di Domenico Di Leo

            La formula in commento è conosciuta nelle fonti del diritto romano a partire dal periodo classico, quando nel bonus, prudens et diligens pater familias i giuristi individuarono il soggetto sui iuris – e dunque libero – che amministra accuratamente i propri affari, secondo il criterio del capo dell’azienda agraria domestica, a base della civiltà romana dell’epoca.

In epoca giustinianea, attraverso la compilazione delle Digestae et Pandettae, i commentatori elevarono il criterio a modello normativo di condotta. Attraverso il c.d. diritto intermedio, il concetto è giunto nelle esperienze codicistiche europee le quali hanno assunto, nei confronti della diligenza del buon padre di famiglia, atteggiamenti non univoci: ad esempio, in Germania la locuzione è stata abbondonata in favore di altra giudicata ‘più moderna’[1] mentre essa è sopravvissuta integra in Francia e in Italia[2].

Secondo la lettura proposta dal Bianca [3] la diligenza del buon padre di famiglia rientra fra i criteri di determinazione della prestazione. Le fonti di determinazione della prestazione sono il titolo, gli usi e la legge. Fra i criteri generali di determinazione dell’impegno assunto dal debitore – l’esatto adempimento – rientrano la buona fede e la diligenza mentre i criteri legali di determinazione del bene dovuto sono la qualità, l’integrità materiale e giuridica, le qualità essenziali e la regolarità legale.

Tralasciando la buona fede in quanto esula dalla presente indagine, in generale la diligenza ex art. 1176 c.c. è l’impiego delle energie e dei mezzi utili alla realizzazione di un determinato fine. Dunque, il debitore diligente deve impiegare in modo adeguato le energie e i mezzi utili al soddisfacimento dell’interesse del creditore. La diligenza dovuta dal debitore si pone, ad un tempo, come criterio fondamentale di determinazione della prestazione dedotta in obbligazione e come criterio di responsabilità del debitore. Nel primo senso, la diligenza si pone come indice della precisione dell’abilità tecnica necessarie richieste al debitore per adempiere esattamente all’obbligazione; nel secondo senso, la diligenza indica lo sforzo che il debitore deve sostenere per evitare l’inadempimento o l’inesattezza dell’adempimento.

Tradizionalmente, si è soliti distinguere due modelli normativi di diligenza: il primo tiene in considerazione le condizioni individuali e soggettive dell’agente (si parla in proposito di diligentia in concreto) mentre il secondo è individuato attorno alla figura di un tipo sociale che astrae da fattori personali (diligentia in abstracto). Parallelamente, a carico del debitore sarà configurata la colpa in concreto, quando emergeranno profili di condotta strettamente aderenti alle condizioni individuali dell’agente mentre a questi verrà contestata la colpa in astratto quando invece sarà necessario proteggere l’affidamento che ogni creditore ripone in no standard economico – sociale di attuazione del rapporto. In un contesto economico caratterizzato dalla produzione dei prodotti secondo un modello capitalistico e dalla rapidità degli scambi di beni e servizi, il modello oggettivo – astratto è più rispondente agli interessi del creditore che, in questo modo, è sollevato dall’incertezza relativa alla sfera del debitore[4].

Le moderna codificazioni hanno abbandonato il dualismo legato alle figure della dicotomia culpa in abstracto – culpa in concreto, preferendo aderire ad un modello strettamente oggettivo e funzionale alle preannunciate esigenze dei traffici giuridici e commerciali. Dire che il debitore è tenuto alla diligenza del buon padre di famiglia vuol dire che il debitore è tenuto ad un grado di diligenza media, in quanto il criterio in esame è improntato al canone della normalità, richiedendo una diligenza normalmente parametrata al fine da raggiungere. Il canone della normalità non muta nel caso del comma 2 dell’art. 1176 c.c.: infatti, nell’adempiere alle obbligazioni professionali, la diligenza è valutata in rapporto alla natura dell’attività esercitata. In tal caso, la diligenza richiesta al professionista è pur sempre diligenza media che esige la perizia normale della categoria professionale cui il debitore appartiene[5].

