La legge n. 119/2013: l’ennesima occasione mancata

Avv. Valeria Rinaldi

La Legge n. 119 del 15 ottobre 2013, di conversione del D.L. n. 93 del 14 agosto 2013, porta a riflettere su temi che appartengono davvero ad ognuno di noi e che involgono l’intero universo delle relazioni interpersonali, familiari e non solo.

La legge 119/13 è punteggiata da una nitida consapevolezza: la cinta domestica, che dovrebbe costituire luogo di autorealizzazione dell’individuo – secondo quanto auspicato dai Costituenti all’art. 2 Cost. – è ormai luogo di compressione di diritti irrinunciabili, quali quello della salute, dell’incolumità personale, dell’onore ecc. E’ ormai il luogo in cui vengono messi a dura prova tutti i filamenti dell’essere/fare quotidiano.

Dal focolare domestico s’irradiano componenti di maggior pervasività, afflittività e dolorosità, destinate ad abbattersi anche sul più forte ed imperturbabile essere umano: gelosie costanti, impedimenti e divieti immotivati, eccessi di severità, fantasie perverse, violenze nel linguaggio, imposizioni di culti religiosi, invadenze, usurpazioni, persecuzioni, violazioni della privacy e della corrispondenza, ingiurie, diffamazioni, calunnie; ed ancora, condotte fraudolente, truffe grandi e piccole, illeciti bancari, smarrimenti colposi, falsificazioni nella firma, danneggiamenti, distruzioni, alienazioni dei beni della comunione.

Torti germogliati e patiti in famiglia, guasti senza ritorno, rotture irreparabili, che possono sfociare nei più gravi reati di stalking, molestie e violenze sessuali, maltrattamenti, lesioni, omicidio (tentato o consumato).

La difesa dell’alcova – e non solo di questa – passa attraverso la legge in commento.

Anche la difesa della donna, ancora considerata soggetto debole al pari di minori e disabili, passa attraverso il suddetto provvedimento legislativo.

Preliminare a qualsivoglia trattazione è la (sorprendente) constatazione sulla velocità con cui il Decreto legge n. 93/’13, conv. in Legge n. 119/’13, è venuto alla luce: è sufficiente confrontare la data di adozione di entrambi i provvedimenti legislativi per rilevare un tempismo del nostro Legislatore penale che fa invidia ai migliori maratoneti, come è stato ironicamente osservato.[1]

Altrettanto beffardamente, si è osservato che il decreto d’urgenza si apre con la nota e consueta locuzione “disposizioni urgenti”, quasi fossimo in perenne emergenza ed allarme.

Così si leggono – non senza noia ed un certo senso di asfissia – “passaggi costruiti su roboanti dichiarazioni[2], accompagnati dalla pubblicazione di post sui social network attesa l’immediatezza di comunicazione (e la possibilità di pavoneggiarsi) che questi consentono. Una terminologia, quella serpeggiante tra i gangli della legge e le ramificazioni della Rete, che agisce, sfruttandolo, sul senso di insicurezza e allarme della collettività: “l’immaginario collettivo viene, così, raggiunto da un linguaggio funzionale ad amplificare il messaggio repressivo, infarcito di espressioni altisonanti da ‘guerra santa’, da ‘crociata’, da ‘vecchio far west’ ”.[3]

Ma è nel fatto di essere legge di conversione di un decreto governativo che sta il “peccato originale” di cui la Legge 119/2013 è affetta. Più precisamente, il suo essere sorta – o risorta, che dir si voglia – dalle ceneri di un pacchetto sicurezza che tratta il tema della violenza di genere e della violenza domestica come un problema di carattere emergenziale, anziché come prassi sistemica e strutturata da sfidare mediante strumenti normativi e non solo.

Il provvedimento è stato presentato dal Governo come decreto legge sul “femminicidio”[4]. Storia antica, ma anche goffo neologismo che letteralmente designa l’omicidio della donna.

Eppure non vi è alcuna disposizione nella normativa in commento che impieghi tale termine, neppure nella sua accezione più lata, ossia come l’insieme di violenze fisiche e psicologiche contro la donna in quanto donna, sì da relegarla ad un ruolo subordinato, negandole, di fatto, il godimento dei diritti fondamentali (fra tutti, la libertà, l’autodeterminazione e la vita).[5]

La normativa che ci si accinge a “spigolare” ha preferito, piuttosto, riferirsi alla “violenza di genere” (si veda il Capo I della legge di conversione del decreto governativo, titolato “Prevenzione e contrasto alla violenza di genere”).

E’ concetto che, a compasso allargato, ricomprende diversi delitti contro la persona concepiti a tutela delle donne in quanto aventi, in rerum natura e secondo l’id quod plerumque accidit, quali soggetti passivi prevalentemente donne (ad esempio, l’art. 612 bis c.p.).[6]

Anche le contaminazioni provenienti dall’ordinamento inter e sovra-nazionale si muovono lungo questa direttrice: la tutela della donna, ma non in quanto soggetto debole (al pari di minori e disabili), bensì quale soggetto “vulnerabilizzato” dalla violenza subita.[7] Il legislatore domestico, invece, erra nel momento in cui tratta la piaga della violenza sulle donne come un’emergenza da fronteggiare attraverso l’adozione di politiche garantiste o, peggio, protezionistiche.

Quello che piuttosto grava sullo Stato è nient’altro che l’obbligo di cui all’art. 3 della Carta Costituzionale, indiscusso fondamento politico dell’equilibrio di genere.[8]

Dopo aver solennemente sancito che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (comma 1)”, la norma scolpisce il secondo[9] compito della Repubblica, ossia quello di rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese (comma 2)”.

Ebbene, dell’obbligo di rimozione degli ostacoli esistenti per l’effettivo godimento da parte delle donne dei loro diritti fondamentali deve evidentemente farsi carico anche il Legislatore penale.

Se, come detto, la materia tiene conto delle compulsioni provenienti dal diritto inter e sovra-nazionale, in ordine temporale rilevano e si apprezzano:

  • la Convenzione delle Nazioni Unite sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, ratificata dall’Italia con Legge n. 132/1985 (anno 1979);
  • la risoluzione n. 52/1986 adottata dall’Assemblea generale dell’Onu sulla “Prevenzione dei reati e misure di giustizia penale per eliminare la violenza contro le donne”, con cui si dichiara la volontà di eliminare e condannare aspramente tutte le forme di violenza contro le donne, esortando gli Stati membri ad adottare appropriate misure, anche di ordine processuale (anno 1986);
  • la “Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne” (anno 1993), adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, individuando poi (anno 1999) il 25 novembre quale “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”;
  • la “Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma per l’Azione”, approvata dalla IV Conferenza Mondiale dell’ONU sulle donne (anno 1995);
  • l’art. 7, co. 1, lett. g, dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale inserisce “stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità” tra i crimini contro l’umanità (anno 1998);
  • la risoluzione sulla violenza contro le donne, adottata dal Parlamento europeo, ed il Programma Daphne sulle misure preventive tese a combattere la violenza contro bambini, giovani e donne;
  • il rapporto della United Nations Women (agenzia dell’ONU), con l’obiettivo di promuovere e velocizzare il processo di uguaglianza ed il rafforzamento delle condizioni delle donne nel mondo (anno 2011).
  • la direttiva 2012/29/UE, relativa alle “norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato” (anno 2012).

Come fra l’altro certificato dall’Organizzazione mondiale della sanità nell’ambito di uno primo studio condotto sugli abusi fisici e sessuali, la violenza contro le donne è anche un problema sanitario di dimensioni epidemiche”; nel prosieguo, l’OMS ha continuato a pubblicare, con regolarità, nuovi documenti sulle ripercussioni sanitarie della violenza di genere.[10]

Ma è la Convenzione di Istanbul (“Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”), sottoscritta ad Istanbul l’11 maggio 2011, a rappresentare il varo del D.L. n. 93/2013.

L’Italia è stato il quinto Paese a ratificarla, con Legge del 27 giugno 2013, n. 77.

L’aspirazione? Creare un’Europa libera dalla violenza contro le donne: affabulazione dal sapore epico, ma che, a ben vedere, è affetta da un’intrinseca debolezza gnoseologica, il che vale a spiegare perché entusiasma gli individui non meno di quanto essi stessi la disattendano. Invero, la debolezza e la fallacia dell’uomo è un dato ineliminabile: non può pensarsi di estirpare la piaga della violenza con formule sterili e vacue, confinate nell’ambito del non razionalmente fondato; ma, soprattutto, non può pensarsi di prescindere da una preventiva opera di razionalizzazione delle regole dell’agire umano ed, in definitiva, dello stesso essere umano.

Il Capitolo VI della prefata Convenzione è specificamente dedicato a “Indagini, procedimenti penali, diritto procedurale e misure protettive”.

A mezzo dell’art. 45, in particolare, l’Europa chiede agli Stati membri “l’imposizione di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive” per i delitti di violenza di genere: efficaci misure prevenzionali, in primis, di tutela delle vittime e di punizione degli autori, in secundis.

Il nostro Paese ha recepito il monito, creando, con la Legge del 2013, una sorta di “universo parallelo” in cui la violenza domestica o, comunque, maturata nel contesto di relazioni affettive (pregresse od attuali), scansa le regole generali di diritto penale sostanziale, di diritto penale processuale, di diritto amministrativo (se pensiamo agli interventi in chiave preventivo-amministrativa; ad esempio, l’ammonimento del questore) e di interventi sociali dedicati.[11] Tenuto poi conto della continua ed inarrestabile espansione di tale sottosistema, sottoposto com’è a sollecitazioni sovra-nazionali.

Il dato riportato si trae:

a)   anzitutto, dalla intestazione della rubrica dell’art. 1 del Decreto legge: “Norme in materia di maltrattamenti, violenza sessuale e atti persecutori”, nelle quali si esauriscono le modifiche di tipo sostanziale rispetto alla normativa penale previgente, con attenzione a condotte che costituiscono lo sbocco di una degenerazione in senso violento dei rapporti fra persone legate ovvero precedentemente legate da un rapporto affettivo e che, assai più spesso, vengono in essere nel contesto di una violenza di genere in cui la donna diviene vittima per mano del suo partner o ex partner[12];

b)   secondariamente, la modifica dell’aggravante prevista dal comma 5 quater dell’art. 609 ter c.p., ove è assegnato rilievo alla relazione affettiva[13], anche non accompagnata dalla convivenza; la configurazione di un’aggravante comune nell’inedito n. 11 quinquies dell’art. 61 c.p.,[14] che dà rilievo alla cd. violenza assistita[15];  l’inquadramento della violenza domestica[16] tra i presupposti palliativi della misura di prevenzione dell’ammonimento (e della concessione del permesso di soggiorno allo straniero).

