La delibazione delle sentenze straniere

avv. Salvatore Magra

In data 10 gennaio 1997 è entrata in vigore la legge n. 218 del 31 maggio 1995 avente per titolo “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”.
Questa legge modifica le norme del codice di procedura civile (artt.796 e ss), relative al riconoscimento ed alla esecutività di una sentenza straniera in Italia.
Prima di questa riforma, chi avesse avuto interesse a rendere esecutiva una sentenza straniera in Italia, doveva chiedere alla Corte di Appello, competente per territorio, una sentenza dichiarativa di efficacia della sentenza straniera; su di lui inoltre incombeva l’onere di provare che tutta una serie di obblighi giuridici posti a garanzia del diritto alla difesa fossero stati rispettati dal giudice straniero. Se poi, la sentenza straniera fosse stata resa in contumacia, la Corte di Appello, su richiesta, doveva procedere al riesame della causa. Nella pratica corrente era usuale che l’interessato italiano, accusato all’estero, si rendesse contumace per poi chiedere il riesame della causa in Italia dove poteva sperare di trovare maggior tutela.
La legge 218-1995 di riforma del diritto internazionale privato dispone il riconoscimento automatico in Italia delle sentenze straniere. Ai sensi dell’art. 64 lett. a) si stabilisce un collegamento fra competenza internazionale del Giudice straniero e competenza del Giudice italiano. La giurisdizione del Giudice straniero deve ritenersi sussistente in base a norme sulla competenza di funzionamento generale (per esempio: per materia, per territorio), nel senso che se tale criterio si applicasse in Italia la competenza sussisterebbe in capo al giudice italiano. Le lettere b) e c) dell’art. 64 proteggono il diritti di difesa dei soggetti coinvolti, con la contestuale esigenza di vagliare la regolarità dell’introduzione del giudizio in rapporto al rispetto, appunto, del diritto di difesa e della instaurazione del contraddittorio, quanto alla correttezza della costituzione delle parti e della eventuale dichirazione di efficacia della contumacia. Occorrerà, pertanto, la regolarità formale della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio e degli altri atti da notificare.
Il controllo di conformità all’ordine pubblico, previsto dall’art. 64 lett. d), riguarda la consonanza della sentenza straniera ai princìpi di struttura in materia morale, sociale ed economica dello Stato in cui opera il riconoscimento (ad esempio sarebbe palesemente contrario con l’ordine pubblico italiano un matrimonio con connesso patto di schiavitù). In ogni caso, emerge una tendenza interpretativa a circoscrivere entro confini non eccessivamente dilatati l’eccezione di ordine pubblico, in modo da evitare un uso indiscriminato di essa, in quanto legata a parametri propri dell’ordinamento di singoli Stati (ma v. infra). La stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia manifesta questa tendenza a un’interpretazione restrittiva del concetto di ordine pubblico. Occorrerà anche tener conto dell’art. 16 della legge 218-1995, secondo cui la legge straniera non va applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico. La legge non contiene un’elencazione dei princìpi di ordine pubblico, che sono di matrice giurisprudenziale, come tali mutabili nel tempo. Va, peraltro, tenuto presente che allo stato tende a prevalere un’esegesi, secondo cui l’ordine pubblico cui occorre riferirsi è quello internazionale, da ricostruire attraverso l’individuazione di esigenze comuni ai diversi ordinamenti, con particolare riguardo alla valorizzazione della persona. Secondo la Corte di Appello di Bari, sentenza del 13 Febbraio 2009 è accoglibile la domanda di riconoscimento nello Stato italiano di provvedimenti giurisdizionali britannici, che attribuiscono lo
“status” di genitore a soggetti che utilizzino la maternità surrogata, la quale è prevista nell’ordinamento inglese, ma vietata dall’ordinamento italiano. Ciò non implica contrarietà all’ordine pubblico italiano della sentenza britannica, secondo tale orientamento giurisprudenziale e si comprende che si tratta di un’esegesi che ha come base una nozione di ordine pubblico ricostruita sul piano del diritto internazionale. Sul piano concreto, è intuibile (anche se verità assolute non esistono) che un’esegesi della nozione di ordine pubblico focalizzata sul diritto interno avrebbe portato a una conclusione differente.