Tuttavia, il criterio della diligenza media, richiesta nell’esatto adempimento della prestazione comune e professionale, è suscettibile di essere derogata dalla legge o dal titolo. Il debitore può essere tenuto ad un grado di diligenza maggiore o minore e, correlativamente, ad una diversa misura della responsabilità[6]. Inoltre, per quanto già detto, la graduazione del grado di diligenza incide anche sulla determinazione della prestazione perché impone al debitore una qualità, minore o maggiore, della prestazione e un più o meno elevato modello di condotta e di risultati[7].

La norma di riferimento è contenuta nell’art. 1176 c.c. che rivela la generalità d’applicazione del criterio: infatti, oltre che in riferimento all’adempimento delle obbligazioni, esso è richiamato in ordine a singoli rapporti obbligatori di fonte legale ( ad esempio, in tema di diligenza del tutore, ex art. 382 c.c.) e convenzionale (in tema di diligenza richiesta al mandatario e depositario, rispettivamente agli artt. 1710 e 1768 c.c.). anche in giurisprudenza, i giudici sono soliti far riferimento alla diligenza, anche in assenza di un rinvio al medesimo ex lege, come nel caso in cui si condiziona l’ammissione della prova ex artt. 2724 n.3e 2725 c.c. alla prova che il contraente interessato abbia custodito il documento, andato perduto, con la diligenza del buon padre di famiglia[8].

All’interno della diligenza, quale criterio per la determinazione della prestazione dedotta in obbligazione e come criterio di responsabilità del debitore, è possibile individuare quattro singoli aspetti[9] i quali concorrono, ciascuno in varia misura a seconda della prestazione dedotta in obbligazione, a integrare lo sforzo diligente dovuto[10] da parte del debitore per adempiere esattamente alla sua obbligazione e soddisfare l’interesse del creditore.

  1. La cura indica l’attenzione volta a soddisfare l’interesse del creditore. Secondo questo aspetto, il debitore deve attivarsi per preparare attentamente e tempestivamente l’adempimento, prendendo le iniziative necessarie e utili, valuti criticamente le proprie capacità e i propri mezzi al fine di non impegnarsi in obbligazioni superiori alle proprie capacità intese in senso lato, e segua l’esecuzione della prestazione.
  2. La cautela esprime l’osservanza da parte del debitore delle misure di cautela idonee ad evitare l’inadempimento dell’obbligazione, da un lato, e il pregiudizio di altre posizioni meritevoli di tutela del creditore, dall’altro. In capo al debitore incombe un dovere di non ledere l’altrui sfera giuridica, personale e patrimoniale, a prescindere da uno specifico rapporto obbligatorio: in caso di lesione dell’altrui sfera giuridica, scatta in capo all’autore della lesione la responsabilità extracontrattuale discendente dall’art. 2043 c.c.. Interessante è notare che l’operatività della predetta norma non esclude che il debitore possa essere vincolato a tenere un certo comportamento anche in base al rapporto dedotto in obbligazione: infatti, a proposito si parla di obblighi distinti e accessori rispetto all’obbligazione principale, individuati per meglio soddisfare l’interesse creditorio. Si tratta degli obblighi di protezione o di sicurezza il cui fondamento è ravvisato nella buona fede[11]. Tuttavia, occorre evidenziare che al debitore non è richiesto un comportamento secondo buona fede, sub specie della correttezza, ma da esso si esige un comportamento oggettivamente adeguato a evitare l’evento dannoso e, cioè, un comportamento diligente. Secondo parte della dottrina[12], non è necessario ricorrere all’artificio di ricostruire obblighi accessori perché il comportamento diligente è parte integrante della prestazione dedotta in obbligazione e il debitore è tenuto ad una prestazione di contenuto prudente.
  3. La perizia, quale terzo aspetto della diligenza, esprime la necessità che il debitore impieghi, nell’adempimento dell’obbligazione, adeguati strumenti tecnici e conoscenze teoriche commisurate alla complessità dell’obbligazione medesima. L’utilizzo di mezzi e conoscenze adeguate va valutato in senso oggettivo, nel senso che a nulla rilevano le eventuali maggiori conoscenze teoriche o particolari abilità tecniche individuali. Perizia e diligenza sono due momenti del medesimo fenomeno: l’adempimento dell’obbligazione deve essere diligente perché il debitore deve utilizzare nozioni e strumenti adeguati al soddisfacimento dell’interesse creditorio. Come accennato supra, la misura della perizia è normale, nel senso che essa va parametrata al modello del buon professionista, quale misura obiettiva e scevra dalle personali capacità individuali. Una diversa misura della perizia può essere dovuta in relazione alla qualifica professionale del debitore: infatti, nell’ambito di una professione possono aversi differenti gradi di perizia in relazione ai diversi gradi di specializzazione. In tal caso, la diligenza varierà dal livello della diligenza professionale generica a quello della diligenza professionale variamente qualificata.
  4. Ultimo aspetto della diligenza è rappresentato dalla legalità, intesa quale osservanza delle norme giuridiche rilevanti al fine di assicurare l’interesse del creditore e della sua sfera giuridica. L’osservanza delle norme giuridiche si impone nello svolgimento di attività giuridiche e materiali: ad esempio, nell’esecuzione dell’obbligazione, il debitore non può esimersi dal rispetto della normativa in materia previdenziale o di tutela dell’ambiente.