La valutazione della relazione affettiva come dato rilevante per l’applicazione di aggravanti o di misure di prevenzione merita di essere salutata con favore, in quanto si muove correttamente verso la considerazione della relazione interpersonale affettivamente connotata come base fattuale potenzialmente criminogena, che favorisce la disinibizione verso azioni violente” nonché troppo spesso “giustificate da percezioni del reale distorte dalle componenti emotive che originano dal rapporto[17] e di cui i protagonisti della relazione sono preda;

c)   infine, l’inasprimento sanzionatorio che ha interessato le fattispecie di cui alla lett. a) di cui sopra, segno di una maggior riprovevolezza con cui il Legislatore penale ha inteso stigmatizzare la violenza agita in danno di persona a cui si è o si è stati legati.

In tal senso contaminati sono stati reati di:

  • maltrattamenti in famiglia (572 c.p.), oggi “Maltrattamenti contro familiari e conviventi” (si è assecondato l’orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato, secondo cui oggetto di tutela è anche il convivente more uxorio, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per le strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo, a prescindere dall’esistenza di vincoli di parentela, coniugio o affinità)[18];
  • violenza sessuale (609 bis c.p.), se i fatti sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni diciotto della quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il tutore e nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza e nei confronti di donna in stato di gravidanza (609 ter, co. 1, nn. 5, 5 ter e 5 quater c.p.);
  • minaccia (612 c.p.);
  • atti persecutori (612 bis c.p.), altrimenti noto come “stalking” (termine mutuato dall’inglese to stalk, che nel linguaggio venatorio significa “fare la posta alla preda”; in modo traslato, designa l’attività di colui che sorveglia, insegue e perseguita metodicamente un altro soggetto, annientandolo come essere autonomo e pensante. In maniera non dissimile da quanto avviene nella fattispecie del furto d’identità, lo stalker ruba l’esistenza alla vittima[19]);
  • i “delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale” e contro la libertà personale, quando il fatto sia stato commesso alla presenza di un minore di anni diciotto o in danno di persona in stato di gravidanza (61, n. 11 quinquies, c.p.).

Evidenti quanto palpabili le ricadute sul terreno processuale in tema di superamento delle soglie edittali di cui all’art. 280 c.p.p. per il ricorso alla custodia cautelare[20], in tema di legittimità del ricorso all’arresto obbligatorio in flagranza ex art. 380 c.p.p.[21] e di ammissibilità delle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni a norma dell’art. 266 c.p.p.[22]

Proprio sul piano squisitamente processuale, deve prendersi atto della molteplicità degli interventi realizzati con la legge di conversione.

A rilevare è l’art. 2, la cui rubrica (“Modifiche al codice di procedura penale e disposizioni concernenti i procedimenti penali per i delitti contro la persona”) risulta ben più ampia di quella riportata nel decreto governativo (“Modifiche al codice di procedura penale e disposizioni concernenti i procedimenti penali per i delitti di cui all’articolo 572 del codice penale”).

La focalizzazione di tali interventi sarà necessariamente circoscritta al nostro peculiare piano prospettico, perché, val la pena rammentarlo, il D.L. sul femminicidio nasce come un “calderone” di soli 12 articoli, tuttavia disciplinante istituti di diversi settori: troviamo una nutrita serie di disposizioni anche in tema di reati contro il patrimonio, frode informatica e responsabilità da reato degli enti, sulla Protezione civile e sul potenziamento del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ed, ancora, norme sulla gestione commissariale delle Province, sugli interventi in favore della montagna. Persino disposizioni concernenti l’uniforme del personale e la bandiera del Dipartimento della protezione civile.

E’, quindi, sulla riscrittura del sistema penale dell’offeso che ci si soffermerà, soggetto processuale che, come noto, “nella nostra legislazione patisce significative carenze di tutela, principalmente durante la fase delle indagini preliminari”.[23] Ciò rende ancor più palese l’inadeguatezza della legislazione di urgenza in luogo di un intervento strutturale.

Ai nostri fini, risulta agevole la già proposta[24] summa divisio tra:

  • interventi di tutela cd. diretta, che gravitano verso il polo della protezione in via diretta della vittima, potenziando il ruolo della persona offesa nel procedimento penale, o meglio, implementandone i diritti e le garanzie processuali;
  • interventi di tutela cd. indiretta (o mediata), che, nell’ottica del raggiungimento dell’obiettivo summenzionato, si rivolgono verso il polo dell’aggravamento – ai fini dissuasivi – del trattamento della persona indagata o imputata.

Gli interventi di tutela diretta della persona offesa.

1)           Estensione della possibilità di essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato, anche in deroga ai previsti limiti di reddito, a favore della p.o. dai reati di cui agli artt. 572 (Maltrattamenti contro familiari e conviventi), 583 bis (Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili)[25], 609 octies (Violenza sessuale di gruppo) e 612 bis (Atti persecutori) c.p.

Novità, questa, salutata con favore già all’emanazione del decreto governativo: non è solo segno di civiltà, di un impegno dello Stato ad assistere, anche da questo punto di vista, i cittadini vittime di reati di particolare allarme sociale; più ab imis è il segno della presa d’atto che taluni reati più di altri non si esauriscono in un episodio chiuso, circoscritto tra il reo e la vittima, ma hanno una rilevanza più estesa, traducendosi in un danno e in un costo per la società, costo di cui la società deve farsi carico.

2) Disciplina della procedibilità con riguardo al delitto ex art. 612 bis c.p.,[26] ove si registra una parziale retromarcia sulla scelta forse più dibattuta del Decreto legge n. 93 del 2013, e cioè quella relativa alla irrevocabilità della querela.

Val la pena di ricordare come il legislatore del 2009 avesse disposto al quarto comma dell’art. 612 bis che il reato fosse procedibile a querela della persona offesa, estendendo però il termine per la sua proposizione fino a sei mesi, sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 609 septies c.p. per i delitti sessuali e a sfondo sessuale.

La ratio era quella di lasciare aperta la possibilità di una transazione bonaria tra vittima e stalker: la revoca della querela barattata con la cessazione dello stillicidio persecutorio.

Dopo un articolato dibattito sul punto, lo stesso legiferante aveva deciso di non riproporre la clausola di irrevocabilità dell’istanza di punizione (“La querela proposta è irrevocabile”) contenuta nel terzo comma dell’art. 609 septies c.p., circostanza che aveva suscitato più di qualche critica in ragione dei rischi cui poteva essere esposta la vittima del reato, possibile bersaglio di minacce e/o violenze volte ad ottenere il ritiro della querela, secondo dinamiche tipiche dell’esposizione del querelante a situazioni di vittimizzazione secondaria. Critiche che il D.L. 93/13 aveva, per l’appunto, inteso recepire con l’aggiunta nel quarto comma dell’art. 612 bis della menzionata clausola di irrevocabilità, modifica subito tacciata di eccessiva rigidità e di bieco giustizialismo.

Tale scelta legislativa è stata spazzata via dalla legge di conversione esaminanda, la quale è tornata sulla disposizione de qua operando una sorta di compromesso tra le opposte esigenze di rispetto della libertà della vittima di stalking (ossia la libertà di autodeterminarsi circa il mantenimento della procedibilità, anche alla luce dell’evolversi dei suoi rapporti con l’indagato/imputato ovvero sulla scorta di sue considerazioni del tutto personali, come la presenza di figli) e di garanzia di una tutela effettiva contro il rischio di essere sottoposta ad indebite e più o meno larvate pressioni (atteso che la remissione della querela comporta, in sostanza, l’impunità del reo).

Pertanto, il Parlamento ha deciso di ripristinare la revocabilità della querela, ma ha posto la condizione che la remissione sia esclusivamente processuale (“La remissione della querela può essere soltanto processuale”), eccependo, quindi, al comma due dell’art. 152 c.p., per il quale la remissione può invece essere anche extraprocessuale.

Sulla scorta di quanto lumeggiato, resta da chiarire cosa s’intenda per “remissione processuale”.

Se da una parte si è concordi nel ritenere che l’esercizio del potere dispositivo della vittima del reato sia sottoposto ad un controllo giudiziale ex post, teso a valutare la spontaneità e fondatezza del ritiro dell’istanza di punizione, dall’altra non può disconoscersi che, a mente del combinato disposto degli artt. 152 c.p. e 340 c.p.p., è remissione processuale anche quella resa personalmente o mediante procuratore speciale ad un ufficiale di Polizia Giudiziaria, remissione di cui l’Autorità Giudiziaria viene a conoscenza solo in un secondo momento, cioè dopo che l’ufficiale avrà (ancorchè “immediatamente”) effettuato la trasmissione dell’atto ormai compiuto.[27]

Orbene, salvo voler ritenere che “remissione processuale” sia solo quella effettuata innanzi ad un giudice ed all’interno di un’aula di Tribunale – correndo in tal caso il rischio di una indebita, perché non consentita dall’art. 12 delle Preleggi, forzatura di un dato testuale non equivoco – lo strumento cui la novella legislativa si è affidata per prevenire eventuali illeciti condizionamenti non sembra particolarmente efficace né funzionale allo scopo.

Secondo le cadenze dell’art. 612 bis, co. 4, c.p., la querela è comunque irrevocabile se il fatto è commesso mediante “minacce reiterate” nei modi di cui all’art. 612, co. 2, c.p.,vale a dire minaccia grave o fatta in uno dei modi di cui all’art. 339 c.p.[28]

3) Oneri di informazione, comunicazione e notificazione a favore dell’offeso nel corso e nell’arco del procedimento.

In apicibus, si è coniato un obbligo a gittata generale: al momento dell’acquisizione della notizia di reato, il Pubblico Ministero e la Polizia Giudiziaria informano l’offeso della facoltà di nominare un difensore e della possibilità di accedere al patrocinio a spese dello Stato. Tanto prevede oggi l’art. 101, co. 1, c.p.p. alla luce della legge di conversione.

Esistono, poi, obblighi informativi a gittata limitata, in quanto operanti nell’ambito di quei soli procedimenti aventi ad oggetto “delitti commessi con violenza alla persona”. Sono gli obblighi cesellati nell’art. 299 del Codice di rito, in tema di revoca e sostituzione delle misure cautelari, dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p.), del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282 ter c.p.p.), degli arresti domiciliari (art. 284 c.p.p.), della custodia carceraria (art. 285 cpp) e della custodia cautelare in luogo di cura (art. 286 c.p.p.), applicate in tali procedimenti penali.

