Gli effetti delle Sentenze della Cedu sull’Ordinamento Penale interno: il punto in materia di confisca urbanistica dopo la Sentenza Corte Cost. n. 49/2015

A cura della dott.ssa Martina Tosetti

La tematica relativa agli effetti delle sentenze della Corte Edu sull’ordinamento penale italiano è oggetto di numerose pronunce della Corte Costituzionale e deve essere ricondotta nel più grande insieme delle questioni relative all’incidenza del diritto di derivazione internazionale sul nostro sistema interno, con specifico riferimento alla vincolatività della CEDU e della sua interpretazione.

Tradizionalmente discussa è, infatti, la quaestio relativa all’individuazione del corretto parametro normativo di riferimento per il cui tramite consentire l’accesso nell’ordinamento italiano delle disposizioni contenute nella Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950, ed accompagnata dal Protocollo addizionale.

Al fine di risolvere la predetta problematica, la Corte Costituzionale ha analizzato a più riprese alcune disposizioni della Costituzione che si occupano dei rapporti intercorrenti tra lo Stato italiano e gli ordinamenti internazionali, ed in particolare, gli articoli 10 e 11 Cost., nel tentativo di  – rispettivamente – ricondurre il diritto della CEDU alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute  o di qualificare la Convenzione alla stregua di un organismo di diritto internazionale cui l’Italia aderisce al fine di assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni, previa limitazione della sua sovranità a condizioni di parità con altri Stati.

Invero, la Corte Costituzionale con le sentenze gemelle nn. 348 e 349 del 2007[1] ha precisato, ancorché in materia di espropriazione per pubblica utilità e in particolare con riferimento al criterio di quantificazione dell’indennizzo spettante al privato, come non possa farsi ricorso né alla previsione di cui all’art. 10 Cost., né a quella di cui all’art. 11 Cost.: in primo luogo, il giudice delle leggi ha escluso che il diritto della CEDU possa essere ricondotto alle “norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”, giacché con tale definizione il legislatore costituzionale avrebbe inteso fare riferimento alle norme di diritto internazionale di fonte consuetudinaria e non anche al diritto che, sia pur proveniente dal sistema internazionale, derivi da accordi, trattati o convenzioni plurilaterali (cd. diritto pattizio).

Allo stesso modo, il giudice costituzionale ha escluso che la questione possa essere definita in forza dell’art. 11 Cost., atteso che, pur aderendo alla CEDU, l’Italia non avrebbe acconsentito ad alcuna limitazione di sovranità a favore della Convenzione medesima.

La necessità di individuare il parametro normativo di riferimento, peraltro, ha assunto primaria importanza a seguito della riforma del titolo V della Costituzione e delle modifiche apportate al TUE dal Trattato di Lisbona, ed in particolare all’art. 6 par. 2 TUE.

Nelle predette sentenze, del resto, la Corte Costituzionale ha individuato nell’art. 117 Cost. comma 1, così come modificato dalla legge costituzionale 3/2001, la norma regolatrice del rapporto tra ordinamento nazionale e CEDU, individuando nel richiamo ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” un rinvio mobile al diritto della Convenzione: di talché, la Corte Costituzionale riconosce al diritto CEDU il duplice ruolo di parametro interposto di legittimità costituzionale del diritto interno e di criterio interpretativo cui il giudice nazionale deve attenersi, salvo che da tale attività ermeneutica derivi un contrasto con le norme costituzionali gerarchicamente sovraordinate [2].

Diversamente, è discussa la possibilità di riconoscere un effetto diretto nell’ordinamento nazionale alle norme della Convenzione in forza dell’adesione dell’Unione Europea alla CEDU medesima: ai sensi dell’art. 6 par. 2 TUE post Lisbona, infatti, l’Unione aderisce in modo espresso alla CEDU, senza che ciò comporti una limitazione o una modifica alle competenze europee.

Tale previsione, quindi, secondo un primo orientamento, rappresenterebbe il punto di ingresso diretto delle norme CEDU, attesa la diretta vincolatività delle norme dei Trattati europei per tutti gli Stati Membri, a prescindere dall’esistenza di un’apposita norma di recepimento; invero, l’opinione prevalente, accolta di recente anche dalla Corte di Giustizia con parere del 2014[3], è nel senso di escludere che l’art. 6 par. 2 TUE determini l’effettiva adesione dell’Unione alla CEDU, rappresentando piuttosto il referente normativo per la futura attivazione del meccanismo di adesione alla Convenzione medesima da parte delle Istituzioni europee.

