Commento critico alla sentenza n. 5919 del 2016. Verso un intervento delle Sezioni Unite?

Dott. Andrea Cuoghi

Con la sentenza n. 5919, depositata in data 24.3.2016, la Corte di Cassazione, mutando il suo precedente orientamento, ha dichiarato la nullità del contratto normativo, nella specie per l’esecuzione di ordini di investimento, concluso tramite scambio di proposta ed accettazione, in assenza della produzione in giudizio della copia contenente la sottoscrizione della banca.

Le motivazioni della Corte di Cassazione n. 5919 del 2016

La pronunzia in commento ha voluto discostarsi apertamente dalle molteplici decisioni, rese anche dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che, in casi analoghi, hanno spesso ritenuto che la prova della valida conclusione del contratto potesse essere ricondotta alla dichiarazione del cliente di aver ricevuto una copia firmata del contratto, oppure che il negozio giuridico si fosse perfezionato con la produzione in giudizio del documento da parte della banca o con gli atti di esecuzione dello stesso.

Al contrario, con la decisione n. 5919, la Corte ha ritenuto che la dichiarazione del cliente di aver ricevuto una copia del contratto sottoscritta dalla Banca non fossa idonea a provare il perfezionamento del contratto in forma scritta, in quanto “La verifica del requisito della forma scritta ad substantiam si sposta … sul piano della prova …. ove trova applicazione la disposizione dettata dal codice civile che consente di supplire alla mancanza dell’atto scritto nel solo caso previsto dall’art. 2725 c.c., comma 2, che richiama l’art. 2724 c.c., n. 3: in base al combinato disposto di tali norme, la prova per testimoni di un contratto per la cui stipulazione è richiesta la forma scritta ad substantiam è dunque consentita solamente nell’ipotesi in cui il contraente abbia perso senza sua colpa il documento che gli forniva la prova del contratto”.

Al di fuori di tale caso, per la prova del contratto non solo sarebbe preclusa la prova testimoniale, essendo altresì “interdetta … la confessione (Cass. 2 gennaio 1997, n. 2; Cass. 7 giugno 1985, n. 3435) quale, in definitiva, sarebbe la presa d’atto, da parte [del cliente n.d.r.] della consegna dell’omologo documento sottoscritto dalla banca”.

Dall’altro lato, la validità del contratto non sarebbe neppure ricollegabile, come da consolidato orientamento di Cassazione, alla produzione in giudizio del contratto da parte del soggetto che non l’ha sottoscritto, o dalle manifestazioni di volontà del contraente di volersi avvalere del contratto, poiché il “perfezionamento … non può verificarsi se non ex nunc, e non ex tunc (ed infatti il contratto formale intanto si perfeziona ed acquista giuridica esistenza, in quanto le dichiarazioni di volontà che lo creano siano state per l’appunto formalizzate)”2, ma il perfezionamento ex nunc non sarebbe possibile, in quanto colliderebbe con “il principio dell’inammissibilità della convalida del contratto nullo ex art. 1423 c.c.”.

In altre parole, “la forma scritta, quando è richiesta ad substantiam, è … elemento costitutivo del contratto, nel senso che il documento deve essere l’estrinsecazione formale e diretta della volontà delle parti di concludere un determinato contratto avente una data causa, un dato oggetto e determinate pattuizioni, sicché occorre che il documento sia stato creato al fine specifico di manifestare per iscritto la volontà delle parti diretta alla conclusione del contratto”.

Analisi e commento critico

La portata della decisione in commento, se pur innovativa, non deve essere fraintesa, e la statuizione di diritto in essa contenuta non dovrebbe essere utilizzata quale arma giuridica da sfoderare per far accertare la nullità di qualsivoglia contratto bancario privo della firma della banca.

Occorre innanzitutto riflettere sull’ambito nel quale la stessa è stata resa.

La Corte ha dichiarato la nullità di un contratto quadro per mancanza di forma scritta in violazione dell’art. 23 TUF, motivando nel senso sopra esposto.