Ai fini del riconoscimento automatico, occorre anche il passaggio in giudicato della sentenza straniera, secondo la legge del luogo in cui è stata pronunciata e che essa non contrasti con altra sentenza pronunciata da un Giudice italiano passata in giudicato. può ritenersi che l’impedimento sussista quando la sentenza italiana abbia pronunciato sulla stessa lite, con riferimento a un’identità di petitum e causa petendi e parti. Potrebbe, peraltro, ampliarsi l’ambito della contrarietà ostativa al riconoscimento automatico anche all’ipotesi in cui si tratti di decisione fra le stesse parti, ma con differente petitum e causa petendi, ove sussista un’incompatibilità di contenuto fra sentenza straniera e sentenza italiana. La lettera f) dell’art. 64 accoglie il principio per il quale è essenziale ai fini del riconoscimento che presso il Giudice italiano non penda un giudizio iniziato per primo, per evitare di rimediare surrettiziamente a una soccombenza subìta all’estero attraverso l’instaurazione di un giudizio in Italia, per precludere il riconoscimento della sentenza straniera.
I requisiti per il riconoscimento di sentenze straniere di cui all’art. 64 legge 218 non differiscono essenzialmente da quelli previsti dalla normativa previgente, ma allo stato il controllo della Corte d’Appello è solo eventuale e avviene quando un soggetto che ne abbia interesse contesti uno o più requisiti elencati dall’art. 64, oppure quando la parte soccombente non esegua la sentenza o si renda necessario procedere a esecuzione forzata. Sul piano concreto, in quest’ultimo caso la c.d. “delibazione” della Corte di appello serve a rendere esecutiva la sentenza.
L’art. 65 della legge 218 prevede che abbiano effetto in Italia provvedimenti stranieri che riguardino la capacità delle persone o esistenza di rapporti di famiglia o diritti di personalità quando essi siano stati individuati da autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle norme di conflitto, purché siano rispettati il limite dell’ordine pubblico e il diritto di difesa. Viene istituita una procedura di riconoscimento automatico delle sentenze in quanto atti giurisdizionali, sotto l’aspetto del giudicato sostanziale. L’ambito normativo del citato art. 65 ricomprende anche provvedimenti di volontaria giurisdizione e atti amministrativi riconosciuti o emanati dall’ordinamento individuato dalle norme internazionalprivatistiche. In ogni caso, la disposizione non è contrastante, ma complementare con quella dell’art. 64. Si potrebbe pervenire al riconoscimento degli effetti sostanziali dei provvedimenti, di cui all’art. 65, anche in assenza di un passaggio in giudicato degli stessi. Vengono previste condizioni semplificate di riconoscimento per le sentenze e i provvedimenti di cui all’art. 65, anche se ha suscitato perplessità la presenza di un’enumerazione limitata dei requisiti di riconoscimento, rispetto a quelli di cui all’art. 64, con riferimento alla non contrarietà della sentenza straniera ad altra sentenza italiana passata in giudicato e la pendenza presso il Giudice italiano di un processo per il medesimo petitum e causa petendi e per le stesse parti iniziato prima del processo straniero. Un’opinione (GAJA; BAIATTI) ritiene che il riferimento ai settori della capacità delle persone, dei rapporti di famiglia e dei diritti della personalità di cui all’art. 65 l. 218 sia esemplificativo e non escluda che il richiamo possa estendersi ad altri casi in cui in astratto si riscontrino casi e materie in cui possano rilevare nel nostro ordinamento situazioni giuridiche prodottesi nell’ordinamento competente secondo le norme di conflitto. Il procedimento semplificato di cui all’art. 65 prevale su quello di cui all’art. 64 solo ove si verifichino i presupposti di legge e nelle materie pertinenti, secondo l’interpretazione tassativa o esemplificativa che si dia della elencazione contenuta nella disposizione in esame.