Pertanto, in forza di quanto stabilito dal giudice costituzionale nel 2007, il giudice a quo è tenuto ad applicare il diritto nazionale in modo conforme alle norme della CEDU, e ove tale via interpretativa non sia percorribile, il giudice deve sollevare la questione di costituzionalità della norma interna per contrarietà alle disposizioni della CEDU medesima, senza poter procedere alla disapplicazione del diritto nazionale, attesa la non diretta incidenza del diritto della Convenzione sul nostro ordinamento (a differenza di quanto avviene con riferimento al diritto comunitario in forza del cd. principio di primazia del diritto dell’Ue).

Ciò premesso, giova rilevare come sia altrettanto dibattuta la questione relativa alla diretta vincolatività delle sentenze della Corte EDU con riferimento al nostro ordinamento ed in particolare con riferimento al sistema del diritto nazionale penale, attesa la assoluta rilevanza del principio di legalità e di riserva di legge a favore del legislatore nazionale, ex artt. 25 Cost. e 1 c.p., e attesa la regola di cui all’art. 46 CEDU, per cui le sentenze definitive della Corte di Strasburgo hanno forza vincolante tra le parti e devono essere eseguite dai suoi destinatari, sotto la sorveglianza del Comitato dei Ministri.

In particolare, la questione si è posta a partire dalla sentenza Scoppola del 2009 [4] e successivamente con la sentenza Contrada del 2015[5] con cui la Corte EDU è intervenuta in merito all’interpretazione dell’art. 7 CEDU – “nessuna pena senza legge” – con riferimento ai fenomeni di irretroattività sfavorevole e retroattività favorevole del diritto, rispettivamente in materia di poteri del giudice dell’esecuzione e di concorso esterno in associazione mafiosa, nonché con la sentenza Grande Stevens del 2014[6], in materia di divieto di ne bis in idem ex art. 649 c.p.p..

Orbene con le predette pronunce, la Corte EDU affermava il principio per cui la lettera di cui all’art. 7 CEDU sancisce non solo la regola della non retroattività delle leggi penali successive più sfavorevoli ma anche una serie di corollari ulteriori in cui si estrinseca il principio di legalità lato sensu, quali – a mero titolo esemplificativo – la regola della retroattività favorevole del diritto vivente successivo e la sottoposizione delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive al divieto di ne bis in idem.

Problematica, allora, appare la questione relativa ai riflessi e agli effetti che siffatte pronunce del giudice di Strasburgo possano produrre nell’ordinamento interno ed, in particolare, con riferimento all’attività interpretativa dei giudici nazionali.

Infatti, parte della giurisprudenza successiva si è interrogata circa la possibilità per il giudice a quo di disattendere l’interpretazione data dalla Corte EDU laddove ciò sia giustificato da particolari esigenze del caso concreto o se, piuttosto, gravi su quest’ultimo l’obbligo di sollevare sempre questione di legittimità costituzionale ex art. 117 comma 1 Cost., laddove non sia possibile procedere ad un’attività ermeneutica conforme all’orientamento della Corte di Strasburgo.

La Corte Costituzionale ha affrontato la questione suddetta con riferimento alla rilevanza del diritto vivente nel nostro ordinamento – ossia del diritto così come interpretato dalla giurisprudenza prevalente -, con la pronuncia 230/2012[7], atteso il presunto contrasto tra l’art. 673 c.p.p. e degli artt. 7 CEDU e 117 Cost., nella parte in cui non prevede tra le ipotesi di revoca della sentenza di condanna anche il mutamento giurisprudenziale derivante da una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione in senso favorevole al reo.

A partire da tale pronuncia e, da ultimo, con la pronuncia n. 49/2015 la Corte Costituzionale, rivedendo in parte l’orientamento di cui alle predette sentenze gemelle del 2007, ha affermato l’obbligo per il giudice nazionale di conformarsi in via interpretativa al diritto CEDU così come rielaborato dal giudice di Strasburgo e, ove ciò non sia possibile, la facoltà di sollevare questione di legittimità costituzionale solo nel caso in cui la norma nazionale si ponga in contrasto con un orientamento consolidato del giudice della Convenzione o di una sentenza cd. pilota dello stesso giudice.

