8009_news_img_3_v2Il contratto di rete: la possibile risposta delle imprese alla crisi

A cura dell’avv. Martina Tosetti[1]

 

Le nuove sfide aperte dalla globalizzazione, l’esposizione di numerose PMI e settori dell’economia alla competizione internazionale e le problematiche collegate all’attuale fase di difficoltà economica e finanziaria, hanno portato in primo piano il contratto di rete quale strumento strategico di politica industriale per lo sviluppo delle piccole e medie imprese, soprattutto in una prospettiva di internazionalizzazione e innovazione[2].

Il contratto di rete, in questa ottica, sarebbe uno strumento in grado di rispondere alle attuali esigenze di riposizionamento competitivo del sistema produttivo italiano, al punto che la stessa Conferenza delle Regioni – con un rapporto pubblicato nel 2014 – ha evidenziato come “nel quadriennio 2010-2013 siano stati emanati ben 77 bandi regionali, con stanziamenti complessivi pari a 1,28 miliardi di euro, per il sostegno dei processi di integrazione tra le imprese, allo scopo di supportare la riorganizzazione delle filiere, l’efficienza produttiva, per accrescere la competitività sui mercati nazionali e internazionali nonché la capacità di innovazione”.

Del resto, la ridotta dimensione delle imprese tipica sistema economico italiano attuale – che senza dubbio limita le potenzialità di sviluppo e la capacità di penetrazione dei mercati internazionali e penalizza il valore del rating assegnato dagli istituti di credito (con conseguente difficoltà ad accedere a strumenti di finanza)-, può essere oggi superata proprio attraverso il ricorso a forme di aggregazione tra imprese e, in particolare, attraverso l’organizzazione di reti d’imprese.

Tanto premesso, appare allora doveroso approfondire la tematica delle Reti di Impresa e, in particolare, del contratto di rete.

Il contratto di rete è stato introdotto recentemente nel nostro ordinamento con l’art. 3 comma 4-ter della legge 9 aprile 2009, n. 33 (che ha convertito con modifiche il d.l. 10 febbraio 2009, n.5 – recante misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi -)[3].

In generale, il contratto di rete ha ad oggetto l’accordo tra più imprenditori che si impegnano a collaborare al fine di accrescere sia la propria impresa che le imprese che fanno parte della rete: in tal senso, pertanto, scopo primario degli imprenditori che sottoscrivono il contratto di rete è di aumentare la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato, attraverso la collaborazione con altre aziende operative (anche) nel medesimo settore d’impresa, scambiandosi informazioni utili ed esercitando attività di interesse comune, secondo un modello di aggregazione flessibile.

Tale nuova forma di aggregazione, quindi, risponde alle finalità di accrescimento – individuale e collettivo – “della capacità innovativa e competitiva delle parti contraenti” [4], in un contesto di promozione di politiche industriali necessarie per fronteggiare la crisi economica della piccola media impresa (PMI).

A norma del citato art. 3 c. 4-ter, il contratto di rete è quel contratto con cui “più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa […]”.

Si tratta, quindi, di un contratto di impresa tradizionalmente ricondotto alla tipologia B – to – B, caratterizzato da una perfetta simmetria contrattuale tra i retisti e dallo spirito di cooperazione tra imprese: per tale motivo, si ritiene che una siffatta fattispecie contrattuale debba essere necessariamente distinta dalle tipiche forme di integrazione imprenditoriale (si pensi ai casi di acquisizione o di fusione tra società), nonché dalle diverse forme di collaborazione tra imprese previste dalla legge [5].

Ciò in quanto ogni impresa partecipante alla Rete mantiene una propria autonomia di gestione, con la novità che parte della sua attività verrà destinata al coordinamento con altre imprese retiste.

In tal senso, quindi, il contratto in parola può essere qualificato alla stregua di un contratto plurilaterale con comunione di scopo [[6]], laddove la comunione di scopo risiede – per l’appunto – nel coordinamento tra imprese finalizzato all’incremento delle capacità produttive, dell’innovazione e della competitività sui mercati di ogni impresa, attraverso la messa a disposizione della propria esperienza e del know-how imprenditoriale.

A tal fine, con il contratto di rete si predispone un programma comune, nel quale vengono individuati gli obiettivi strategici condivisi dai partecipanti, nonché le regole di partecipazione dei retisti o di eventuale successiva adesione da parte di altri imprenditori alla rete.

Invero, a norma del citato art. 3 c. 4-teril contratto può anche prevedere l’istituzione di un fondo patrimoniale comune e la nomina di un organo comune incaricato di gestire, in nome e per conto dei partecipanti, l’esecuzione del contratto o di singole parti o fasi dello stesso. Il contratto di rete che prevede l’organo comune e il fondo patrimoniale non è dotato di soggettività giuridica, salva la facoltà di acquisto della stessa ai sensi del comma 4-quater ultima parte”.