L’art. 66 prevede che i provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione sono riconoscibili senza incardinare alcun procedimento laddove siano emessi dall’autorità dello Stato la cui legge sia richiamata dalle nostre norme di conflitto oppure se emanati da un’autorità competente in base a criteri corrispondenti a quelli propri dell’ordinamento italiano. Occorre che siano rispettate le condizioni, di cui all’art. 65, vale a dire la non contrarietà all’ordine pubblico e il rispetto dei diritti essenziali di difesa. Secondo la sentenza della Cassazione n. 20464-2005, può riconoscersi in automatico il provvedimento straniero di omologazione della separazione consensuale, che sia esito di una procedura di giurisdizione volontaria, di per sé insuscettibile di giudicato, purché non contrastante con l’ordine pubblico. Occorre siano stati rispettati i princìpi concernenti il diritto di difesa e che si sia applicato un criterio di individuazione del Giudice competente assimilabile al criterio applicabile nell’ordinamento italiano. Appare chiaro, pertanto, che un’eventuale, successiva domanda di separazione giudiziale con addebito all’altro coniuge proposta in Italia sarà palesemente inammissibile, in quanto essa muterebbe il titolo della separazione da consensuale in giudiziale.
La disciplina degli artt. 65 e 66 si collega con l’idea che le sentenze straniere possano esplicare, oltre che un valore documentale, anche un valore normativo e di regolamentazione di rapporti giuridici privati, a prescindere dalla delibazione (che nel sistema odierno è puramente eventuale a fronte di un riconoscimento automatico delle sentenze straniere)
Secondo l’art. 67 della legge 218, quando manchi l’ottemperanza alla sentenza straniera o si contesti la sussistenza dei requisiti cui è subordinato il riconoscimento, si attua il controllo giurisdizionale dei requisiti dalla Corte dìAppello con una competenza eccezionale in unico grado. La competenza della Corte di appello sussiste anche quando in Italia manchino beni, che consentano l’esecuzione forzata della sentenza straniera. La Corte d’appello giudica in rapporto alla sola presenza dei requisiti di cui all’art. 64 legge 218 (Cass. SS. UU. 27338-2008). Nelle ipotesi di cui all’art. 67 esiste in ogni caso una controparte, che non abbia ottemperato alla sentenza o che abbia contestato la sussistenza dei requisiti e, quindi, il procedimento ha natura contenziosa anche quando il provvedimento da riconoscere sia di volontaria giurisdizione.
La finalità principale dell’attore è di ottenere un accertamento definitivo circa il riconoscimento del provvedimento, opponibile a chi contesta il medesimo. Pertanto, occorrerà instaurare un contraddittorio necessariamente e non si potrà procedere a prescindere da esso e inaudita altera parte. La domanda andrà proposta con ricorso quando si tratti di riconoscere provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione o in caso di istanza congiunta e concorde delle parti. In tutti gli altri casi la domanda andrà proposta con citazione Peraltro, ove il giudizio sia incoato con ricorso ed esso sia contenutisticamente assimilabile a una citazione e si proceda a rituale notifica del ricorso e del pedissequo provvedimento di fissazione di udienza, per l’applicazione del principio di conseguimento dello scopo degli atti processuali (art. 156 c.p.c.) la domanda si considera validamente proposta. Nonostante l’esigenza dell’instaurazione del contraddittorio fra le parti, il procedimento avviene in camera di consiglio. Il provvedimento che accoglie la domanda di riconoscimento e quello oggetto di istanza, integrandosi reciprocamente, costituiscono titolo per l’attuazione e l’esecuzione forzata (2° c. art. 67). Se la sentenza è pronunciata nel corso di un processo, il Giudice pronuncia con efficacia limitata al giudizio. La disposizione in esame è pleonastica, in rapporto alla riconosciuta efficacia automatica delle sentenze straniere. ai sensi degli artt. 64 e ss. Legge 218.
