese solo nell’ipotesi in cui quest’ultima  avesse optato, per la sua esecuzione, svolgendo quindi l’azione ex art. 2932 c.c., giacché allora quelle spese avrebbero costituito un ulteriore aggravio rispetto all’ordinaria esecuzione del contratto; ma avendo optato per la risoluzione dello stesso, che comporta il venire meno dell’obbligo del trasferimento della proprietà, e quindi il mantenimento della proprietà del bene promesso in vendita, il promittente venditore non subisce alcun pregiudizio dal pagamento delle spese in questione.

 

 

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