ProcessoNota a Corte di Cassazione, Sezione 3 civile  Sentenza 31 marzo 2016, n. 6209

A cura del dott. Mauro Leanza

L’elevato contenzioso in tema di Responsabilità professionale medica, consente di individuare un elevato numero di casi ove le cartelle cliniche dei pazienti vengono colposamente o, peggio, dolosamente alterate, di modo che la valutazione ex post circa la correttezza delle procedure cliniche adottate dai sanitari, viene resa estremamente ostica.

La sentenza in commento, ha reso un importante chiarimento circa quel che deve essere la valenza da attribuire agli atti clinici incompleti, di modo che le eventuali valutazione degli stessi non vada a pregiudicare le legittime pretese dei pazienti portatori di esiti sfavorevoli di trattamenti sanitari.

Ed invero, nel caso oggetto di esame, due genitori agiscono, in proprio e quali esercenti la responsabilità genitoriale, per il risarcimento dei danni conseguiti alle gravi lesioni subite dalla figlia, in occasione del parto. Nella specie, è contestatata la responsabilità dei sanitari e della struttura ospedaliera per non aver prestato alla neonata un’adeguata assistenza al parto e per non averle assicurato un idoneo trattamento post-natale.

La domanda viene rigettata dal Tribunale di Torino e la sentenza poi integralmente confermata dalla Corte di Appello, la quale, motiva sostenendo che, dagli elementi oggetto di valutazione, non è possibile  ravvisare la sussistenza di nesso causale tra l’ attività posta in essere dai sanitari e quanto ebbe a verificarsi in danno della neonata.

Viene quindi proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi ed accolto in riferimento al secondo, terzo e quarto. In particolare:

  • il secondo motivo censura la sentenza  – ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, individuato nel fatto che vi erano stati “vuoti temporali” e “carenze nella tenuta della cartella clinica”, tutti ampiamente evidenziati anche in sede di appello;
  • il terzo, prospetta la violazione delle “regole di governo dell’onere della prova”, in relazione all’articolo 2697 c.c. e articolo 116 c.p.c.: i ricorrenti rilevano che la c.t.u., in quanto meramente deducente, non costituiva fonte oggettiva di prova ed evidenziano come i convenuti non avessero fornito la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare l’evento, dolendosi pertanto che la Corte abbia fatto gravare sulla parte attrice l’onere della prova di fatti clinici che avrebbe dovuto ricadere sulle parti convenute;
  • il quarto motivo (che prospetta la violazione di norme di diritto individuate negli articoli 1218 e 2697 c.c. e nell’articolo 116 c.p.c.) censura ulteriormente la sentenza per essere “basata unicamente sulle risultanze della consulenza tecnica che ha definito corretto il comportamento dei medici, una consulenza deducente carente, illogica e contraddittoria”, in difetto di prova che i convenuti avessero fatto tutto il possibile per adempiere correttamente la loro obbligazione. In particolare, i ricorrenti evidenziano che, nonostante le difficoltà presentate alla nascita (con un indice APGAR che era salito da 4 a 7 solo a seguito di stimolazione manuale e di somministrazione di ossigeno), la neonata era stata “di fatto abbandonata a se stessa per sei ore”, ossia per l’intervallo (compreso tra le 3,00 e le 9,00 del mattino del 2.12.1996) in relazione al quale non risultavano effettuate annotazioni in cartella clinica, e stessi”, circa il fatto che la neonata non fosse stata lasciata priva di assistenza e che nelle sei ore non avesse avuto problemi.

La Suprema Corte, rilevato che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può tradursi, sul piano processuale, in un pregiudizio per il paziente (cfr. Cass. n. 1538/2010) evidenzia che è da ritenersi che “la Corte abbia errato laddove, a fronte di un vuoto di ben sei ore nelle annotazioni della cartella clinica, ha ritenuto di condividere l’ipotesi -formulata dai consulenti d’ufficio- che la neonata non potesse essere stata lasciata senza assistenza e non “avesse avuto problemi, anche perché al mattino le condizioni cliniche erano stabili“.

Secondo la corte, dunque, la sentenza d’appello merita censura sia sotto il profilo del vizio motivazionale (anche nei ristretti termini in cui esso assume rilevanza ai sensi del novellato articolo 360 c.p.c., n. 5) che sotto quello della violazione dei criteri di distribuzione dell’onere della prova, alla luce della pacifica carenza di annotazioni nella cartella clinica.

In altre parole è da censurata l’evenienza che vengono addossate sul paziente le conseguenze processuali della irregolare tenuta delle cartelle cliniche, invertendo, di fatto, l’onere probatorio dalla struttura sanitaria al paziente.

Tutto ciò premesso, la Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa e rinvia alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione.

 

Lascia un commento

Help-Desk