Infatti, si deve escludere – secondo la Corte Costituzionale – che il giudice nazionale sia tenuto ad interpretare il diritto interno in modo conforme al diritto CEDU nel caso in cui non sussista una giurisprudenza consolidata della Corte EDU, atteso che nel nostro ordinamento non trova spazio il diritto vivente, neanche ove ciò corrisponda ad un orientamento consolidato della Sezioni Unite della Corte di Cassazione: in queste ipotesi, allora, il giudice ordinario potrà limitarsi ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, senza necessità di sollevare la questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost., e senza dover tener conto dell’interpretazione fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Tale principio viene affermato in modo espresso nella sentenza n. 49/2015 che interviene in materia di confisca ex art. 44 comma 2 D.P.R. 380/2001, cd. legge urbanistica, con cui la Corte Costituzionale ha rigettato le questione di legittimità costituzionale della norma in parola per contrasto con gli artt. 117 comma 1 Cost. e 7 CEDU, così come interpretato in materia dalla Corte EDU con le pronunce Sud Fondi[8] e Varvara[9], sollevate dalla SS.UU. della Corte di Cassazione e dal  Tribunale di Teramo[10].

In particolare, le pronunce in parola hanno ad oggetto la dubbia natura della confisca prevista dalla legislazione urbanistica, tra sanzione amministrativa e sanzione penale in senso stretto, e la connessa problematica della sua irrogazione in caso di assoluzione dell’agente per prescrizione.

Procedendo con ordine, si rileva come l’art. 44 D.P.R. 380/2001 prescriva le “sanzioni penali” previste dal Capo II, titolo IV delle disposizioni concernenti l’attività edilizia, per i casi di inosservanza delle regole in materia di esecuzione dei lavori e di lottizzazione abusiva di terreni, salvo che il fatto non costituisca un più grave reato.

Al comma 2, in particolare, è prevista l’irrogazione della confisca dei terreni abusivamente lottizzati o delle opere abusivamente costruite, previa sentenza definitiva con cui il giudice penale abbia accertato il compimento di un’attività di lottizzazione abusiva ex art. 30 del medesimo D.P.R..

Ciò premesso, si rileva come – in primo luogo – la confisca in esame debba essere ricondotta al genus della sanzione penale lato sensu e non all’ambito della misure di sicurezza di tipo patrimoniale di cui agli artt. 236 e ss. c.p., in forza del tenore letterale della rubrica di cui all’art. 44 D.P.R. 380/2001, nonché del carattere afflittivo di una siffatta misura.

La sanzione penale, infatti, si differenzia dalla misura di sicurezza – sia essa patrimoniale o personale – in relazione ai presupposti necessari per l’irrogazione e alle regole applicabili, ancorché nel nostro ordinamento trovi spazio il principio del doppio binario, ossia della pacifica convivenza dei due rimedi, e della sottoposizione di entrambi al principio di legalità, ex artt. 1 e 199 c.p.[11].

A differenza della sanzione penale, la misura di sicurezza patrimoniale della confisca ex art. 240 c.p. può essere applicata in presenza di una pericolosità sociale intrinseca della cosa o del complesso dei beni confiscati, come nel caso delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato o delle cose che ne sono il prodotto o il profitto, sia pur in assenza di un giudizio di colpevolezza dell’agente, atteso che solo la sanzione penale è, ex art. 27 Cost., ricollegata alla responsabilità penale e personale del reo accertata dal giudice penale, in virtù della funzione general preventiva e rieducativa sottesa al rimprovero del colpevole.

Per tale ragione, l’irrogazione del misura di sicurezza è svincolata dal divieto di retroazione sfavorevole ex art. 200 comma 2 c.p., in forza del quale le misure in parola sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, con ciò potendo essere inflitte anche per fatti commessi in precedenza.

Tanto precisato, si rileva come la confisca prevista dall’art. 44 D.P.R. 380/2001 non possa essere ricondotta nell’alveo delle misure di sicurezza patrimoniali per le ragioni suddette, in quanto strettamente connessa al preventivo accertamento di una condotta di lottizzazione abusiva con sentenza definitiva del giudice penale.

In secondo luogo, si rileva come la confisca in parola venga interpretata dalla giurisprudenza prevalente alla stregua di sanzione amministrativa, ai sensi della lg. 689/1981, e, pertanto, soggetta al principio di specialità di cui all’art. 9 della medesima legge, in forza del quale nel caso in cui un fatto sia punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una o più sanzioni amministrativa deve darsi applicazione di quest’ultima disposizione speciale.