Il tema della diligenza ex art. 1176 c.c. rileva ai fini della distinzione fra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. In tale prospettiva, la diligenza può essere intesa come fonte d’interazione del contenuto dell’obbligazione (c.d. diligenza – dovere) oppure come parametro del giudizio di responsabilità per inadempimento (c.d. diligenza – criterio). Tradizionalmente, tale distinzione viene ricondotta agli artt. 1176 e 1218 c.c.: nel senso che il parametro per valutare l’adempimento delle obbligazioni di mezzi è rinvenibile nella diligenza ex art. 1176 c.c. mentre l’esatto adempimento, ex art. 1218 c.c., è il parametro alla stregua del quale valutare la condotta nelle obbligazioni di risultato. I dubbi interpretativi dipendono dal fatto che, storicamente, dall’entrata in vigore del codice civile ad oggi, si sono avvicendate diverse e opposte teorie in punto di fondamento della responsabilità da inadempimento e, correlativamente, diverso è stato il rapporto teorico costruito fra l’art. 1176 c.c. e l’art. 1218 c.c.

In relazione alla complessità e alla velocità dei traffici economici e commerciali lato sensu, appare anacronistico un impianto normativo che distingua rigidamente l’obbligazione di mezzi da quella di risultati, indicando la differenza nel fatto che nella prima, che connota le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, l’obbligo non attiene ad un risultato finale ma alla corretta e diligente prestazione dell’assistenza tecnico-professionale adeguata con il solo limite dell’art. 2236 c.c. che fissa il limite superiore della diligenza esigibile dal professionista; mentre, l’obbligazione di risultato consiste nel fare un opus e l’esatto adempimento consiste nella realizzazione di quanto dedotto in obbligazione. Ad oggi, sembra prevalere una lettura congiunta delle due norme: L’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale circa il fondamento della responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. ha portato a nuovi approdi: il Bianca ha mediato le due posizioni dottrinarie, succintamente delineate, elaborando un concetto di impossibilità oggettiva e parametrata all’agente modello della categoria del debitore. La tesi proposta dal Bianca accoglie la tesi di un’impossibilità oggettiva la quale, emendata dai caratteri rigorosi delineati dall’Osti[13], aggancia la valutazione dell’impossibilità a criteri oggettivi; inoltre, rinunciando all’eccessiva soggettivizzazione voluta dal Natoli[14], il Bianca[15] rapporta l’impossibilità ad un agente modello appartenente alla categoria del debitore, relativa cioè a un agente vicino al debitore per consentire una valutazione in concreto dell’esigibilità o meno della prestazione dedotta in obbligazione. Sul piano probatorio, quando risulta che l’impossibilità della prestazione dedotta in obbligazione è oggettiva e relativa all’agente modello e il debitore è stato diligente ex art. 1176 c.c., avuto riguardo al suo comportamento in vista dell’adempimento della prestazione e alla luce dei canoni di correttezza e buona fede, si può concludere, secondo il Bianca e secondo la giurisprudenza maggioritaria che ne accoglie le conclusioni, che il debitore non è rimproverabile e perciò non gli si può imporre il risarcimento del danno.