La ratio di simile previsione è patente: consentire alla persona offesa di predisporre prontamente le necessarie ed opportune cautele “in dipendenza della possibilità o dell’attualità che i vincoli imposti all’imputato o indagato vengano meno; e ciò in relazione a possibili rischi che la ritrovata libertà di movimento consenta all’accusato di avvicinarsi alla vittima ed eventualmente di persistere nella sua condotta”.[29]

Sensibile a tale ratio di tutela si era già mostrato il Legislatore dell’urgenza, ma con riguardo alle sole richieste di revoca o sostituzione delle “tiepide” misure di cui agli artt. 282 bis e ter c.p.p., prevedendo che vi fosse un corrispondente obbligo di notifica della richiesta all’offeso o al suo difensore. I provvedimenti disposti ai sensi dell’art. 299 commi 1 e 2 c.p.p. dovevano, inoltre, essere immediatamente comunicati al difensore o, in sua mancanza, all’offeso ed ai servizi socio-assistenziali del territorio.

Tale congegno normativo, ancorchè pregevole, appariva poco utile ed efficace coniando un obbligo di notifica alla vittima puramente informativo, ergo privo di particolari ed apprezzabili effetti in caso di inosservanza; peraltro, la notifica all’offeso era sancita nei soli casi di estinzione o di decorrenza dei termini della misura cautelare, e non anche quando l’istanza difensiva fosse volta sic et simpliciter a modificare le condizioni di applicabilità della medesima.

In sede di conversione, si è intervenuti ortopedicamente sul testo dell’art. 299 c.p.p. sia estendendo l’originaria portata del vincolo della notifica all’intero sottobosco delle misure cautelari coercitive (dunque, anche a quelle previste dagli artt. 283, 284, 285 e 286 c.p.p.) e per tutti i reati commessi con “violenza alla persona”, sia comminando la sanzione della inammissibilità della richiesta in caso di inosservanza dell’obbligo di notifica.

Più sinteticamente:

  • il comma 2 bis dell’art. 299 c.p.p. si occupa dei provvedimenti del giudice di revoca e sostituzione delle misure cautelari viste: “devono essere immediatamente comunicati, a cura della polizia giudiziaria, ai servizi socio-assistenziali e al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa”;
  • il co. 3 prende in considerazione una fase più anteriore, id est quella della richiesta del pubblico ministero e dell’imputato di revoca o sostituzione delle menzionate misure che non sia stata proposta in sede di interrogatorio di garanzia: questa “deve essere contestualmente notificata, a cura della parte richiedente ed a pena di inammissibilità, presso il difensore della persona offesa, salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio”; prevede, inoltre, che il difensore e la p.o. nei due giorni successivi alla notifica “possono” presentare memorie ai sensi dell’art. 121 c.p.p.[30];
  • il comma 4 bis prescrive che, negli stessi termini di cui sopra, deve altresì essere notificata alla persona offesa la richiesta di revoca o sostituzione di dette misure con altre meno gravose, avanzata dall’imputato “dopo la chiusura delle indagini preliminari”.

In tema di archiviazione è, invece, l’art. 408, co. 3 bis, a statuire che Per i delitti commessi con violenza alla persona, l’avviso di richiesta di archiviazione è in ogni caso notificato, a cura del pubblico ministero, alla persona offesa”. Prosegue la norma: e il termine di cui al comma tre – di 10 giorni entro cui la persona offesa può prendere visione degli atti e presentare opposizione – è elevato a venti giorni”.

Al riguardo v’è da segnalare che tanto l’obbligo di notifica della richiesta di archiviazione quanto il raddoppio del termine per la presentazione dell’opposizione erano stati limitati al reato di maltrattamenti punito dall’art. 572 c.p. A ben vedere, però, la prima previsione appariva inadeguata ed asistematica considerato che la direttiva 2012/29/UE, all’art. 6 a lett. a), tra le misure minime di tutela prevede un diritto “generale” di informazione della vittima circa la eventuale decisione di non esercitare l’azione penale o di non proseguire le indagini o di non perseguire l’autore del reato. La seconda previsione, invece, già aveva suscitato le perplessità del Giudice nomofilattico, il quale presagiva un intervento “estensivo” sul punto in sede di conversione del decreto, non essendo comprensibile l’esclusione dal raggio operativo dell’art. 408 co. 3 bis sia delle vittime di fatti latu sensu riconducibili alla violenza domestica sia di quelle vittime di altri gravi fatti di reato (es., violenza sessuale, sfruttamento della prostituzione, estorsione, omicidio) relativamente ai quali l’apporto dell’offeso in fase investigativa potrebbe essere determinante.[31]

L’intervento “estensivo” è stato attuato.

Volendo ora soffermarsi sulle sorti applicative dell’art. 299 c.p.p., v’è da sottolineare come lo stesso abbia già scontato le prime oscillazioni ermeneutiche.

Al riguardo, si prende atto dello “scontro” polarizzatosi tra coloro che postulano l’applicazione della norma a tutti i delitti caratterizzati da una condotta violenta nei confronti della vittima e coloro che la riferiscono, più restrittivamente, ai soli casi in cui la violenza agita s’inserisca in un contesto di violenza di genere o domestica o comunque contrassegnata dall’esistenza di un preesistente rapporto relazionale tra soggetto attivo e passivo del reato.

Effettivamente la norma non distingue – né contiene elemento alcuno che consenta, in via interpretativa, di distinguere – tra la violenza non mirata in danno di una persona determinata (cd. violenza occasionale) e quella violenza agita su persone legate da relazione latu sensu affettiva. Appare evidente che l’obbligo di notificare alle persone offese la richiesta di revoca o di sostituzione della misura cautelare in corso è funzionale ad elargire alle stesse una maggior tutela dagli eventuali rischi che potrebbero derivare dalla sua revoca o sostituzione con altra meno afflittiva; ergo, una interpretazione restrittiva del dato testuale appare preferibile, in quanto meglio in grado di bilanciare l’interesse di garantire una più intensa protezione della vittima con quello – contrapposto – di non rendere eccessivamente gravoso all’indagato l’esercizio del diritto di difesa che si estrinseca anche attraverso la presentazione di istanze volte a modificare le modalità di applicazione delle misure cautelari in atto.[32]

Vi è poi un pruriginoso interrogativo che investe la norma di cui all’art. 299 c.p.p.: quid iuris se l’obbligo di immediata notifica non è assolto? Cosa accade se il giudice decide sull’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare in difetto della notifica alla persona offesa?

La vexata quaestio è stata affrontata anche nell’ambito del procedimento che vede oggi imputato Giuseppe Massimo Bossetti, presunto assassino di Yara Gambirasio.

Ebbene, l’art. 299 c.p.p. tace sul punto.

Si potrebbe essere indotti a ricavare la soluzione tramite un’interpretazione sistematica del codice di rito, muovendo dal Libro IV (Misure cautelari), Capo V (Estinzione delle misure) del Codice di procedura penale: è noto che la custodia cautelare perde “immediatamente” efficacia per effetto della pronuncia di determinate sentenze (art. 300 c.p.p.)[33] e per la decorrenza dei termini (art. 303 c.p.p.)[34]. Ancora, ai sensi dell’art. 302 c.p.p., la custodia cautelare diviene inefficace quando il giudice non procede all’interrogatorio entro il termine previsto dall’art. 294 c.p.p. (cinque o dieci giorni secondo il tipo di misura applicata). Da ultimo, l’ordinanza con cui il giudice, su richiesta della Pubblica Accusa, dispone la misura cautelare è nulla se non contiene quanto indicato nei commi 2 e 2 ter dell’art. 292 c.p.p.[35]

Nulla è previsto per l’ipotesi di inottemperanza all’obbligo di notifica dell’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare.

Pertanto, lo sguardo deve volgersi al regime delle nullità.

La patologia concernente l’inosservanza delle disposizioni dettate per gli atti del processo penale è disciplinata dall’art. 177 e segg. C.p.p. Poichè il principio cardine è quello della tassatività delle nullità (art. 177 c.p.p., rubricato “Tassatività”: “1. L’inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità soltanto nei casi previsti dalla legge”…) e che non si riscontra nelle nullità di ordine generale di cui al 178 c.p.p. il caso in discussione, la sanzione della nullità non può trovare applicazione. Invero, la mancata notifica alla vittima di reati consumati con condotte violente non può farsi rientrare in alcun modo nell’ambito dell’ipotesi di cui alla lett. c) dell’art. 178, poichè il campo è limitato all’intervento, all’assistenza ed alla rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché alla citazione in giudizio della p.o. dal reato e del querelante.

Rebus sic stantibus, per rispondere ai due interrogativi iniziali, nessuna tutela è stata predisposta dal legislatore nel caso in cui il giudice revochi o modifichi la misura cautelare senza che la persona offesa sia stata avvertita così come efficace rimarrà la misura cautelare disposta in difetto di comunicazione.

4) Obblighi informativi a favore della p.o. con gittata ancor più limitata: sono quelli circoscritti ai soli procedimenti per i reati di maltrattamenti nei confronti di familiari e conviventi e di atti persecutori.

Delitti anche questi con plausibile prevalenza di vittime vulnerabili (massimamente donne). Delitti anche questi fisiologicamente inscrivibili in scenari di violenza cd. domestica.

L’intervento normativo è realizzato con l’art. 2, co. 1, lett. h), della legge di conversione che all’art. 415 bis, co. 1, c.p.p., dopo le parole “e al difensore” aggiunge le seguenti: “nonché, quando si procede per i reati di cui agli articoli 572 e 612 bis del codice penale, anche al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa”. Ossia l’obbligo posto a carico del Pubblico Ministero di notificare all’indagato ed al difensore l’avviso di conclusione delle indagini preliminari viene esteso, quando si procede per i citati reati, anche al difensore della p.o. o, in sua mancanza, alla stessa persona offesa.[36]

La giurisprudenza di legittimità ha catalogato la nullità prevista dall’art. 416 c.p.p. come nullità generale a regime intermedio (va eccepita o rilevata d’ufficio prima della deliberazione della sentenza di primo grado).

A rilevare è uno scarso coordinamento di tale disposizione con il successivo art. 416 del Codice di rito, nella parte in cui sancisce la nullità della richiesta di rinvio a giudizio in caso di mancata notifica dell’avviso ex 415 bis all’indagato. In mancanza di precisazioni sul punto, sembrerebbe doversi concludere che dia luogo a tale nullità anche l’omessa notifica dell’avviso alla persona offesa, laddove previsto; e, qualora si ritenesse insuperabile siffatta interpretazione, appare ragionevole ritenere che la suddetta nullità abbia natura meramente relativa, non attenendo tale notifica alle finalità considerate dall’art. 178, lett. c), c.p.p.

Sarebbe infine auspicabile un cambiamento della intestazione della rubrica dell’art. 415 bis, visto che l’intestazione attuale (“Avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari”) suona anacronistica e riduttiva, ma soprattutto è distonica, non più conforme ai contenuti normativi ivi ricompresi.