Va chiarito il rapporto fra la Riforma del diritto internazionale privato e la materia della delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio. Si è discusso se la riforma del diritto internazionale privato con riferimento asl riconoscimento di sentenze straniere dovesse applicarsi anche al riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale. La tesi prevalente lo ha negato, in quanto ha ritenuto che debba farsi prevalere la disciplina dell’Accordo del 1984, anche in rapporto all’art. 2 della stessa legge 218-1995 che fa salve le convenzioni internazionali stipulate dall’Italia. In ogni caso, il DPR 396-2000 (art. 63, 2° c. lett. g) h)), ai fini della trascrizione nei registi dello stato civile, considera in modo distinto le sentenze pronunziate all’estero di nullità, scioglimento, cessazione degli effetti civili del matrimonio, per le quali è prevista la diretta trascrivibilità e le sentenze della Corte d’appello previste dall’art. 17 legge 847 del 1929 e art. 8, 2° c. Accordo del 18 febbraio 1984. Ciò conferma che per le sentenze canoniche di nullità il percorso della delibazione da parte della Corte d’appello competente è un meccanismo obbligato. Prima della legge 218-1995, le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio godevano di una delibazione meno rigida, rispetto a quella inerente alle sentenze degli Stati stranieri. Pertanto, permane una discrasia fra l’impronta universalistica della legge 218 e la tendenza statalista che emerge dalla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità. Può affermarsi che la legge 218 abbia determinato un ridimensionamento della compattezza nel senso della rivendicazione della sovranità statale a fronte delle sollecitazioni provenienti da ordinamenti esterni.
Permane una chiusura dell’ordinamento statale, rispetto alle pronunzia dei Giudici ecclesiastici. Le Sentenze n. 27595 del 2003 e n. 10796 del 2006. della cassazione hanno confermato la prevalenza della normativa concordataria rispetto a quella della legge 218-1995, per quanto attiene le delibazioni delle sentenze ecclesiastiche di nullità. E’ opinabile considerazre ipotesi giuridicamente omologhe le decisioni dei Tribunali Ecclesiastici e le pronunce del giudice statale straniero, in quanto è pur vero che le prime sono emanate da organi di un ordinamento sovrano, distinto ed esterno rispetto a quello italiano, ma non per questo esse appaiono del tutto parificabili alle decisioni provenienti dagli organi giurisdizionali di Stati esteri. Ciò, peraltro, non può escludere che nel tempo si provvederà a un’assimilazione.
D’altro canto la legge 121/1985, esecutiva dell’Accordo del 1984 fra Stato e Chiesa cattolica, prevedendo una disciplina specifica, si pone in rapporto di specialità rispetto alla normativa generale costituita in tal caso dalla legge 218/95 e perciò deve prevalere su questa, benché posteriore, secondo le regole di risoluzione dei contrasti fra le fonti.
Pertanto, la legge di riforma del diritto internazionale privato è ispirata al principio dell’automatismo nel riconoscimento delle pronunce giurisdizionali straniere, quella prevista dall’Accordo di Villa Madama lo vieta,
L’art. 8.2 dell’Accordo prescrive che il riconoscimento delle sentenze di nullità è condizionato all’esito positivo di un procedimento su domanda e a spese dell’interessato, senza che allo stato sia applicabile l’esenzione fiscale (per imposte di registro, bollo, etc.). Il procediemnto di delibazione va incardinato presso la Corte d’Appello nel cui distretto è compreso il Comune ove è stato trascritto il matrimonio concordatario. La domanda di delibazione può essere presentata da uno o da entrambi i coniugi, con l’assisstenza di un difensore e richiede l’esistenza di due decisioni conformi nel senso della nullità del matrimonio (dei tribunali ecclesiastici di prima e seconda istanza; c.d. doppia conforme) e l’emissione da parte del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica di un “exequatur”, ossia di un decreto che attesti l’esecutività della sentenza ecclesiastica di nullità secondo il dirito canonico. Ove la domanda di delibazione sia congiunta si applica il rito camerale e il giudizio, dai tempi più rapidi, si introduce con ricorso. Se la delibazione è richiesta da un solo coniuge si applica il rito ordinario e la delibazione è introdotta con citazione, da notificare alla controparte. Occorrerà produrre copia autentica della sentenza di nullità del matrimonio.