Ne deriva che, in primo luogo, il principio di diritto affermato dal Giudice di legittimità non parrebbe potersi applicare in via estensiva a tutti i contratti bancari di qualsiasi natura.

Il particolare settore nel quale ha avuto modo di esprimersi la Corte risulta, infatti, caratterizzato da regole e principi volti a proteggere il cliente che, nelle fasi che precedono e seguono le operazioni di investimento, deve essere adeguatamente informato su tutti gli aspetti fondamentali ed i rischi assunti in merito a quanto convenuto con l’istituto di credito.

Più precisamente, la stipulazione di un contratto quadro, al quale generalmente seguono operazioni d’investimento finanziario che possono pregiudicare gli interessi del cliente, soprattutto quando quest’ultimo non riveste la qualifica d’investitore professionale, non è sovrapponibile a quella relativa ad un contratto di mutuo chirografario o di conto corrente ai quali viene data normale esecuzione nel rispetto della disciplina di settore.

In altri termini, la fattispecie attenzionata dai Giudici di Piazza Cavour verte su un caso peculiare, su una specifica materia, ovverosia quella della intermediazione finanziaria e dei rapporti tra contratto quadro e singole disposizioni di investimento. Ciò significa che i principi ivi espressi non sembrerebbero applicabili sic et sempliciter all’ambito bancario.

Ciò posto, la pronunzia in commento presenta ulteriori profili di criticità che meritano di essere presi in considerazione.

La Corte di Cassazione ha espressamente affermato che la stipulazione del contratto per cui è richiesta la forma scritta ad substantiam non potrebbe essere desunta dalla confessione di uno dei contraenti.

A ben vedere, l’art. 2725 c.c. stabilisce che “quando, secondo la legge o la volontà delle parti, un contratto deve essere provato per iscritto, la prova per testimoni è ammessa soltanto nel caso indicato al n. 2 dell’articolo precedente. La stessa regola si applica nei casi in cui lo forma scritta è richiesta sotto pena di nullità“.

La prova per testimoni di un contratto per il quale è prevista la forma scritta a pena di nullità non è dunque mai possibile, salvo che il contraente non abbia perduto senza colpa il documento ai sensi dell’art. 2724, n.2 c.c.. È possibile notare come analoghe limitazioni siano previste dagli artt. 2729 e 2739 c.c., per le presunzioni e per il giuramento, mente alcun divieto sia posto esplicitamente alla possibilità di rendere una confessione avente ad oggetto il contratto scritto.

In considerazione del fatto che il legislatore ha adottato una specifica, rigorosa e puntuale disciplina per la prova del contratto per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, si può ritenere che avrebbe esplicitamente vietato anche la confessione se non avesse voluto consentirne l’utilizzo. In mancanza di specifica esclusione, pertanto, la confessione giudiziale o stragiudiziale del contraente sembrerebbe essere ammissibile.

Inoltre, la Suprema Corte ha evidenziato che la consegna del documento firmato da uno dei contraenti non può essere equiparata allo smarrimento incolpevole e quindi sfuggirebbe all’eccezione di cui all’art. 2725, comma II, c.c..

Sul punto giova precisare che ove il fatto di tale consegna risulti da confessione stragiudiziale, sembrerebbe maggiormente conforme ai principi contenuti nel Codice Civile, porre I ‘accento sulla considerazione per cui chi spiega l’eccezione di nullità dovrebbe allegare e provare il fatto costitutivo della sua eccezione, che pare doversi individuare nell’assenza di firma della banca (anche) nel documento che risulta essere in suo possesso (o in possesso del debitore garantito), ciò mediante la produzione di tale documento che smentisca la confessione stragiudiziale.

Più precisamente, se nella documentazione prodotta dalla banca si rinviene un contratto relativo ad una operazione bancaria (conto corrente o mutuo chirografario) nel quale il contraente dà atto di aver ricevuto dall’istituto di credito una copia di tale documento di identico tenore e firmato dalla banca, occorre che a tale affermazione il cliente vi replichi specificatamente con un’allegazione di segno contrario, sostenendo, ad esempio, di aver sì ricevuto un documento, ma neppure questo firmato dalla banca.