5) Modalità protette” di audizione in materia di esame testimoniale e di incidente probatorio nonché in sede di assunzione di sommarie informazioni testimoniali.

Anzitutto, anche ai procedimenti per il delitto ex art. 572 c.p. è estesa la regola secondo cui l’esame del minore o del maggiorenne infermo di mente vittima del reato viene effettuato, su richiesta sua o del suo patrocinatore, “mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico” (art. 498, co. 4 ter, c.p.p.). L’estensione della ridetta regola pare giustificata dalla natura e dalla tipologia del reato nonché della condizione della persona offesa dallo stesso, e colma una lacuna rispetto a quanto precedentemente previsto.

Sempre nell’art. 498 c.p.p. si innesta un nuovo comma, il 4 quater, in forza del quale, quando si procede per i reati previsti dal co. 4 dell’art. 498 – e, dunque, oltre che per il reato di cui al 572 c.p., anche per i reati di riduzione o mantenimento in schiavitù (art. 600 c.p.), prostituzione minorile (art. 600 bis c.p.), pornografia minorile (art. 600 ter c..p), detenzione di materiale pornografico (art. 600 quater c.p.), iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione (art. 600 quinquies c.p.), tratta di persone (art. 601 c.p.), acquisto e alienazione di schiavi (art. 602 c.p.), violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), atti sessuali con minorenne (art. 609 quater c.p.), violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies c.p.) e atti persecutori (art. 612 bis c.p.) -, se la persona offesa è maggiorenne, il giudice assicura che l’esame venga condotto anche tenendo conto della particolare vulnerabilità della stessa persona offesa, desunta, tra l’altro, dal tipo di reato per cui si procede e, ove ne ravvisi l’opportunità, dispone l’adozione di “modalità protette”.

Agevolmente intuibile è la finalità protettiva della norma di nuovo conio, cui è sotteso un deciso ampliamento della nozione di “vittima vulnerabile”.

Ancora, in materia di incidente probatorio, viene inserito il caso di indagini che riguardano ipotesi di reato di cui all’art. 572 c.p. tra quelli che, a protezione delle persone minorenni, implicano l’applicazione della speciale normativa di tutela di cui all’art. 398, co. 5 bis, c.p.p.: “l’udienza può svolgersi anche in luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza all’assunzione della prova”.

E sempre a protezione delle persone minorenni, all’art. 351, co. 1 ter, c.p.p. vengono inglobati i maltrattamenti contro familiari e conviventi e lo stalking tra i reati relativamente ai quali la Polizia Giudiziaria, nell’assumere sommarie informazioni dai predetti soggetti, ha l’obbligo di avvalersi (“si avvale”) dell’ausilio di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile. Regola, questa, già prevista dagli artt. 362, co. 1 bis, e 391 bis, co. 5 bis, c.p.p. a carico, rispettivamente, del Pubblico Ministero in sede di indagini preliminari e del difensore nell’espletamento delle investigazioni difensive.[37]

Gli interventi di tutela diretta della persona offesa.

1) Dilatazione dei limiti di ammissibilità delle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni.

La Legge 119/13 ha inserito, nella “pancia” dell’art. 266 c.p. anche i procedimenti relativi al delitto di stalking. Si è trattato di un emendamento approvato a larga maggioranza e che, di fatto, elargisce alla magistratura più e più efficaci strumenti onde intervenire tempestivamente in caso di molestie e/o minacce da parte del persecutore.

2) Interventi sul fronte della libertà personale:

  • si dilata il campo operativo dell’arresto obbligatorio in flagranza, consentendolo anche per i reati puniti agli artt. 572 e 612 bis del Codice Penale.

Sono reati necessariamente abituali[38], in ordine ai quali l’accertamento della condizione di flagranza (o di quasi flagranza) diviene problematico. Ciò suggerisce l’adozione di una rigorosa cautela nell’accertamento e nel controllo sulla sussistenza o meno di tale requisito, pur assumendo come ragionevole un uso più esteso degli arresti in relazione alle suddette fattispecie criminose;

  • si incide sulla disciplina delle misure cautelari, intervenendo duplicemente sulla struttura del co. 6 dell’art. 282 bis c.p.p.: la misura dell’allontanamento dalla casa familiare può ora essere disposta anche per i delitti di cui agli art. 570, 571 e 582 c.p. (limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o comunque aggravate) e 612 bis c.p. (limitatamente all’ipotesi di cui al co. 2).

Tanto la violazione degli obblighi di assistenza familiare quanto l’abuso dei mezzi di correzione e di disciplina sono fatti che, pur non essendo contrassegnati dalla abitualità delle condotte, evidenziano un decadimento della relazione familiare, quindi l’insorgere di reazioni emotive talvolta fuori luogo e fuori controllo, antisociali e criminali. Nello stesso senso, il delitto di lesioni personali, pur essendo reato istantaneo, è spesso la “spia” di una crisi relazionale che può riverberarsi in danno della incolumità della vittima. Da qui la possibilità oggi di applicare la misura dell’allontanamento dalla casa familiare.

La misura può essere disposta “anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 280” e, prosegue la norma, “anche con le modalità di controllo previste dall’articolo 275 bis”, ossia attraverso l’impiego di mezzi elettronici o di altri strumenti tecnici.

Significativa è la possibilità di applicare l’allontanamento al di sotto dei limiti edittali previsti dall’art. 280 c.p.p. (come modificato dalla L. 193/2013, di conversione del D.L. 78/2013, cd. “svuotacarceri”), ma ancor più significativa è la possibilità di utilizzare, con il consenso dell’imputato, il braccialetto elettronico et similia per non far avvicinare alla casa familiare chi – marito/moglie o convivente – ne è stato allontanato.[39]

3)           Introduzione della misura precautelare di cui all’art. 384 bis c.p.p.: “Allontanamento d’urgenza dalla casa familiare”.

Il legislatore delegato ha inciso pure sul tessuto delle misure precautelari, sublimando una nuova misura all’art. 384 bis del Codice di procedura penale, al fine di rafforzare il contrasto alle condotte di violenza domestica.

Esaminandola a luce meridiana, la prefata misura è adottabile dalla Polizia Giudiziaria (ufficiali e anche agenti).

E’ facoltativa, poiché gli ufficiali e gli agenti di PG “hanno la facoltà” di disporre la misura de qua.

Essa è inoltre condizionata all’autorizzazione del Pubblico Ministero e subordinata alla esistenza di uno stato di flagranza per i reati indicati dall’art. 282 bis, comma 6, c.p.p.[40] nonché alla valutazione di un pericolo di reiterazione che si configuri (anche) come dannoso per la vita e l’integrità fisica di una specifica persona offesa.

La norma è chiara sul presupposto della reiterazione: il provvedimento potrà essere emesso se si riterranno sussistenti “fondati motivi” che le condotte possano essere reiterate ponendo in “grave ed attuale pericolo” la vita o l’integrità fisica dell’offeso.

Proprio i concetti di “fondati motivi” e di “grave e attuale pericolo” rischiano di consegnare nelle mani dell’autorità di pubblica sicurezza un potere eccessivo ed eccessivamente discrezionale, se consideriamo la sua incisione sul sommo bene della libertà personale, proclamata dalla Grundnorm come “inviolabile”.[41]

In caso di adozione del provvedimento, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli artt. 385 e segg. (in altri termini, la sequenza è quella disciplinata per il fermo di indiziato di delitto).

4)           Incisione sulla disciplina degli obblighi di comunicazione relativi ai provvedimenti cautelari ex artt. 282 bis e 282 ter del Codice di rito.

Si statuisce che, allorquando l’imputato si sottopone positivamente ad un programma di prevenzione dalla violenza organizzato dai servizi socio-assistenziali del territorio, il responsabile del servizio ne dà comunicazione al Pubblico Ministero ed al giudice ai fini della valutazione in ordine alla revoca ovvero sostituzione della misura (art. 282 quater c.p.p.).

5)           Sottrazione dei delitti di cui agli artt. 581 e 582 co. 2 c.p. alla competenza del Giudice di pace.

Il legislatore si è curato di sottrarre alla meno austera competenza del Giudice di pace i delitti di percosse e di lesioni personali gravi, quando i fatti siano commessi contro uno dei soggetti elencati all’art. 577, co. 2, c.p.p., vale a dire il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, il figlio adottivo, un affine in linea retta oppure contro il convivente (art. 4, co. 1, lett. a, del D. Lgs. 274/2000).

6)           Accelerazione dei processi.

Già Cesare Beccaria, in quel capolavoro che è “Dei delitti e delle pene”, scriveva che “quanto più la pena sarà pronta e vicina al delitto commesso ella sarà tanto più giusta e tanto più utile”.

Nel chiaro intento di garantire una risposta tanto celere quanto efficiente ed esemplare alla domanda di giustizia della persona offesa, per i reati di cui ci si occupa è stato previsto quanto segue: a) la proroga per giusta causa del termine di durata delle indagini preliminari nell’ambito di procedimenti pendenti per i reati di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di stalking può essere concessa per non più di una volta (così l’art. 406, co. 2 ter, c.p.p.); b) con riguardo alla formazione dei ruoli di udienza e alla trattazione dei processi, assoluta priorità va assicurata ai delitti di violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo (così l’art. 132 bis, co. 1, lett. a-bis, delle norme di attuazione del c.p.p.).

Nello stesso senso viaggia la modifica dell’art. 132 bis disp. att. c.p.p., il quale annovera ora (alla lett. a-bis) fra i reati per i quali è prevista priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi anche quelli previsti dagli articoli 572 (maltrattamenti), da 609 bis a 609 octies (reati contro la libertà sessuale) e 612 bis (atti persecutori) c.p.

In realtà, nella prassi maturata all’interno delle aule giudiziarie – ove la norma vive e respira ed il diritto diviene “diritto vivente” – tali reati già godono di una sorta di “corsia preferenziale”, attese la complessità dell’istruttoria e la frequente costituzione di parte civile della vittima del reato.

Conclusioni

A tacer d’altro, volendo ora trarre le conclusioni su tale complessa normativa, è dall’opzione legislativa di fondo che occorre prender le mosse.

La scelta di contrastare la violenza di genere e domestica attraverso un pacchetto sicurezza si è rivelata infelice sia simbolicamente che metodologicamente.

Sotto il primo profilo, è il segno di un Parlamento che da protagonista effettivo della funzione legislativa è divenuto ostaggio di un Governo incapace di governare, che prova a raccogliere consensi sfruttando il tema del momento, tanto caro ai mass e social media.

