Nota a Corte di Cassazione, Sezione Penale IV,  17/09/2020, n. 26157

Avv. Prof. Leonardo Ercoli

 

L’ordinamento penale italiano ha scelto di adeguarsi agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in materia di stupefacenti predisponendo un vastissimo catalogo di disposizioni incriminatrici atte a contrastare la diffusione del consumo di droghe e di fenomeni criminali, ad esso connessi. Più specificamente, tali fattispecie sono poste a presidio di una pluralità di beni giuridici che la giurisprudenza, tanto costituzionale[1] quanto di legittimità[2], ha indicato nella salute pubblica, nella sicurezza e nell’ordine pubblico, nonché nella “salvaguardia delle giovani generazioni”, senz’altro più sensibili al consumo di droghe[3].

All’interno di un simile quadro normativo, tra le attività penalmente rilevanti va ricordata, anche e soprattutto in virtù della stretta attinenza con il tema oggetto del presente contributo, quella di “chi pubblicamente istiga all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope” di cui all’art. 82 D.P.R. n. 309 del 1990[4]; disposizione questa fortemente correlata alla fattispecie contemplata dall’art. 84, del medesimo D.P.R. n. 309 del 1990, che al co. 1 sanziona, sul versante prettamente amministrativo, le condotte di “propaganda pubblicitaria di sostanze o preparazioni comprese nelle tabelle previste dall’articolo 14, anche se effettuata in modo indiretto”[5]. Il corpus normativo summenzionato, mira nella sua interezza a reprimere ogni condotta di stimolo alla creazione, diffusione o al consumo degli stupefacenti.

Sul tema, in virtù dell’ampio apparato repressivo predisposto dal legislatore, si sono registrate notevoli incertezze per le quali,  secondo quanto ritenuto dalla terza sezione della suprema Corte[6], si è reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite, che – chiamate a pronunciarsi in ordine al se ai fini della configurabilità del reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti, fosse sufficiente la pubblicizzazione di semi di piante idonee a produrre dette sostanze, con l’indicazione delle modalità di coltivazione e di resa, oppure fosse necessario il solo riferimento diretto alla loro qualità e prospettazione dei benefici derivanti dal loro uso – è pervenuta ad affermare che «La offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricavabile una sostanza drogante, correlata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato di cui all’art. 82 D.P.R. n. 309/1990, salva la possibilità di sussistenza dei presupposti per configurare il delitto previsto dall’art. 414 c.p.,  con riferimento alla condotta di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti»[7].

In tal senso, giova senz’altro operare taluni, seppur brevi cenni, in ordine alla fattispecie di ‘istigazione’ la quale si configura come la condotta di colui il quale fa sorgere in altri un proposito criminoso prima inesistente (c.d. determinatore) ovvero rafforza o comunque stimola in altri un proposito criminoso già esistente (c.d. istigatore)[8]. La norma generale in materia di istigazione alla commissione di reati è, tuttavia, contenuta nell’art. 115, co. 1 e 3, c.p., a mente del quale non è punibile chi istiga a commettere un reato, quando l’istigazione sia accolta, ma il reato non sia commesso, salvo che la legge disponga altrimenti. Uno dei casi che fanno eccezione alla regola generale è rappresentato proprio dall’art. 414 c.p., rubricato “istigazione a delinquere”, rispetto al quale la giurisprudenza ha svolto un importante attività interpretativa volta per un verso a definire una nozione assai sfuggente e a distinguerla da categorie ad essa contigue e per altro verso ad armonizzarla con i principi costituzionali in materia di libertà di manifestazione del pensiero[9].

Detto in altri termini, ai fini della configurabilità del reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti occorre, dunque, che l’agente, per il contesto in cui opera e per il contenuto delle sue esortazioni, “si adoperi, con manifestazioni verbali, con scritti, o anche con il ricorso a un linguaggio simbolico, affinché l’uso di stupefacenti da parte dei destinatari delle sue esortazioni sia effettivamente realizzato”, avendo, sul piano soggettivo, “l’intenzione di promuovere tale uso”[10].

Ebbene, operate tali premesse di carattere generale, di notevole rilevanza si presenta la recentissima pronuncia della giurisprudenza di legittimità, oggetto della presente trattazione. Invero, il Supremo Collegio con la sentenza n. 26157/2020 ha ritenuto applicabile – conformemente a quanto concluso dai giudici del merito – il reato di istigazione a delinquere per chi fornisce un manuale ai propri clienti con tutte le informazioni di dettaglio su come si coltiva e si produce la marijuana.