Invero, si osserva come, secondo una parte della dottrina, tale orientamento non tenga debitamente conto della rubrica di cui allo stesso art. 44 lg. urbanistica, né della clausola di salvezza di cui al primo comma “ferme le sanzioni amministrative”, elementi che, piuttosto, giustificherebbero la natura strettamente penale della confisca in parola, unitamente alla sua funzione essenzialmente afflittiva.

Tali rilievi, del resto, sono stati fatti propri dalla Corte EDU nei predetti casi Sud Fondi e Varvara: con tali pronunce, infatti, la Corte dei diritti dell’uomo ha riconosciuto il carattere afflittivo della sanzione in parola, a prescindere dall’eventuale nomen iuris o dalle interpretazioni elaborate dai giudici nazionali, e ne ha determinato la soggezione al principio di cui all’art. 7 CEDU.

In particolare, attesa la predetta natura penale, la Corte EDU ha escluso che possa essere irrogata la confisca di cui all’art. 44 D.P.R. 380/2001 nel caso di sentenza di non doversi procedere per prescrizione, giacché la sanzione penale può essere giustificata solo da un giudizio di colpevolezza, incompatibile con una pronuncia “assolutoria”, sia pur per estinzione del reato.

Con tale pronuncia, quindi, la Corte di Strasburgo non solo ha escluso la natura amministrativa della confisca in parola, ma anche ha escluso che si possa infliggere la sanzione predetta in caso di sentenza di non doversi procedere per prescrizione, a prescindere dall’eventuale accertamento incidentale della responsabilità penale e personale dell’agente.

Quest’ultimo passaggio, invero, non appare condiviso da quella parte della giurisprudenza che al contrario ammette l’irrogazione della confisca allorquando il giudice penale abbia potuto accertare, seppur in via incidentale, la sussistenza di tutti i requisiti necessari per poter muovere un rimprovero penale all’agente, ancorché debba necessariamente procedere ex art. 531 c.p.p., giacché tale soluzione sarebbe maggiormente conforme alla necessità di tutelare gli altri interessi eventualmente in gioco, quali l’altrui diritto di proprietà, e i valori dei beni della vita, della salute, dell’ambiente e del paesaggio eventualmente lesi dalla attività di lottizzazione abusiva, nonché alla funzione general preventiva sottesa alla sanzione penale.

Tale orientamento – condiviso dalle SS.UU. della Corte di Cassazione che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale, poi decisa dalla predetta sentenza n. 49/2015 – avrebbe quale logica conseguenza quella di consentire al giudice penale di valutare caso per caso la necessità di infliggere la confisca di cui all’art. 44 D.P.R. 380/2001, tenuto conto dei predetti elementi eventualmente ravvisati in concreto.

Del resto, si rileva come secondo l’orientamento in parola tale soluzione non sia necessariamente confliggente con il dato letterale di cui all’art. 44 comma 2 legge urbanistica ed, in particolare, con l’inciso “sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva”, giacché potrebbe ammettersi un accertamento incidentale del giudice penale di cui si dia conto anche nella sentenza definitiva di non doversi procedere per prescrizione.

Diversa, invece, l’impostazione adottata dall’altro giudice rimettente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 D.P.R. 380/2001 per contrarietà all’art. 7 CEDU, così come elaborato dalla predetta giurisprudenza della Corte EDU, fondata sull’assoluta impossibilità di procedere ad un’interpretazione della norma nazionale conforme al parametro normativo della Convenzione.

La predetta Corte Costituzionale n. 49/2015, pertanto, è intervenuta facendo salvo l’attuale assetto previsto dall’art. 44 D.P.R. 380/2001, rigettando entrambe le questioni di legittimità e affermando, appunto, il principio per cui il giudice nazionale è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale solo nel caso di contrasto della norma interna con il diritto vivente consolidato della Corte EDU.

Conseguentemente, si rileva come la confisca di cui all’art. 44 D.P.R. 380/2001 possa essere irrogata dal giudice anche in caso di sentenza di non doversi procedere per prescrizione, laddove nel corso del giudizio sia stata accertata in via incidentale la responsabilità penale e personale dell’agente, anche nel caso in cui si opti per la natura sostanzialmente penale della sanzione in parola.