In sede di delibazione la Corte d’Appello accerta il rispetto delle parti di agire e resistere in giudizio in modo conforme a quanto previsto dal codice di procedura civile, anche se non è necessaria una coincidenza fra norme statali e norme canoniche, e la stessa Corte dovrà vagliare il rispetto dell’ordine pubblico. Per esemplificare, nel diritto canonico la prova testimoniale avviene in modo segreto e riservato, a differenza che nel rito civile statale, ma la sentenza della Cassazione n. 4166-1989 ha escluso che tale diversità possa precludere l’esito positivo della delibazione della sentenza, in quanto le norme del processo canonico consentono un controllo successivo sugli atti di causa.
La Corte d’appello verifica che il giudizio riguardi un matrimonio canonico trascritto in base all’art. 8.1 dell’Accordo, ossia un matrimonio concordatario. Essa Corte, inoltre, deve accertare che ricorrano le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere e cioè: a) l’assenza di una sentenza passata in giudicato emessa nell’ordinamento giudiziario italiano che sia contrastante con la sentenza ecclesiastica; b) che non sia pendente innanzi ad un giudice italiano un giudizio fra le stesse parti avente il medesimo oggetto (cioè la nullità dello stesso matrimonio, anche se per motivi diversi da quelli addotti in ambito ecclesiastico), instaurato prima che la sentenza canonica sia divenuta esecutiva; c) che la sentenza ecclesiastica non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano.
Qualora renda esecutiva nell’ordinamento italiano la sentenza ecclesiastica poiché risultano soddisfatte tutte le suddette condizioni, la Corte medesima può statuire provvedimenti provvisori di natura economica a favore del coniuge in buona fede (cioè di quello che ignorava, al momento della celebrazione, la causa di nullità) il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rinviando poi le parti al Tribunale competente per ogni definitiva statuizione in materia (artt. 129 e 129-bis cod. civ., riferentisi alla disciplina del matrimonio putativo).
Va evidenziato, peraltro, che la Corte d’Appello non può effettuare un riesame nel merito della vicenda da cui è scaturita la sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale.
Il concetto di ordine pubblico è pur sempre nebuloso, anche quanto alla delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità. Secondo la sentenza a SS.UU. della Cassazione n.16379-2014 non si può procedere a delibazione se è intercorsa fra i due interessati convivenza more uxorio per almeno tre anni. Si è inteso porre un freno alla delibazione “facile”. Peraltro, sono sorte delle critiche, in quanto per molti anni la rilevanza della convivenza coniugale è stata controbilanciata dalla “specificità dell’ordinamento canonico”, cui fa riferimento lì’Accordo del 1984. La ‘convivenza’ (che, in caso di matrimonio, si identifica nel matrimonio-rapporto), avrebbe un autonomo rilievo costituzionale, oggetto di specifica tutela. La convivenza si dovrebbe strutturare come formazione sociale, in cui l’uomo svolge la sua personalità.
Secondo la sentenza delle Sezioni Unite, in definitiva, il “matrimonio rapporto”, il quale ha certamente origine nel “matrimonio atto”, può ritenersi un’espressione sintetica comprensiva di molteplici aspetti e dimensioni dello svolgimento della vita matrimoniale e familiare che si traducono, sul piano rilevante per il diritto, in diritti, doveri, responsabilità, caratterizzandosi così, secondo il paradigma dell’art. 2 Cost.. Viene in mente anche l’espressione enigmatica “convivenza come coniugi” utilizzata nell’art. 123 cod. civ.. La convivenza è il fulcro del matrimonio -rapporto nella prospettiva dell’ordinamento italiano e blocca la possibilità di un riconoscimento della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Peraltro, viene fissato un limite minimo di convivenza tale da determinare l’impossibilità della delibazione e la Cassazione svolge un’interpretazione analogica, la quale potrebbe anche suscitare delle obiezioni, in quanto il Collegio ritiene che, per affinità di ratio, possa trarsi orientamento da una precisa disposizione, vale a dire dalla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, commi 1 e 4, (Diritto del minore ad una famiglia) nel testo sostituito dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 6, comma 1, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonchè al titolo 8 del libro primo del codice civile), secondo i quali: “1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto(….). 4 Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto.