Dal punto di vista metodologico, non può pensarsi di agire su temi così pregnanti attraverso lo strumento della decretazione d’urgenza, di pacchetti sicurezza dal contenuto disorganico ed eterogeneo, incapaci di soddisfare l’esigenza di ripristino della legalità.

Inoltre, è appena il caso di ricordare che nell’intenzione del legislatore la Legge n. 119 del 2013 doveva rappresentare il “segno fortissimo di un cambiamento radicale sul tema” (così, nelle conferenze stampa in cui Letta presentava ufficialmente il provvedimento), invece si limita a contrastare non il fenomeno criminale in sé, bensì l’allarme sociale che esso procura: anziché, rimuovere gli ostacoli materiali alla corretta instaurazione delle relazioni interpersonali (fra tutti, lacune legislative, pregiudizi di genere, mancanza di risorse per CAV) opta per la repressione quale prima forma di protezione e finanche prevenzione.

Si misconosce che il diritto penale si erge imperativamente a baluardo delle istanze di difesa sociale contro il crimen, in un quadro generale di prevenzione e repressione della fenomenologia criminale, ma, più ab imis, di orientamento e razionalizzazione delle condotte umane ed, in ultimo, di rieducazione del reo e suo reinserimento nella compagine sociale. La funzione di orientamento e razionalizzazione delle condotte umane è esercitata non coniando regole di comportamento in via diretta, come avviene, ad esempio, nel diritto civile (si pensi alla regola che obbliga chi cagioni ad altri un danno ingiusto a risarcirlo, come imposto dall’art. 2043 c.c.), bensì ricorrendo allo strumento – duttile e rassicurante – della fattispecie: con essa il legislatore penale seleziona i fatti illeciti tipizzandoli in schemi più o meno complessi di accadimenti, significativi del disvalore che ha inteso attribuire alla verificazione di un dato evento e, dunque, all’assunzione di una condotta che di tale evento rappresenta la condicio sine qua non. Tanto, per dire che dalla fattispecie penale devono irradiarsi messaggi responsabilizzanti e dissuasivi, messaggi di cui le politiche di sicurezza non possono farsi portavoci.

Non è un mistero che le politiche di sicurezza includano anche politiche di prevenzione e repressione della criminalità, ma non si esauriscono in queste, tanto più che la sicurezza non è un nuovo diritto da tutelare, ma è “lo stato di benessere che consegue alla tutela dei diritti di tutti”.[42]

Ed allora, prim’ancora che interessare il diritto penale, la questione interessa le scienze sociali e culturali.[43]

Ancora, è stato rilevato acutamente che “la previsione di pene accentuatamente severe reca con sé il rischio di spinte criminogene[44], come già il Beccaria segnalava: “a misura che i supplizi diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello cogli oggetti che li circondano, s’incalliscono; e la forza sempre viva delle passioni fa che dopo cent’anni di crudeli supplizi, la ruota spaventa tanto, quanto prima la prigionia. L’atrocità della pena fa che si ardisca tanto di più per ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano più delitti, per fuggir la pena di uno solo.

A dimostrazione di quanto detto, i dati statistici sull’andamento del fenomeno all’indomani della pubblicazione della legge in commento: il fenomeno non appare affatto in calo.

Venendo alle modifiche di diritto penale sostanziale e processuale, non manca chi ha criticato la (se pur parziale) inutilità del decreto, il quale “non aggiunge elementi decisivi al quadro ordinamentale preesistente, nel senso che le previgenti norme penali e le connesse previsioni processuali (anche attraverso l’interpretazione giurisprudenziale che ne veniva fatta) coprivano, già prima, la quasi totalità delle esigenze sanzionatorie e delle disposizioni processuali di protezione delle vittime di reato recepite dalla normativa internazionale e comunitaria di riferimento”.[45]

Principiando dal diritto penale sostanziale, se escludiamo le disposizioni riferibili ai minori, troviamo una serie di aggravanti relativamente a donne in stato di gravidanza ed alla violenza assistita nonchè fattispecie che si riferiscono alla violenza domestica ovvero ad un rapporto affettivo, legato o meno alla convivenza. Decisamente poco, specie se consideriamo che tali circostanze aggravanti, anche quelle ad effetto speciale (aumento di pena superiore a 1/3), sottostanno al principio di bilanciamento ex art. 69 c.p. e che possono soccombere anche a fronte di una sola circostanza attenuante, posto che il legislatore non ha ritenuto di renderle “privilegiate”.

L’ennesima discrezionalità concessa al decidente.

Con riguardo al diritto processuale penale, non si scorge alcun tentativo di riforma organica nell’interesse dell’offeso, tentativo che, ove fosse attuato, dovrebbe partire semmai dalla valorizzazione del suo diritto di partecipazione attiva alla fase investigativa. Più volte la Corte dei diritti umani ha affermato che il sistema legislativo previsto dagli artt. 392 e 394 c.p.p. potrebbe “fare sorgere dei dubbi quanto al rispetto del diritto della parte lesa alla uguaglianza delle armi come a quello di accedere a un Tribunale garantito dall’art. 6 paragrafo 1 della Convenzione”.[46]

Senza dubbio innovativa appare la misura precautelare dell’allontanamento dalla casa familiare con divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima.

Anche la previsione dell’arresto in flagranza obbligatorio per i reati previsti dagli artt. 572 e 612 bis c.p. è un’apprezzabile novità.

Per il resto, emergono la scarsa incisività di talune norme a protezione della vittima nonché la presenza, come visto, di lacune ed antinomie, laddove l’ordinamento, in specie quello penale, dev’essere configurato come coerente (assenza di antinomie) e congruente (assenza di disarmonie assiologiche).

La legge 119/13 soffre pure la mancanza di un’indagine di carattere pre-giuridico, sullo stalking in modo particolare. Proprio con riguardo a quest’ultimo, ne è derivato un prodotto empiricamente scorretto, una norma profondamente deficitaria cui si è, nelle more, tentato di porre rimedio (ad esempio, configurando l’ipotesi del cyberstalking).

E’ mancato, inoltre, il confronto con gli “addetti ai lavori”, con tale espressione volendosi riferire a tutti coloro (operatori di centri antiviolenza, Forze dell’Ordine, associazioni a tutela dei diritti delle donne, ecc…) che in prima linea combattono la violenza domestica e di genere: è il segno di una inettitudine dell’Esecutivo a raccogliere dati e a studiare i fenomeni de quibus, ma soprattutto un Esecutivo sideralmente lontano dai reali bisogni dei suoi cittadini.[47]

Ma è in ordine allo scottante tema della violenza maschile sulle donne che il Governo sembra aver sventolato bandiera bianca: il D.L. 93/2013 prima e la L. 119/2013 poi hanno capovolto il problema ricorrendo alla sanzione penale senza rimuovere le cause.

Si disconosce che la violenza sulle donne è figlia di un modo errato, se non perverso, di concepire la relazione uomo/donna.

Si disconosce che la violenza sulle donne è sistemica e strutturale nella storia dell’umanità: si pensi, al “ratto delle sabine” su cui si fondò Roma, a Lucia Mondello, vera e propria vittima di stalking da parte di Don Rodrig, o a Gertrude, poi Monaca di Monza per volere (rectius, costrizione) del padre.

E come dimenticare l’abolizione del delitto d’onore avvenuta in Italia soltanto nel 1981.[48]

Solo interventi sul fronte dell’educazione ad improntare la relazione uomo/donna in termini corretti ed equilibrati conducono al successo.

In tale solco si alloca tutta una serie di interventi del nostro Parlamento che inducono oggi a parlare di “politiche antidiscriminatorie”.

Persino la giurisprudenza, di vertice e non solo,“ha sposato la causa”.

In una sentenza del Tribunale Amministrativo del Lazio[49], l’equilibrio di genere viene configurato quale “valore fondante del nostro sistema ordinamentale” e ratio ispiratrice della riforma dell’art. 51 della Legge Fondamentale, introdotta con la legge costituzionale n. 1/2003. In siffatto contesto, si colloca il trend normativo che in questi ultimi anni, a livello sia primario che secondario, si caratterizza per l’introduzione di numerose prescrizioni orientate all’attuazione dell’obiettivo delle pari opportunità, con particolare attenzione all’equilibrio di genere nella composizione degli organismi collegiali esecutivi e di vertice del variegato pianeta delle pubbliche amministrazioni.

Proprio in tali fattispecie, l’obiettivo funzionale dell’equilibrio di genere si caratterizza per una vocazione teleologica più alta: non tanto e non solo a garanzia del principio dell’uguaglianza sostanziale (attraverso la rimozione di ostacoli oggettivi alla parità di condizioni per l’accesso alle cariche pubbliche da parte di uomini e donne), quanto – più pregnantemente – a salvaguardia dei principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. Organi squilibrati nella rappresentazione di genere sono, come osservato dai giudici amministrativi, potenzialmente carenti sul piano della funzionalità e dell’efficienza, ossia non rispondono al criterio del best interest della collettività, perché carente è quel patrimonio di umanità, sensibilità e di approccio culturale e professionale che caratterizza, ergo distingue, i due generi.

Ebbene, resteremo al palo dei risultati meno soddisfacenti se non si estirperanno alla radice i pregiudizi di genere.

Forti di tale presa d’atto, “schizofrenico” appare il nostro ordinamento che da una parte si premura di abbattere il tradizionale squilibrio a sfavore del genere femminile, perchè cagiona un’asimmetria del sistema globale e, in definitiva, il rallentamento del progresso, ma, dall’altra, tratta le donne da soggetti deboli, bisognose di protezione sul piano della tutela penale.

Le donne non sono da tutelare e proteggere in quando deboli, ma in quanto discriminate.

Non v’è dubbio che uomo e donna siano diversi biologicamente: questa è una condizione della natura che la società non può negare.

Invero, vi è una differenziazione sessuale del cervello che avviene, attraverso una diversa attivazione dell’ipotalamo, già nella fase dello sviluppo fetale e neonatale e che, attraverso l’azione degli ormoni, programma l’orientamento sessuale.