Parrebbe dunque potersi dedurre che, se alla confessione stragiudiziale il cliente non aggiunge una contestazione giudiziale, la circostanza dell’esistenza e della consegna di un documento firmato dalla banca e, dunque, di un contratto valido, apparirebbe non bisognosa di essere ulteriormente provata.

Proseguendo con l’analisi delle criticità contenute nella pronunzia in commento, non può non essere rilevato come la stessa si sia posta in aperto e consapevole contrasto con tutta la granitica giurisprudenza espressa dalla stessa Corte di Cassazione (tra le tante, Cass. 16 ottobre 1969 n. 3338; Cass. 22 maggio 1979 n. 2952; Cass. 29 aprile 1982 n. 2707; Cass. 18 gennaio 1983 n. 469; Cass. 17 giugno 1994 n. 5868; Cass. 11 marzo 2000 n. 2826; Cass. 1 luglio 2002 n. 9543; Cass. 17 ottobre 2006 n. 22223; da ultimo Cass. 22 marzo 2012 n. 4564).

In aggiunta, la recente giurisprudenza di merito, quanto meno nei casi in cui si è trovata a giudicare sulla validità di contratti di conto corrente o di finanziamento, sembrerebbe voler prendere le distanze dalla sentenza n. 5919 del 2016.

Infatti, pur riconoscendone il prestigio, i Tribunali di merito non condividono il principio in essa affermato in quanto, in primis e come appena sottolineato, in contrasto con tutta la giurisprudenza pregressa della Corte di legittimità, in secondo luogo, per la diversità della materia decisa. Preferiscono dunque ribadire ed applicare il precedente orientamento secondo cui in materia di contratti bancari, quanto alla mancata sottoscrizione da parte della banca (segnatamente del contratto di apertura di conto corrente e dell’apertura di credito), la produzione in giudizio delle scritture da parte del contraente che non le abbia sottoscritte, come pure il comportamento tenuto dalla parte stessa in corso di svolgimento dei rapporti (mediante il periodico invio degli estratti conto), rende manifesta l’intenzione di avvalersi dei contratti, con conseguente perfezionamento degli stessi, non risultando alcuna revoca del consenso da parte del contraente che ha sottoscritto. I contratti risulterebbero così perfezionati in forma scritta mediante scambio di corrispondenza (si veda, Tribunale di Padova, 29 maggio 2016; Tribunale di Torino, 5 luglio 2016; Tribunale di Napoli, 13 giugno 2016).

Da ultimo, si ritiene utile accennare ad un’ulteriore problematica sottesa alla soluzione adottata dalla Corte nella pronunzia oggetto della presente analisi e, questa volta, riguardante proprio le operazioni di investimento.

Ci si riferisce, in particolare, alla possibilità per il cliente di invocare in giudizio, a proprio piacimento e vantaggio, la nullità delle sole operazioni risultate negative, così di fatto ponendo in essere un vero e proprio abuso del diritto che dovrebbe, pertanto, essere evitato.

Conclusioni

Tutte le circostanze sopra rilevate indicano come in questo momento il settore contrattualistico bancario viva uno stato di incertezza giuridica, stante le antinomie sviluppatesi nella giurisprudenza di merito e di legittimità.

Auspicando, quindi, un intervento pacificatore delle Sezioni Unite, si vuole concludere l’odierna riflessione con un quesito: in ambito bancario e finanziario, le norme che pongono l’obbligo di forma scritta per i contratti (art. 117 TUB e art. 23 TUF) sono state con evidenza inserite a scopo informativo, e così di tutela, del cliente. Pertanto, se la forma scritta è prevista al solo scopo di garantire la piena conoscenza del cliente delle norme contrattuali, a quale scopo deve essere richiesta la sottoscrizione della banca, che quel contratto certamente conosceva e voleva?

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