Le Sezioni Unite, con un argomentare tale da far presumere forti critiche da parte di Studiosi vicini alla Chiesa cattolica, nell’intento di risolvere un contrasto di giurisprudenza piuttosto acceso, tengono ferma l’affermazione secondo cui la convivenza coniugale, successiva al matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto e con i caratteri dianzi individuati (protratta per tre anni o più tempo), valga quale “limite generale” d’ordine pubblico italiano alla delibazione delle sentenze di nullità matrimoniale pronunciate dai tribunali ecclesiastici. Da questa asserzione consegue necessariamente, ai fini dell’applicazione di tale limite generale, l’irrilevanza nell'”ordine civile” di qualsiasi vizio genetico del matrimonio canonico, tutte le volte che esso sia stato accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell'”ordine canonico” nonostante la sussistenza dell’elemento essenziale della convivenza coniugale: in tutti questi casi, infatti, si manifesta chiaramente la radicale collisione di detti vizi genetici del matrimonio canonico con l’individuato limite d’ordine pubblico. Come dire che il matrimonio atto, pur partorendo il matrimonio rapporto soccombe rispetto a esso, come una crisalide da cui nasce una farfalla.
Queste considerazioni vengono dalle Sezioni Unite considerate coerenti con il principio di laicità dello Stato italiano e con l’affermazione della specificità dell’ordinamento canonico. Deve ritenersi, secondo un’interpretazione conforme alla Costituzione ed all’Accordo, che al richiamo concordatario alla specificità dell’ordinamento canonico non può darsi altro significato che quello di fungere da mera premessa generale, esplicativa delle ragioni per le quali vengono indicate, le tre prescrizioni relative alla competenza, al giudicato e al divieto di riesame del merito della sentenza canonica, vincolanti il giudice della delibazione: tali prescrizioni infatti costituenti le uniche limitazioni, consensualmente accettate dalle Parti, al pieno ed effettivo esercizio della giurisdizione (e, quindi, all’esercizio della sovranità dello Stato italiano) da parte del giudice della delibazione (cfr., supra, n. 3.2.2., lett. c) sono tutte riconducibili alla premessa “specificità” dell’ordinamento canonico per il fatto che “il vincolo matrimoniale (…) in esso ha avuto origine”.
Orbene, per comprendere come in diritto tutto sia relativo va attenzionata ancora la sentenza 1495/2015, con cui la Corte di cassazione, ha ritenuto che il ricorso congiunto annulli l’ostacolo della convivenza prolungata ai fini della delibazione.
Pertanto è stato espresso il seguente principio di diritto: la convivenza tra coniugi (peraltro rimane il rischio di non capire esattamente quando una convivenza sia tra coniugi e quando no) durata più di tre anni preclude la delibazione nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario. Tale eccezione può essere rilevata soltanto dalla parte interessata, perché prevista a tutela dell’affidamento incolpevole di uno dei due coniugi (il problema si intreccia con quello della tutela del coniuge debole.).
La delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico, facendo venir meno retroattivamente i suoi effetti civili fin dal giorno della sua celebrazione (lasciando tuttavia impregiudicati gli eventuali rapporti di filiazione e tutti gli obblighi giuridici ad essi collegati), fa venir meno anche l’esigenza della domanda di divorzio, qualora esso non sia già giudizialmente intervenuto tra le parti. Viceversa, è possibile la delibazione della sentenza ecclesiastica anche se sia già intervenuto il divorzio, i cui effetti personali e patrimoniali già eventualmente ivi statuiti restano comunque fermi ed efficaci.

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