Gli studi scientifici dimostrano che il cervello femminile è essenzialmente empatico, strutturato in modo da entrare in risonanza emotiva con quello delle altre persone, mentre quello maschile è soprattutto sistematico, tende cioè a progettare, organizzare, costruire. Ciò rende le donne più adatte alla comunicazione e alle relazioni interpersonali e gli uomini più inclini ad una visione scientifica del mondo. Anche in ambito neuroanatomico sono state segnalate delle diversità: il cervello della donna pesa in media circa il 12% in meno di quello dell’uomo e, anche se il numero dei neuroni è uguale, il corpo calloso[50] è più denso nella donna, il che comporta che mentre i cervelli maschili si strutturano per una comunicazione intra-emisferica, quelli femminili assumono una comunicazione inter-emisferica. La maggior spinta sessuale nell’uomo trova la sua ragione nei nuclei dell’ipotalamo che stimolano l’istinto sessuale e che, nel cervello maschile appunto, sono più grandi; viceversa, l’ippocampo, nucleo del sistema limbico deputato a sviluppare la memoria, è più esteso nella donna, la quale tende a ricordare di più e meglio. Pure sotto il profilo neurofunzionale sono emerse differenze. Limitandoci alle più significative, i ricercatori hanno evidenziato che la donna è più emotiva dell’uomo e ha una maggiore capacità di sviluppare sentimenti; l’intelligenza della donna è più spiccatamente intuitiva, mentre quella dell’uomo è più razionale (analitica e deduttiva); la donna ha una più grande apertura lessicale, un eloquio più raffinato che forse le viene dall’uso più integrato dei due emisferi cerebrali.[51]

Si tratta allora di capire se, al di là di tali intrinseche (e naturali) diversità, vi sia spazio per il raggiungimento di una condizione di effettiva parità tra i due generi sul piano che qui interessa: quello della tutela dei diritti delle vittime di reati commessi con condotte latu sensu violente.

Mi chiedo: avevamo davvero bisogno di ricorrere ad un nuovo termine per indicare l’omicidio della donna e discernerlo così da quello di “omicidio”? Davvero, per scuotere gli animi sul tema dobbiamo ricorrere all’immagine di donne con l’occhio livido e tumefatto? Può bastare un colpo di penna del Legislatore a cancellare gli stereotipi di genere? Il messaggio veicolato è quello di una donna che subisce più dell’uomo, una donna i cui diritti sono un po’ meno diritti rispetto a quelli del figlio di Adamo.

Per di più, la tutela (dei diritti) della donna vittima di delitti perpetrati con violenza non è certo l’obiettivo primario della Legge 119/2013. Ad esserlo sono la promozione e la tutela della sicurezza pubblica, perseguite – ahimè – agendo sulla sola leva sanzionatoria: un Legislatore che mostra i muscoli, che ignora totalmente come si scrivano le regole dell’agire umano e che non sa “cosa” e “come” punire.

Ne è scaturita una legge-manifesto dall’efficacia meramente simbolica, di cui francamente non avevamo e non abbiamo bisogno; una legge eccessivamente confidante nelle capacità taumaturgiche del diritto penale[52] che, è vero, per i concetti che impiega (forti dal punto di vista epistemologico) e per i principi di cui fa applicazione (si ponga mente al principio di tipicità, all’inferenza deduttiva della fattispecie penale, alla regola BARD dettata solo per il diritto penale[53]) è dominio gnoseologico superiore, ma non certo dotato di capacità soprannaturali e prodigiose, ancorato com’è alle leggi scientifiche.

Testimoni e giudici di quello che siamo veramente: questo sono le leggi di cui ci dotiamo attraverso quegli (ormai) effimeri sovrani ed officianti radiosi di una pomposa cerimonia che ci ostiniamo a chiamare “parlamentari” o, più eufemisticamente, “onorevoli”, affetti da manie di protagonismo d’azione, più interessati all’apparenza e più impegnati a scattare selfie dalle facce soddisfatte, piuttosto che a fornire risposte esaurienti e capienti.

L’ultima schizofrenia del nostro Parlamento? La legge del 28 aprile 2014, n. 67 (“Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale al n. 100 del 2.05.2014, che all’articolo 1, lett. m) prevede: “escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale”. Non di una depenalizzazione trattasi, ma più tecnicamente di modifiche al regime di punibilità ove la condotta criminis venga assunta in forma tenue da soggetto non abitualmente dedito al reato; ebbene, l’ordinamento può non sanzionare penalmente l’atto, con salvezza però del diritto dell’offeso ad ottenere il risarcimento del danno o – se possibile – la restituzione nella diversa sede civilistica.[54]

Lo scopo è evidente: per il principio di sussidiarietà e di necessarietà, il diritto penale è clausola di limite dell’ordinamento, la forza punitiva dello Stato che si applica dove tutto il resto ha (miseramente) fallito. E che, nel suo applicarsi, divora e consuma tempo e risorse che la delega di Aprile ritiene possano essere concentrate sul delinquente abituale ed autore di condotte che non siano manifestamente tenui, appunto.

Anche gli effetti pratici sono patenti: si all’archiviazione per tenuità del fatto per reati tra cui figurano anche quelli commessi con violenza alla persone, tra tutti le percosse, la violenza privata, l’abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, persino l’omicidio colposo e l’odioso stalking.

Se è vero che la vita è un palcoscenico, questo che si dipana innanzi ai nostri occhi è davvero surreale.

Lo spettatore, anche quello meno attento, noterà che la lotta agli stessi reati era stata, mesi or sono, definita una emergenza del nostro Paese. Non solo! Noterà che dalla lista dei reati “depenalizzati” il Consiglio dei Ministri si è subito affrettato a cancellare la truffa, l’omicidio colposo, gli atti persecutori.

Basta ancor meno a comprendere che in fondo la giustizia, come la felicità, è una bufala.

Quello che mi sento di dire è che la vita degli istituti giuridici, proprio come quella di noi persone, è talvolta segnata da appuntamenti fatali, da incontri con la storia che non possono più avere un ritorno.

Questo appuntamento si è rivelato disastroso oppure, più semplicemente, ci siamo fatti cogliere impreparati.

Ecco perché… “l’ennesima occasione mancata”.

 



[1] Si legga “Repetita (non) iuvant: una riflessione ‘a caldo’ sulle disposizioni penali di cui al recente D.L. n. 93/13, conv. in L. n. 119/13, in tema di femminicidio”, di Elio Lo Monte, in Diritto penale contemporaneo, p. 1.

[2] Idem.

[3] Idem.

[4] Dallo spagnolo del Centro America “feminicidio”; o anche “femicidio”, dall’inglese “femicide”.

[5] In tale accezione, il termine è presente nel Devoto-Oli già dal 2009 nonché in Zingarelli a partire dal 2010 e nel Vocabolario Treccani. Il termine è stato impiegato anche in giurisprudenza: v. Cass. Pen. Sez. V, n. 34016 del 09.04.2013.

[6] Von Henting, uno dei padri della vittimologia individuava nella donna alcuni caratteri che ne farebbero una vittima “ideale” a causa della sua minore forza fisica e della sua presunta dipendenza dall’uomo.

[7] Le donne non sono da tutelare e proteggere in quando deboli, ma in quanto discriminate. La Convenzione di Istanbul definisce chiaramente la donna come “soggetto vulnerabilizzato” dalla violenza e richiama gli Stati non ad un obbligo di difesa delle donne “deboli”, ma ad un dovere di rimozione degli ostacoli all’effettiva e sostanziale uguaglianza nelle differenze.

[8] Inoltre, l’art. 117, co. 7, Cost. enuncia una finalità promozionale delle pari opportunità, affermando che “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”. Infine, la Legge n. 1/2003 ha aggiunto, all’art. 51 co. 1 Cost., il seguente periodo: “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”: non più solo promozione, ma già a livello costituzionale vengono previste azioni positive di intervento.

[9] Primo compito della nostra Repubblica è quello cesellato all’art. 2 della Grundnorm, a mente del quale “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Il termine “riconoscimento” rende bene l’idea di diritti inviolabili che preesistono all’ordinamento giuridico: la persona di carne precede l’ordinamento in quanto lo crea attraverso un’attività razionale, intellettiva per la precisione; diversamente, la “garanzia” postula una tutela effettuale dei diritti inviolabili dell’uomo, tutela che è apprestata dall’ordinamento latamente considerato.

[10] Si tratta del “Multi-country Study on Women’s Health and Domestic Violence against Women”, il primo rapporto sulla violenza e la salute nel mondo, che, per l’occasione, ha visto la collaborazione della London School of Hygiene & Tropical Medicine di Londra nonché del South African Medical Research Council.

Questi i dati più impressionanti emersi dall’analisi di 141 ricerche effettuate in 81 Paesi: il 35% delle donne subisce nel corso della vita qualche forma di violenza; la più comune è quella perpetrata da mariti e fidanzati; ad esserne vittime sono ben il 30% delle donne ed il 38% di tutte le donne uccise muore per mano del partner; il 42% di coloro che hanno subito violenze fisiche o sessuali da uomini con cui avevano avuto una relazione intima ha riportato danni alla salute.

[11] Vedasi “La legge sul femminicidio: le disposizioni penali di una complessa normativa”, di P. Pittaro, in Famiglia e diritto n. 7/2014, IPSOA, p. 725.

[12] I maltrattamenti, che si verificano nel chiuso delle mura domestiche, ove si consumano atti abuso, sopraffazione e vessazione veri e propri; la violenza sessuale, che in molti casi rappresenta lo scopo dell’aggressività maschile in danno di persone di sesso femminile; gli atti persecutori, più facilmente attuabili nei confronti di una donna per l’emotività che naturaliter la contraddistingue e per la minor capacità di gestire reazioni inconsulte (o addirittura vendicative) da parte dell’uomo.

[13] La locuzione “relazione affettiva” include qualunque tipo di rapporto affettivo, benché di tipo amicale. Sul punto, la norma presenta profili di indeterminatezza, perché sarà solo il giudice, ex post, ad acclarare se tra due persone vi era una relazione affettiva, con la conseguenza di rimettere alla completa discrezionalità del giudice la sussunzione del caso realmente verificatosi nella fattispecie legale astratta. Del resto, la locuzione “relazione affettiva” non è stata oggetto di soverchio approfondimento da parte della prassi, sebbene si richiamino sovente le caratteristiche di stabilità e tendenziale definitività. In materia di atti persecutori, addirittura, la giurisprudenza si limita a richiamare l’espressione senza alcuna precisazione.

[14] Per il caso che i delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale, nonché il delitto di maltrattamenti vengano commessi “in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza”. La circostanza aggravante in questione era dal Decreto legge 93/2013 stata collocata nel comma secondo dell’art. 572 c.p., che prevedeva un aumento di pena per il fatto commesso in danno di persona minore degli anni quattordici di modo che l’aggravamento di pena si giustificava, verosimilmente, perché la violenza cadeva su soggetti particolarmente vulnerabili.

Lo stesso pacchetto sicurezza aveva altresì inserito tale aggravante al n.3-sexies del comma terzo dell’art. 628 c.p., ossia per l’ipotesi di rapina commessa dinanzi al minore.

La legge di conversione ha poi soppresso sia il co. 2 dell’art. 572 che il n. 3-sexies del co. 3 dell’at. 628 c.p., provvedendo a coniare una nuova aggravante comune nella parte generale del Codice penale, e precisamente nell’art. 61 n. 11-quinques.