In questo modo, attraverso il riferimento all’agente modello, si elimina il rischio di dover esentare il debitore da ogni responsabilità, in presenza di difficoltà (comunque risolvibili, senza richiedere sforzi eroici al debitore) che, per quel particolare debitore, possono sembrare notevoli: infatti, aderendo alla tesi di Natoli, il debitore dovrebbe essere sempre esentato quando le difficoltà, relativamente a quel particolare debitore, siano insormontabili per i motivi più vari. Il riferimento all’agente modello elimina le storture applicative nei casi limite, riconducendo sul piano probatorio in concreto l’esame del comportamento del debitore e dei caratteri dell’impossibilità della prestazione. Quando la prestazione diviene impossibile per causa non imputabile al debitore, l’obbligazione si estingue, in base al combinato disposto dell’art. 1218 c.c. e art. 1256 co. 1, c.c. inoltre, l’effetto estintivo consegue al venir meno dell’interesse alla prestazione da parte del creditore: infatti, tale interesse deve sussistere naturalmente nel momento genetico del contratto –  altrimenti il creditore non si vincolerebbe attraverso uno schema negoziale valido – e deve permanere sino al momento finale, quello dell’esecuzione della prestazione. In tale prospettiva, il venir meno dell’interesse del creditore alla prestazione è un modo atipico, al pari dell’inadempimento, di estinzione dell’obbligazione.


[1] L’espressione utilizzata nel par. 276 BGB è:’ diligenza richiesta dal traffico giuridico’.

[2] Seguendo l’esempio francese, il codice civile del 1865 mantenne la formula originaria nell’art. 1224 c.c., per poi trasfonderla nel codice civile vigente, all’art. 1176 c.c. In questo senso, può dirsi che nell’esperienza giuridica italiana, il criterio della diligenza esprime una sostanziale continuità storica.

[3] Bianca M. C., Diritto Civile, Vol. 4, L’obbligazione, pag. 85 ss.

[4] Per completezza, si riferisce che nel diritto romano e intermedio coesistevano i due modelli: per la generalità dei rapporti obbligatori operava quello astratto della diligentia diligentis patris familias; per alcune figure gestorie – es: il socius o il tutor – operava il modello concreto riferito all’accortezza usuale spesa dal debitor nei suoi affari, cioè la diligentia quam in suis rebus exhibere solet. Diffusamente, cfr., Carbone E., Voce Diligenza del buon padre di famiglia, in Il Diritto – Enciclopedia Giuridica del Sole 24 Ore, Vol. 5, 2007.

[5] L’equazione buon padre di famiglia – uomo medio risale alla teoria della graduazione della colpa, in auge presso i glossatori, la quale individuava tre livelli di diligentia, richiesta al debitore: minima, per gli obblighi assunti a titolo gratuito, exacta, per la generalità dei rapporti ed exactissima per gli obblighi di convenienza esclusiva (ad esempio, il comodatario). Ad ogni livello di diligentia corrispondeva un correlativo grado di rilevanza della negligenza (culpa lata, levis, levissima), collocando il parametro in esame nel mezzo della scala di valutazione. Tuttavia, nonostante la teoria della graduazione della colpa non sia più seguita e parte della dottrina fondi il c.d. sforzo diligente dovuto sulla regola della correttezza,  quale corollario della buona fede, intesa in senso oggettivo, la giurisprudenza maggioritaria insiste nel propugnare l’idea che il buon padre di famiglia altri non sia che ‘il soggetto di media avvedutezza ed accortezza’ (cfr. Cass. Civ., sez. III, 23 dicembre 2003 n.19778); e, nell’ambito delle professioni intellettuali, è richiesta una diligenza professionale media, ex art. 1176 comma 2 c.c. (cfr. Cass. Civ., sez. II, 2 agosto 2000, n. 10431). Così, Carbone E., cit.