Una siffatta previsione, pertanto, apre alla possibilità che i contraenti istituiscano un patrimonio destinato, regolato ai sensi degli artt. 2614 e 2615 c.2 c.c., previsti in materia di fondo patrimoniale nei consorzi con attività esterna, con l’eccezione indicata al medesimo articolo per cui “in ogni caso, per le obbligazioni contratte dall’organo comune in relazione al programma di rete, i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo comune”.

Di talché, pare potersi affermare che al fondo patrimoniale venga impartito un particolare vincolo di destinazione – in deroga al principio di cui all’art. 2740 c.c. – con contestuale previsione di una specifica limitazione alla responsabilità patrimoniale delle imprese contraenti.

È proprio la previsione di un fondo patrimoniale o di un organo comune introdotta dall’ultimo intervento legislativo modificatore che consente di distinguere, sul piano strutturale, tre diverse forme di aggregazione in rete, con notevoli differenze in punto di regolare costituzione [7].

Andando nel dettaglio, quanto alla forma prevista dalla legge, il contratto di rete deve presentare la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata [8] e in seguito deve essere iscritto nella sezione del Registro delle imprese in cui sono iscritte le aziende partecipanti.

Il contratto di rete può essere stipulato da più imprenditori, da imprese tra loro collegate e da enti pubblici che abbiano come unico scopo l’esercizio di un’attività di impresa.

Al contratto di rete, inoltre, possono aderire nuovi imprenditori anche dopo la sua conclusione, purché presentino i requisiti soggettivi richiesti nel contratto stesso o nello statuto.

Il testo originario del contratto di rete può essere in seguito modificato, sia per quanto riguarda le regole generali, sia per quanto attiene al gruppo degli imprenditori partecipanti alla rete: tali modifiche, però, devono essere fatte con la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata e devono essere iscritte nel Registro delle imprese[9].

Quali benefici derivano dal contratto di rete? I numeri.

I benefici che si possono trarre da tale forma di collaborazione sono numerosi e riguardano l’innovazione, l’ampliamento dell’offerta, l’apertura a nuovi mercati, il miglioramento della logistica, la razionalizzazione della propria attività di impresa, l’accelerazione delle tempistiche di produzione e realizzazione, l’accesso efficace a nuove forme di sviluppo e a nuove conoscenza tecnologiche.

A parlare sono i numeri: secondo i dati relativi ai primi tre mesi del 2013, 455 aziende hanno stipulano 94 contratti di rete e le reti di impresa, ad esempio, dei settori manifatturiero, delle costruzioni, immobiliare e agro-alimentare hanno aumentato il proprio fatturato, con risultati positivi e superiori rispetto all’aumento registrato dalle imprese non appartenenti ad una rete.

Ad oggi, in Italia, i settori di impresa nei quali il contratto di rete si è diffuso maggiormente sono quelli delle attività manifatturiere, delle costruzioni, del commercio all’ingrosso, dell’informazione, delle comunicazioni e delle attività professionali[10].

A poco più di quattro anni dalla costituzione della prima rete, al giugno 2014 erano 7.900 le imprese coinvolte, dall’edilizia alla sanità, dal tessile alle nuove tecnologie, mentre a livello regionale, la Lombardia era la prima regione italiana per numero di reti (1.863), seguita da Emilia-Romagna (1.038), Toscana (796) e Veneto (601) [11].

Nel 2016, invece, i dati del Sole 24 Ore riconoscono alle Reti il valore di 86 miliardi, per circa 340mila occupati e 2.700 i contratti firmati (per circa 13.500 realtà imprenditoriali coinvolte).

Alcune problematiche.

In astratto la legge non impone vincoli territoriali di appartenenza geografica tra gli imprenditori aderenti alla Rete e anzi, come precisato dalla circolare dell’Agenzia delle entrate 15/E del 14 aprile 2011[12], possono costituire una rete anche le filiali di società estere, purché con stabile organizzazione in Italia.

Del resto una simile impostazione appare del tutto conforme al principio di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi sancito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (agli artt. 26, da 49 a 55, da 56 a 62) e confermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, definibile come il “diritto di svolgere attività indipendenti e di creare e gestire imprese al fine di esercitare un’attività permanente su base stabile e continuativa, alle stesse condizioni che la legislazione dello Stato membro di stabilimento definisce per i propri cittadini”.

Nulla vieta, infine, che una stessa organizzazione possa partecipare a più reti – anche ubicate in diverse aree territoriali – che si prefiggono obiettivi diversi ma tutti connessi o inerenti all’attività svolta dall’organizzazione stessa, a meno che non sia espressamente vietato nel singolo Contratto di rete.

Invero, i dati del Ministero dello Sviluppo Economico – Direzione Generale per la politica industriale, la competitività e le piccole e medie imprese – aggiornati al 2014 evidenziano come la maggior parte dei Contratti di Rete (1.228) vedano coinvolte imprese operanti nella stessa regione.