13 Intesa come “il complesso di ricadute di tipo comportamentale, psicologico, fisico, sociale e cognitivo, nel breve e lungo termine, sui minori costretti ad assistere ad episodi di violenza domestica e soprattutto a quelli di cui è vittima la madre”.

La giurisprudenza di legittimità già da tempo aveva riconosciuto che “integra il delitto di cui all’art. 572 c.p. anche l’esposizione del minore alla percezione di atti di violenza condotti nei confronti di altri componenti del nucleo familiare” (v., ad esempio, Cass. Sez. V n. 41142 del 22.10.2010 e Sez. VI n. 8592 del 21.12.2009). Previsione specificata anche nell’art. 46 lett. d) della Convenzione di Istanbul.

 

[16] Come riferibile “a tutti gli atti, non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica od economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o persone legate da relazione affettiva in corso o pregressa, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.

[17] Tratto da “Il decreto sul contrasto alla violenza di genere: una prima lettura”, di S. Recchione, in Diritto penale contemporaneo, p. 2.

[18] Ex multis, Cass. Sez. VI n. 20647 del 2008 e Sez. VI n. 21329 del 2007.

Se ne trae la configurabilità del reato anche in caso di “famiglia di fatto”, quindi in caso di rapporti fondati sulla comunanza di vita e di interessi (Cass. Sez. III n. 8953 del 1997 e più recentemente Cass. Sez. VI n. 4390 del 2009).

Ancora, gli Ermellini riconoscono la sussistenza del reato anche in ipotesi di intervenuta interruzione della convivenza (separazione legale o di fatto), poiché rimangono comunque integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che scaturiscono dal rapporto coniugale o di filiazione (Cfr. Cass. sez. VI n. 16658 del 2009 e Sez. VI n. 3580 del 1999).

Un orientamento di nuovo conio si è spinto fino a ritenere sufficiente che tra il soggetto attivo e quello passivo intercorra una relazione stabile tale da fare sorgere rapporti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale, senza che in tal caso sia neppure necessario il requisito della convivenza o della coabitazione, non essendo tali presupposti esplicitamente richiesti dalla fattispecie (Così Cass. Sez. V n. 24688 del 2010, Cass. sez. III n. 9242 del 2010, Cass. n. 282 del 1998, Cass. n. 49109 del 2003 e Cass. Sez. VI n. 116810 del 1970).

Più recentemente – e sorprendentemente -, il Giudice nomofilattico, con la pronuncia n. 7929 del 10 febbraio 2011 (Pres. Garribba, Rel. Citterio),  ha sostenuto che anche la relazione adulterina può assumere rilevanza ai fini della configurabilità del reato, allorquando essa si caratterizzi per una stabilità in grado di fare sorgere obblighi di solidarietà ed assistenza. Si tratta di un arresto in linea con l’orientamento giurisprudenziale che individua come oggetto di tutela della fattispecie l’integrità fisica e psichica del soggetto passivo, intesa nel senso di libertà di esprimere la propria personalità nelle relazioni affettive stabili, improntate sulla reciproca solidarietà, (cfr. Cass. Sez. V n. 24688 del 2010), con buona pace del divieto di analogia in malam partem e notevole impegno del decidente nello scrutinare la relazione intercorrente tra due individui.

[19] La posizione del delitto di atti persecutori nel nostro Codice penale si deve al D.L. n. 11/2009 (conv. in L. n. 38/2009).

Il reato in oggetto è stato inserito nel capo III del titolo XII, parte II del Codice penale, nella sezione relativa ai delitti contro la libertà morale (intesa come libertà da intrusioni e molestie assillanti); in via mediata, tutela anche il sommo bene della vita nonché l’incolumità individuale, la libertà di autodeterminazione, la libertà di locomozione, il diritto alla riservatezza, l’inviolabilità del domicilio.

L’art. 612 bis c.p. contiene in incipit una clausola di riserva (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato”), che blocca l’operatività della norma nell’ipotesi in cui il fatto, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, si configuri come più grave reato (fra tutti, si pensi all’omicidio doloso che può avere come prologo lo stalking). Si tratta, inoltre, di un reato comune (“chiunque”), necessariamente abituale (“con condotte reiterate”), a condotta libera o a forma aperta (“minaccia o molesta”), di danno (“perdurante e grave stato d’ansia o di paura”, “fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone a lei vicine” o costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita”) e procedibile a querela della persona offesa (il termine par la proposizione dell’istanza di punizione è esteso a sei mesi, sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 609 septies c.p. per i reati sessuali).

[20] Al comma 2 dell’art. 280 del Codice di rito (“Condizioni di applicabilità delle misure coercitive”) è riportato quanto segue: “La custodia cautelare in carcere – art. 285 c.p.p. – può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni e per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni”.

[21] Con conseguente apertura all’instaurazione del giudizio direttissimo.

[22] E’ ammesso il ricorso alle intercettazioni telefoniche anche nel caso in cui si proceda per il delitto previsto dall’articolo 612 bis del codice penale. Così dispone ora l’art. art. 266, co. 2, lett. f-quater, c.p.p.

[23] In tal senso, Sandra Recchione, op. cit., p. 1.

[24] Si rinvia a “Tutela della donna e processo penale: a proposito della legge n. 119/2013”, di G. Bellantoni, in Diritto penale e processo  n. 6/2014, IPSOA, pp. 650 – 655.

[25] Qui è la donna ad essere destinataria esclusiva di tutela giuridica.

[26] Sotto il profilo sostanziale, il comma 3 dell’art. 1 della legge di conversione del d.l. n. 93/13 ha modificato l’art. 612 bis c.p. prevedendo al secondo comma quanto segue: “La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”.

L’innovazione relativa all’inciso “è o è stata legata da relazione affettiva” è stata accolta con favore essendo in grado di abbracciare anche le ipotesi di persona separata o divorziata. La seconda innovazione si è resa necessaria per l’irragionevole differenziazione sanzionatoria di cui era affetta prima la disposizione contro gli atti persecutori: la congiunzione “anche” amplia la portata della fattispecie non essendo richiesto – come in passato – uno specifico atto di separazione o divorzio. Terza ed ultima innovazione, la chiosa del secondo comma: “ovvero se il fatto é commesso attraverso strumenti informatici o telematici”: il legislatore mostra i muscoli nei confronti degli autori delle stesse condotte (minaccia e molestia) di cui al primo comma poste in essere attraverso mezzi informatici o telematici, mezzi con cui la potenziale vittima è raggiunta più facilmente.

[27] Vedasi G. Bellantoni, op. cit. p. 651.

[27] Si veda P. Pittaro, op. cit., p. 725.

[28] L’art. 339 c.p., nei tre commi dispiegati, descrive, in una escalation di gravità, i modi in cui la minaccia può essere realizzata: “con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete organizzazioni, esistenti o supposte” (comma 1); “da più di cinque persone riunite, mediante uso di armi anche soltanto da parte di una di esse, ovvero da più di dieci persone, pur senza uso di armi” (comma 2); infine, “mediante il lancio o l’utilizzo di corpi contundenti o altri oggetti atti ad offendere, compresi gli artifici pirotecnici, in modo da creare pericolo alle persone” (comma 3).

[29] Così G. Pavich in “LE NOVITÀ DEL DECRETO LEGGE SULLA VIOLENZA DI GENERE: COSA CAMBIA PER I REATI CON VITTIME VULNERABILI. Un esame critico delle nuove norme sostanziali e processuali del d.l. n. 93/2013 riguardanti i delitti in danno di soggetti deboli”, in Diritto penale contemporaneo, p. 11.

[30] Art. 121 c.p.p., “Memorie e richieste delle parti”, in virtù del quale le parti e i difensori possono presentare memorie al giudice, in ogni stato e grado del procedimento, mediante deposito in cancelleria; sulle stesse il giudice provvede senza ritardo e comunque entro quindici giorni.

[31] In tali termini, la Cassazione nella Relazione illustrativa n. III/01/2013, Roma, 22.08.2013: “Non è chiaro perché tale disposizione sia stata limitata al solo reato ex art. 572 c.p. e non anche a tutti quelli riconducibili al genus della violenza domestica e non è dunque azzardato prevedere un intervento <<estensivo>> sul punto in sede di conversione del decreto”.

[32] In tal senso, Tribunale di Torino, 4 novembre 2013, e Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 31 ottobre 2013.

Entrambe le pronunce appaiono senza dubbio corrette, inibendo un’interpretazione lasca della norma in commento: vero è che la violenza sulla persona si consuma in una molteplicità di condotte offensive, di cui il legislatore prende atto coniando reati a condotta libera o causalmente orientati, ma non per questo pare legittimo né processualmente economico riconoscere indiscriminatamente le peculiari garanzie condensate nell’art. 299 c.p.p. a tutte le vittime di reati commessi con condotte violente. D’altro canto, non può sottacersi il rischio di ritorsioni cui può comunque essere esposta una vittima del tutto “occasionale” per il sol fatto di aver denunciato la condotta violenta subita.

[33] Ad esempio, decreto di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere.

[34] Tre mesi, sei mesi, un anno, a seconda della pena prevista per il delitto per cui si procede.

[35] Generalità dell’imputato; descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate; esposizione specifica delle esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza; esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonché, in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, l’esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’articolo 274 non possono essere soddisfatte con altre misure; fissazione della data di scadenza della misura; data e sottoscrizione del giudice.

 

 

[36] Secondo G. Pavich, la previsione normativa “sembra aderire ai principi generali di informazione della vittima di reati su fasce deboli in merito allo stato del procedimento a carico dell’accusato (principio che evoca quelli contenuti nell’art. 56 della Convenzione di Istanbul)”, in “LE NOVITÀ DEL DECRETO LEGGE SULLA VIOLENZA DI GENERE: COSA CAMBIA PER I REATI CON VITTIME VULNERABILI. Un esame critico delle nuove norme sostanziali e processuali del d.l. n. 93/2013 riguardanti i delitti in danno di soggetti deboli”, in Diritto penale contemporaneo.

[37] Il comma 1 bis dell’art. 362 c.p.p. è stato inserito dall’art. 5, comma 1, lett. d) della Legge n. 172 dell’1.10.2012 (Ratifica Convenzione di Lanzarote). Il comma 5 bis dell’art. 391 bis c.p.p. è stato inserito dall’art. 5, comma 1, lett. f) della medesima legge.

[38] I reati abituali costituiscono insieme ai reati permanenti l’unitaria categoria dei reati di durata, in cui parte della dottrina e della giurisprudenza annovera anche i reati ad esecuzione prolungata o a condotta frazionata. Verrebbe così alla luce la figura dell’illecito penale “persistente”.