In conclusione, precisata la non diretta vincolatività della sentenze interpretative della Corte di Strasburgo nel nostro ordinamento, si rileva come parte della dottrina abbia accolto con atteggiamento critico la predetta sentenza della Corte Costituzionale, sollevando un duplice ordine di problemi [12].

In particolare, si evidenzia come la Corte non abbia provveduto a precisare i criteri in base ai quali definire come “diritto consolidato” l’orientamento della Corte EDU, al fine di indirizzare una corretta attività ermeneutica dei giudici nazionali.

Inoltre, si rileva come l’orientamento espresso dalla Corte di Strasburgo nel caso concreto valutato dallo stesso giudice costituzionale  – ossia in materia di confisca cd. urbanistica – non si sostanzi in una singola ed isolata pronuncia insuscettibile di produrre effetti interpretativi conformi, bensì in un’interpretazione fatta propria dalla Corte EDU in diverse pronunce e confermata anche in sede di ricorso innanzi alla Grande Camera, ex art. 31 CEDU.

Infine, si osserva come parte degli interpreti dubitino della compatibilità di una siffatta soluzione con gli obblighi convenzionali, in particolare con il predetto art. 46 CEDU, e, più in generale, con il principio di buona fede e leale collaborazione di cui all’art. 117 Cost..



[2] «La Convenzione europea è infatti ormai chiamata a interagire profondamente con il nostro diritto interno, secondo una duplice e coordinata prospettiva. Anzitutto, l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo è divenuta […] parametro di costituzionalità. Questa scelta […] richiederà che i giudici italiani posseggano un’approfondita e aggiornata conoscenza degli orientamenti e delle tecniche di ragionamento della giurisprudenza europea. In secondo luogo, alle indicazioni della Corte europea si dovrà comunque adeguare l’interpretazione delle norme interne, proprio per non incorrere in vizi di illegittimità costituzionale o in censure di non conformità»: così R. E. KOSTORIS, Verso un processo penale non più statocentrico, in A. BALSAMO, R. E. KOSTORIS (a cura di), Giurisprudenza europea e processo italiano, Torino, 2008, p. 7.

[3] Il 18 dicembre 2014 la Corte di Giustizia dell’UE ha adottato il parere 2/13 pronunciandosi sulla compatibilità del Progetto riveduto di accordo per l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti umani (CEDU), presentato a Strasburgo in data 10 giugno 2013.

[4] Con la pronuncia del 17 settembre 2009, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo aveva ritenuto che la condanna all’ergastolo di un ricorrente che si trovava in quella situazione fosse contraria, tra l’altro, al principio, desunto dall’art. 7 CEDU, di retroattività della disciplina più favorevole tra tutte quelle in vigore dal momento del fatto a quello della condanna definitiva.

Si veda http://www.penalecontemporaneo.it/tipologia/0-/-/-/2434-la_corte_costituzionale_sulle_ricadute_interne_della_sentenza_scoppola_della_corte_edu/ .

[5] Corte EDU,  14 aprile 2015, Causa Contrada c. Italia, Ricorso n. 66655/13.

[6] Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia – ric. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 8668/10 e 18698/10. Si veda http://dirittopenaleeuropeo.it/wp-content/uploads/2014/04/Fidelbo-nota-a-sentenza-ne-bis-in-idem-riv.pdf .

[8] Corte EDU, 01 ottobre 2011, Kaethe Schuchter c. Italia, ric. n. 68476/10

[9] Corte EDU, 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, ric. n. 17475/09.

[10] Tribunale di Teramo, ord. 17 gennaio 2014, Giud. Tetto.

[11] M. Pellissero, Il doppio binario nel sistema penale italiano, in http://www.law.unc.edu/documents/faculty/adversaryconference/doppiobinario-italiano-pelissero.pdf

[12] F. Viganò, La Consulta e la tela di Penelope. Osservazioni a primissima lettura su C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, Pres. Criscuolo, Red. Lattanzi, in materia di confisca di terreni abusivamente lottizzati e proscioglimento per prescrizione, in http://www.penalecontemporaneo.it/area/3-/16-/-/3804-la_consulta_e_la_tela_di_penelope__osservazioni_a_primissima_lettura_su_c__cost___sent__26_marzo_2015__n__49___pres__criscuolo__red__lattanzi__in_materia_di_confisca_di_terreni_abusivamente_lottizzati_e_proscioglimento_per_prescrizione/

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