La vicenda processuale prende avvio dalla decisione operata dal Tribunale di Firenze di respingere il ricorso contro il decreto di convalida della perquisizione e del sequestro probatorio proposto dal p.m., ritenendo sussistenti i requisiti richiesti per l’emissione delle misure adottate, relativamente al procedimento penale per i reati di cui agli artt. 81, 110 e 414 c.p. co. 1, istigazione pubblica alla commissione del reato di coltivazione di marijuana, tramite commercializzazione accompagnata dalle istruzioni precise e specifiche e consegna di appositi manuali per sottrarsi ai controlli (Capo A) e di cui agli artt. 1, 81 e 10 c.p e 73 co. 5 del D.P.R. n. 309/1990 (Capo B) in relazione ai quali sono stati sequestrati numerosi semi di cannabis e stecche di sigarette contenenti marijuana.

Più precisamente, secondo quanto si legge nell’ordinanza, l’attività investigativa portata avanti dagli operatori di P.G., ha dato luogo al ritrovamento, in quattro differenti occasioni, di coltivazioni consistenti di marijuana, realizzate attraverso forniture e prodotti provenienti dai negozi degli accusati e migliaia di semi di cannabis importati dall’estero, messi in commercio con indicazioni relative ai tempi di fioritura, alla percentuale di THC ricavabile e al quantitativo di marijuana estraibile da una pianta. All’interno dei locali sono stati, peraltro, rinvenuti diversi manuali, tra cui quella che è stata definita come “La bibbia del coltivatore medico indoor e outdoor” con tanto di istruzioni e fotografie illustrative.

Con ricorso proposto in Cassazione dagli imputati, la difesa assume: la falsità ed erroneità dell’interpretazione offerta dai giudici del dibattimento delle norme in materia di istigazione, contestando, nella specie, i criteri utilizzati ai fini della decisione[11]; la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine al reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti, assumendo “l’assertività del giudizio formulato dal Tribunale […], basato su una inammissibile inversione dell’onere della prova”; infine, con il terzo ed ultimo motivo, lamenta analoghi vizi in relazione ai criteri utilizzati per qualificare la funzione probatoria del sequestro[12].

La Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi, con la sentenza in esame, ha dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi confermando appieno il ragionamento operato dai giudici di prime cure.

Nella specie – si legge nel corpo della sentenza – il Tribunale ha confermato il ‘fumus commissi delicti’ dando pregio al ritrovamento della duplice copia del manuale in entrambi i negozi dei prevenuti e qualificando siffatta pratica quale preordinata all’istigazione e non già – come asserito dalla difesa – alla formazione ed istruzione del personale. Secondo i giudici del dibattimento, la circostanza che tali manuali fossero custoditi dietro al bancone delle vendite, appare indicativa di una maggiore cautela nella custodia degli stessi e, dunque, della piena consapevolezza dell’illiceità della prassi istigatoria adottata dagli imputati. Il giudicante ha, inoltre, valorizzato le indicazioni presenti sulle confezioni dei semi per ottenere le sostanze stupefacenti, sottolineando la sussistenza di ulteriori elementi fattuali quali il rinvenimento di sostanza stupefacente presso le abitazioni dei quattro dipendenti (uno dei quali arrestato in flagranza di reato) e di messaggi whatsapp presenti sugli smartphone degli stessi dai quali si è evinto che le direttive relative ai prodotti da mettere in vendita provenissero solo dagli indagati. I giudici di prime cure, dunque, hanno qualificato la condotta dei commercianti quale condotta positiva “di supporto cioè agli acquirenti mediante dettagliate indicazioni sulle modalità di coltivazione dei semi di cannabis per ottenere piante idonee a produrre sostanze stupefacenti e persino evitare controlli”.

Con riferimento al Capo B, invece, i giudici del dibattimento – rileva la Corte – hanno rigettato la tesi difensiva relativa al materiale promozionale di sigarette non in vendita motivando in diritto l’incoerenza del quantum di merce rinvenuta (360 sigarette suddivise in due stecche di circa 2 kg l’una e contenenti marijuana). Infine, viene evidenziato ad opera degli Ermellini che il Tribunale di Firenze, ha puntualizzato come ai fini del sequestro probatorio non fosse necessaria la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, qualificando come sufficienti gli elementi concreti di cui si è dato atto, giustificando la rilevanza probatoria del sequestro in questione sulla scorta della necessità di operare dovuti accertamenti peritali su semi e sigarette così da individuarne la tipologia e verificarne la capacità e l’efficacia a produrre sostanza di tipo stupefacente, l’effettivo potere drogante delle sigarette e l’eventuale eccedenza di THC rispetto ai limiti stabiliti dalla legge n. 242/2016.

Dopo aver dichiarato l’infondatezza dei ricorsi e aver illustrato l’inammissibilità degli stessi in Cassazione contro le ordinanza emesse in materia di sequestro preventivo e probatorio, gli Ermellini hanno precisato che: “in tema di stupefacenti – la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio e resina, integrano il reato di cui all’art. 73, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall’art. 4, commi 5 e 7, legge 2 dicembre 2016, n. 242, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”[13].

[1] Corte cost., sentenza 10 luglio 1991, n. 333.