[6] L’obbligo della diligenza massima rende responsabile il debitore anche per colpa lieve mentre l’obbligo della diligenza minima lo rende responsabile solo per colpa grave.

[7] Cfr. Bianca, cit.

[8] Cfr. Cass. Civ., sez. II, 5 gennaio 1998, n. 43; conf., Cass. Civ., sez. II, 17 novembre 2005, n. 23288.

[9] Ancora Bianca, cit., pag. 92 ss.

[10] Cfr. nota n. 5.

[11] Sostiene questa tesi, circa il fondamento degli obblighi di protezione nella bona fede, Di Majo, Obbligazioni in generale, 316.

[12] Bianca, op. cit.

[13] All’indomani dell’entrata in vigore del codice civile, la costruzione teorica largamente condivisa, facente capo a Osti, sosteneva che il fondamento giuridico della responsabilità da inadempimento andava senz’altro rinvenuto nell’art. 1218 c.c. e che l’art. 1176 c.c. conteneva un parametro inutile ai fini della predetta responsabilità per un motivo di ordine sistematico – in quanto l’art. 1176 c.c. è collocato all’interno della Sezione I del Capo II, rubricata e dedicata all’adempimento in generale, e non invece nel Capo III, destinato a disciplinare l’inadempimento delle obbligazioni – e per un motivo di ordine formale, in quanto la responsabilità del debitore doveva essere fissata in modo oggettivo e assoluto, per garantire sicurezza e certezza ai traffici giuridici. In particolare, Osti relegava ai margini il criterio della diligenza in quanto il comportamento diligente del debitore era irrilevante se questi non eseguiva esattamente la prestazione dedotta in obbligazione. Unico limite al rigore della ricostruzione teorica in esame era rappresentato dalla prova liberatoria che il debitore doveva fornire circa l’impossibilità della prestazione per una causa a lui non imputabile: per essere completamente liberato dalla prestazione e dal risarcimento del danno, il debitore avrebbe dovuto provare l’esistenza di una causa indipendente dal suo volere e che questa causa aveva determinato l’inadempimento; ove il debitore non avesse fornito tale prova, come nel caso della causa ignota, non poteva ritenersi liberato e perciò era destinato a soccombere sul piano probatorio. Secondo la teoria di Osti, l’impossibilità che liberava il debitore doveva essere oggettiva e assoluta, nel senso che chiunque al posto del debitore, con uno sforzo notevole, anche eroico, non avrebbe potuto adempiere alla prestazione oggetto dell’obbligazione.

[14] Alla ricostruzione teorica proposta da Osti, seguì la tesi di Natoli il quale restituiva all’art. 1176 c.c. l’importanza ad esso negata in precedenza, alla luce dei canoni civilistici della correttezza e della buona fede, secondo un’interpretazione     costituzionalmente orientata. Secondo il Natoli, l’art. 1218 c.c. e l’art. 1176 c.c. andavano letti in parallelo fra loro: tale strabismo normativo assicurava l’adeguamento dell’inadempimento della prestazione dovuta alla condotta del debitore e, se la condotta di questi fosse stata coerente con i principi di correttezza e buona fede, il debitore sarebbe andato esente da rimprovero perché, nel caso concreto, egli aveva assolto a tutti gli oneri, compresi quelli accessori, in vista della prestazione e, quindi, non gli si poteva muovere nessun rimprovero. Sovvertendo le conclusioni dell’Osti, il Natoli proponeva dunque un’impossibilità esimente che fosse soggettiva e relativa a quel debitore il quale, nonostante lo sforzo di diligenza polarizzato verso l’adempimento, aveva fallito. In tale ricostruzione, l’art. 1176 c.c. diventa il canone per valutare la diligenza del debitore: e se il debitore è diligente non può essere rimproverato né sanzionato chiedendogli di risarcire i danni, benchè non abbia adempiuto.

 

[15] Bianca, op. cit.

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