In particolare, dei 415 Contratti interregionali, solo 64 si caratterizzano per la copresenza di imprese operanti nel Nord e nel Sud del Paese e soli 22 per la copresenza di imprese operanti solo nel Sud del Paese.

I dati parlano chiaro:i contratti interregionali stipulati nel corso del biennio 2013-2014, rispetto a quelli stipulati nel biennio precedente, sono cresciuti in maniera inferiore al dato medio relativo al totale dei contratti: segno questo di una minore propensione delle imprese a mettersi in rete superando i propri ambiti territoriali”[13].

Rimane poco marcata la tendenza a costituire “reti lunghe”, ovvero retiche coinvolgano imprese situate in aree territoriali distanti.

A fronte di queste problematicità, resta da interrogarsi per valutare quale possa essere la causa/ le cause e quali le soluzioni.

Tra le cause possono – senza dubbio – essere annoverati la territorialità dei bandi e/o dei finanziamenti (legati al territorio regionale), i limiti strutturali/qualitativi di alcuni settori imprenditoriali (fortemente ancorati al territorio), nonché la mancanza coordinamento a livello istituzionale tra organi interregionali preposti al dialogo tra le imprese.

Evidenziate alcune delle possibili cause, si ritiene che il panorama del diritto civile offra una serie di strumenti idonei a superare le predette problematicità, consentendo un’estensione della progettualità delle Reti su tutto il territorio nazionale.

Infatti, anche Reti già esistenti ben potrebbero dar vita a rapporti commerciali con altre imprese o altre Reti, attraverso la stipula di contratti bilaterali collegati (es. reti di distribuzione, di sub-fornitura, franchising, licenza di marchio), che di regola  sono utilizzati da un’impresa di riferimento “forte” in grado di coordinare le attività delle altre imprese.

Invero, al modello della Rete di Imprese ben si collegano tutti quei contratti caratterizzati dalla “condivisione” del know-how, dell’esperienza e del bagaglio storico/economico/di progettualità di una Rete con altre imprese che – ancorché non aderenti al contratto di Rete (ad esempio perché ubicate in altre aree territoriali e interessare ad accedere ai bandi/finanziamenti di quella determinata area) – diventano “partner” della Rete medesima, consentendone l’espansione.

Quanto detto ben potrebbe essere realizzato attraverso l’utilizzo di contratti di cessione (del marchio, del brevetto o del know-how), di licenza, di franchising, di merchandising, di co-branding, di monetizzazione ed affini.

A determinate condizioni, quindi, è ben possibile realizzare accordi economici trasversali da imprese e Reti di impresa ubicate in diverse aree territoriali, allo stesso tempo garantendo elevata tutela al c.d. Know How, ovvero a quell’insieme di “conoscenze industriali e commerciali idonee a dare un valore aggiunto a produzione e/o marketing in quanto segrete”, già protette dalla disciplina del cosiddetto segreto industriale e nulla vieta alle imprese di sfruttarle commercialmente mediante appositi accordi volti a trasferire tecnologie o conoscenze e/o a concederle in licenza.



[1] Estratto di un intervento tenuto presso la Camera di Commercio di Savona in data 15.12.2015 dal titolo “Reti d’impresa e nuovi modelli di business”.

[2] http://www.regioni.it/home_art.php?id=863 Intervento del Presidente Spacca alla III Giornata delle reti organizzata da Confindustria: “Strumento strategico per lo sviluppo delle Pmi”, 20 febbraio 2014.

[3] Art. 3, commi 4-ter, 4-quater, 4-quinquies, L.  9 aprile 2009, n.33,  così come modificata dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito nella L. luglio 2010, n. 122,  ulteriormente modificato dalla L. del 7 agosto 2012, n. 134 e dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, di conversione con modifiche del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, cd. “Decreto Sviluppo bis”.

[4] T. ARRIGO, Il contratto di rete. Profili giuridici, in Contratto di rete, Franco Angeli Editori, Manager per i Manager, Milano, 2013, pp. 35 e ss..

[5] Tra queste, ad esempio, il contratto di subfornitura, disciplinato dalla L. n.192/1998.

[6] In tal senso , è concorde la dottrina: GENTILI (2012), MALTONI (2011) e VILLA (2011-2010).

[7] D. CATERINO, Appunti critici in tema di governance nei contatti di rete, in Riflessioni sul contatto di rete, profili privatistici e fiscali, Cacucci Editore, Bari, 2013, pp. 100 e ss.

[8] artt. 2699 e 2702 cod. civ.

[9] d. lg. n. 179 del 2012 (decreto crescita-bis)

[10] circolare n. 20/E del 18.06.2013 dell’Agenzia delle Entrate.

[11] Laura Cavestri – Il Sole 24 Ore – su http://24o.it/fSpcEn

[12] Rinvenibile al sito http://www.pr.camcom.it/portale/promozione/reti-di impresa/CIRCOLARE_15_E__14_APRILE_2011.pdf

[13] http://www.directio.it/multimedia/news/2014/09/27-contratto-di-rete-analisi-quantitativa.aspx

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