[2] Cfr. fra tutte, Cass. Pen., Sez. Un., 24 giugno 1998, n. 9973, Kremi, in C.E.D. Cass., n. 211073; Sez. un., 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia, ivi, n. 239920 nonché in Foro it., 2008, II, c. 620, con nota di AMATO, Coltivazione di sostanze stupefacenti: è possibile una soluzione “alternativa” a quella “di rigore” adottata dalle sezioni unite?

[3] In particolare cfr. Sez. un., 22 gennaio 2009, Ronci, n. 22676, in C.E.D. Cass., n. 243381, la quale ha ritenuto in motivazione che «la legislazione in materia di sostanze stupefacenti, invero, non svolge in via diretta un ruolo di prevenzione delle offese alla integrità fisica dei cittadini, ma, […], ha come scopo diretto ed immediato delle sue norme incriminatrici la repressione del mercato illegale della droga e soltanto come scopo ulteriore, collocato sullo sfondo, la tutela della salute pubblica, accanto alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico […]». È stato inoltre esattamente osservato che « […] lo scopo ulteriore ed indiretto di tutelare la vita dei possibili consumatori riguarda solo un rischio ed un pericolo generali e generici per l’incolumità e la salute della massa dei consumatori, pericolo che è già incluso nel disvalore complessivo, severamente sanzionato dalle disposizioni sulla produzione e sullo spaccio degli stupefacenti».

[4] D.P.R., del 09 ottobre 1990, n° 309, rubricato Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” e pubblicato in Gazz. Uff. del 31 ottobre 1990, n. 255.

[5] Diversamente da quanto stabilito dall’art. 78, l. 22 dicembre 1975, n. 685, che sanzionava penalmente il divieto di propaganda pubblicitaria di sostanze stupefacenti con la previsione di una fattispecie contravvenzionale, l’art. 84 d.P.R. n. 309 del 1990 ha tradotto con il ricorso allo strumento dell’illecito amministrativo gli obblighi imposti, sul piano internazionale, dall’art. 10, co. 2, della Convenzione di Vienna del 1971 secondo cui “ciascuna parte, tenendo debito conto delle norme della sua Costituzione, proibirà le inserzioni pubblicitarie riguardanti le sostanze psicotrope e destinate al grosso pubblico”.

[6] La rimessione alle Sezioni unite è avvenuta con ordinanza Sez. III, 29 maggio 2012, n. 25355, Bargelli, in www.penalecontemporaneo.it.

[7]  Cfr. Cass., Sez. Un., 18.10.2012 (dep. 07.12.2012), n. 47604 in Dir. Pen. e Processo, 2013, 2, p.171.

[8] Cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, 2, Giuffrè, 2003, p. 232.

[9] Si veda, Cass. Pen., Sez. Un., 18 novembre 1958, n. 10, Colorni, in C.E.D. Cass., n. 098032. Oltre che con riferimento alla fattispecie contemplata dall’art. 414 c.p., il concetto di istigazione pubblica si rinviene in varie fattispecie di reato previste nel nostro ordinamento, quali quelle previste dagli artt. 266, 270, 271, 302, 303, 304, 305, 306, 322, 327, 414 ss., 548 c.p. ovvero da leggi speciali come l’art. 3 l. 13 ottobre 1975, n. 654.

[10] Si veda Cass. Pen., Sez. VI, 5 marzo 2001, n. 16041, in C.E.D. Cass., n. 218484. Nella giurisprudenza di merito v. Trib. min. L’Aquila, 6 febbraio 1997, in Foro it., 1997, c. 355.

[11] Più in particolare, veniva sollevata la mancata considerazione e l’accertamento in concreto dell’effettiva natura dei semi di canapa messi in vendita dagli indagati che secondo i difensori – contrariamente a quanto asserito nel merito – non erano da ricomprendere nelle categorie tabellate dalla Direttiva UE n. 53/2002, art. 17; secondariamente e l’omessa considerazione della prova documentale a difesa. Viene, infatti, evidenziato che all’interno dei documenti finalizzati alla commercializzazione vi erano anche le avvertenze volte ad informare gli eventuali acquirenti della sanzione prevista in caso di coltivazione di semii non certificate in Italia, per cui la vendita era finalizzata alla coltivazione nel rispetto di quanto sancito dalla S.U. n. 47604/2012 che ha stabilito limiti precisi alla realizzazione del reato di istigazione a delinquere di cui all’art 414 c.p. Contesta quindi il nesso di causalità intercorrente tra l’attività di commercializzazione dei semi e il messaggio indirizzato agli acquirenti per istigarli a commettere un illecito.

[12] Nella specie, verifica della tipologia dei semi, del principio drogante presente nelle sigarette e “grado di efficacia e l’eventuale eccedenza rispetto alle soglie stabilite dalla legge n. 242/2016.

[13] La corte richiama al riguardo la Cass. Pen., Sez. Un., n. 30475 del 30/5/2019, Pmt c/Castignani Lorenzo, in cui, in motivazione, la Corte ha precisato che la legge 2 dicembre 2016, n.242, qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, per le finalità tassativamente indicate dall’art. 2 della predetta legge.

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