In particolare, il concetto di abitualità contrassegna da sempre non già il reato (il reato “abituale” non è citato in nessuna norma di parte generale), bensì il reo e di questo è conservata traccia negli artt. 62 n. 3 e 102 c.p. Il nomen iuris evidenzia comunque come per il perfezionamento del reato sia richiesta la realizzazione di più fatti omogenei, dotati di significato lesivo rispetto al bene/interesse tutelato, ma privo di dell’intensità sufficiente, che si produce solo all’esito della reiterazione.

Oltre alla distinzione tra reati abituali propri ed impropri, è stata proposta quella tra reati necessariamente e eventualmente abituali: i primi rappresentano la forma paradigmatica del reato abituale, poiché un episodio isolato non è sufficiente a perfezionare il reato, divenendo la condotta tipica soltanto con l’assunzione di pluralità di condotte identiche ed omogenee (a titolo esemplificativo,  il delitto di cui all’art. 572 c.p.); i secondi restano legati alla figura del reato abituale soltanto quando si assiste alla ripetizione di più fatti omogenei, senza che questo determini né un concorso di reati né l’insorgere del vincolo della continuazione, ben potendo la medesima fattispecie criminosa essere integrata dal fatto singolo (emblematico il reato ex art. 348 c.p.).

[39]Qualsiasi strumento elettronico, compreso il braccialetto”, ha commentato il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, a margine di un convegno sui 50 anni delle donne in magistratura, “rende più facile la vigilanza. Tuttavia, ha ricordato il Ministro, “Il braccialetto elettronico è uno strumento a disposizione già da dieci anni, ma fino ad ora non ha avuto grande successo, anche perché il suo uso è legato alle scelte tecniche dei magistrati”.

[40] Atti persecutori, delitti contro la libertà sessuale, ma pure violazione degli obblighi di assistenza familiare (570 c.p.), abuso dei mezzi di correzione e di disciplina (571 c.p.) e lesione personale (582 c.p.); questi ultimi limitatamente alle ipotesi di procedibilità d’ufficio o aggravate.

[41] Per tale ragione, secondo G. Pavich, grava sull’autorità di pubblica sicurezza “un dovere di attenta e puntuale verifica delle condizioni legittimanti l’allontanamento, verifica che potrebbe risultare di non facile attuazione, rischiando di incidere su situazioni qualificabili come <<zone grigie>> e, spesso, di difficile apprezzamento immediato. E’ auspicabile un impiego sagace di questo strumento, pur potenzialmente utile e in alcuni casi risolutivo, in modo da corrispondere puntualmente ai requisiti previsti dalla norma” (così in “LE NOVITÀ DEL DECRETO LEGGE SULLA VIOLENZA DI GENERE: COSA CAMBIA PER I REATI CON VITTIME VULNERABILI. Un esame critico delle nuove norme sostanziali e processuali del d.l. n. 93/2013 riguardanti i delitti in danno di soggetti deboli”, in Diritto penale contemporaneo).

 

 

[42] Si rinvia a “Repetita (non) ivant: una riflessione ‘a caldo’ sulle disposizioni penali di cui al recente D.L. n. 93/13, conv. in L. n. 119/13, in tema di femminicidio”, di Elio Lo Monte, in Diritto penale contemporaneo.

[43] Sono scienze dallo statuto gnoseologico debole, in quanto basate sul ricorso a concetti non desunti dalle scienze naturali. Più specificamente, le scienze sociali rinviano a norme cd. del secondo tipo: sono norme integrative, che reclamano dall’interprete un contributo di sapere extragiuridico e, dunque, richiedono un’attività mista di intermediazione (tecnica) e di scelta. Le scienze morali, invece, impiegando concetti indeterminati o clausole generali e rinviano a norme del terzo tipo, cioè norme valoristiche: l’attività dell’interprete si traduce in un vero e proprio giudizio di valore, in una scelta culturale.

Nell’ordinamento penale il ricorso agli elementi elastici svolge una funzione di delimitazione dell’incriminazione di condotte che sono di per sé neutre, attraverso l’individuazione dei tratti penalmente rilevanti mediante il ricorso agli standard sociali di riferimento.

Nell’ordinamento civile, l’impiego di norme del terzo tipo è incrementato dal c.d. fenomeno di  depatrimonializzazione del diritto civile, che ha visto l’ordinamento interessarsi alla categoria dell’essere oltre che dell’avere, o meglio, aprirsi al riconoscimento dei valori personalistici, oltre che alla disciplina dei rapporti economici. Anche l’introduzione di fonti esterne al codice (c.d. decodificazione) ha contribuito a tale incremento, spostando il baricentro normativo dal Codice civile al Codice del Consumo (cd. “secondo Codice”), ad esempio.

Quello amministrativo, tra i tre ordinamenti principali, è invece il sistema più ricco di disposizioni del terzo tipo, e le ragioni sono facilmente intuibili: il sistema amministrativo è governato, oltre che dal principio di legalità, dai principi di necessità e continuità dell’azione amministrativa, ragion per cui il legislatore deve conferire il potere alla P.A. (legalità formale) e disciplinare le modalità (legalità sostanziale) dell’esercizio del potere, non solo nei settori in cui le regole economiche svolgono ruoli preminenti (e quindi sono in grado di assorbire, al pari che negli speculari settori dell’ordinamento civilistico, le discipline sociali), ma anche nei settori prettamente sociali, in cui i codici culturali e i concetti di valore dominano tanto l’accertamento dei presupposti legali per l’esercizio del potere quanto la stessa ponderazione discrezionale – ove presente – della Pubblica Amministrazione.

Il progressivo acquisto di rilevanza ordinamentale da parte delle norme elastiche, collegato alla espansione del diritto verso nuove aree di disciplina, ha comportato un affiancamento (recte, contrapposizione) alla “giurisprudenza dei concetti” della “giurisprudenza degli interessi”. Ciò ha reso il nostro ordinamento, pur tradizionalmente appartenente ai sistemi di civil law, un sistema semi-aperto, fondato non solo su disposizioni di legge riguardanti settoriali e dettagliate discipline, ma anche su cd. clausole generali, e cioè su indicazioni di valori ordinamentali, espressi con formule generiche (buona fede, solidarietà, funzione sociale della proprietà, utile sociale dell’impresa, centralità della persona) che scientemente il legislatore trasmette all’interprete per consentirgli di “attualizzare” il diritto, anche mediante l’individuazione, là dove consentito – come nel caso dei diritti personali non tassativi -, di nuove aree di protezione di interessi.

Assieme alle clausole generali, le norme elastiche e l’interpretazione adeguatrice o attualizzata contribuiscono ad “ammodernare” l’intero nostro ordinamento giuridico nonché a renderlo sensibile rispetto ai nuovi bisogni provenienti  dalla società, quella stessa società che il diritto è chiamato a regolare. (Per una più approfondita lettura, si rinvia a “Le norme del terzo tipo”, a cura di Martino Brunetti e Andrea Guadagnino, revisione e coordinamento di Francesco Bellomo, in Diritto e Scienza, Anno 2013, n. 7).

 

[45] Cfr., G. Pavich, op. cit., p. 20

[46] Corte di Lussemburgo, sentenza emessa il 21 dicembre 2011.

La decisione si pone in linea con la Raccomandazione sul ruolo del pubblico ministero nel sistema di giustizia penale. adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 6 ottobre 2000. In quella sede si è rilevato che “la difficoltà attiene ai meccanismi di controllo da instaurare – nei confronti del pubblico ministero – rimanendo inteso che questi ultimi non devono produrre risultati indesiderabili — come la paralisi del sistema o l’introduzione di un controllo giudiziario generalizzato su decisioni giustamente e legalmente adottate dal Pubblico ministero”.

[47]Occorrono in sostanza centri di osservazione in grado di monitorare, realmente, l’intero fenomeno e, quindi, evidenziare le varie caratteristiche e/o i punti di criticità. Spesso, ci si affida invece a singoli casi e all’emotività del momento, a volte amplificata oltre misura dal circuito mass-mediale per ragioni meno nobili di audience” (In tali termini, Elio Lo Monte, op. cit., p. 18).  

[48] Se le donne subivano violenze, le famiglie regolavano il problema con il delitto d’onore o con matrimoni riparatori, modalità gestite dagli uomini di famiglia ai quali era delegato il mondo delle relazioni esterne, pubbliche. L’art. 587 del Codice Penale recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”.

[49] Sentenza n. 6673 del 15 luglio 2011, con cui il Tar Lazio ha annullato la composizione della giunta di Roma Capitale guidata dal sindaco Gianni Alemanno in cui tra i dodici assessori compariva una sola donna.

Una sentenza analoga, la n. 4502 del 2011, si è avuta pochi giorni dopo (il 29 luglio), quando il Consiglio di Stato ha confermato quanto stabilito in primo grado dal Tar della Campania con la pronuncia 1985/2011, annullando l’attuale composizione della Giunta regionale del Presidente Stefano Caldoro dove, anche in questo caso, compariva una sola componente di sesso femminile.

L’ultima in ordine temporale è stata la sentenza n. 864/2011, emessa il 2 agosto dal Tribunale Amministrativo della Sardegna che ha annullato la composizione della Giunta Regionale, guidata da Ugo Cappellacci, ove vi era una totale composizione maschile.

[50] Struttura interemisferica composta da fibre che collegano, punto a punto, la corteccia cerebrale di destra con quella di sinistra.

[51] Per un approfondimento sul tema si rinvia a “L’equilibrio di genere”, a cura di Francesca Delogu, revisione e coordinamento di Francesco Bellomo, in Diritto e Scienza, Anno 2014, n. 5).

 

[53] Il paradigma dettato dalla formula b.a.r.d. di cui all’art. 533 c.p.p. è valido, ancor prima che nella dialettica della dinamica processuale, già a livello di “intelligenza” del significato e valore sostanziali della fattispecie criminosa soggetta a prodromica esegesi.

[54]L’istituto, costruito quale causa di non punibilità – si legge nella relazione del Consiglio dei ministri del primo dicembre scorso – consentirà una più rapida definizione, con decreto di archiviazione o con sentenza di assoluzione, dei procedimenti iniziati nei confronti di soggetti che abbiano commesso fatti di penale rilievo caratterizzati da una complessiva tenuità del fatto, evitando l’avvio di giudizi complessi e dispendiosi laddove la sanzione penale non risulti necessaria. Resta ferma la possibilità, per le persone offese, di ottenere serio ed adeguato ristoro nella competente sede civile. L’attuazione della delega consentirà ragionevolmente, nel breve periodo, di deflazionare il carico giudiziario restituendo alla giustizia la possibilità di affrontare con nuove energie indagini e processi complessi, la cui definizione possa essere ritardata o ostacolata dalla pendenza di processi relativi a fatti di particolare tenuità”.

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