LA RESPONSABILITA’ AGGRAVATA EX ART 96 C.P.C- NATURA DELLA  NORMA.

TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA- SENTENZA 25 SETTEMBRE 2012 N. 1569

a cura della dott.ssa Antonella Murdaca

Massima

“Laddove l’ attore risulti soccombente nei confronti del convenuto in ordine a quella pretesa che ha provocato e giustificato la chiamata in garanzia, è l’ attore stesso a dover rifondere le spese di lite del terzo, se vi sia irregolarità causale della chiamata, intesa come prevedibile sviluppo logico e normale  della lite, e astratta fondatezza della chiamata in manleva”

Sintesi del caso

Il caso specifico riguarda un geometra che ha chiesto la condanna della X Costruzioni per il compenso dell’attività di consulente tecnico prestata in distinte controversie giudiziali. Parte convenuta  ha sostenuto nell’ atto di costituzione che l’ attività prestata dal geometra non era stata pagata ma ha addebitato al difensore dell’ epoca la responsabilità in quanto il legale non ha optato per l’ accertamento tecnico preventivo; inoltre,la X Costruzioni ha sostenuto che si configurasse anche la responsabilità del CTP in quanto, pur mancando l’accertamento tecnico preventivo, poteva accertare i difetti delle opere eseguite. Parte convenuta quindi ha chiesto il rigetto della domanda attorea e ha chiesto la condanna del geometra  e del precedente difensore, del quale ha chiesto l’ autorizzazione alla chiamata in giudizio. Il Tribunale ha autorizzato la sola chiamata della compagnia assicuratrice della X Costruzioni  al fine di essere manlevata in caso di condanna della stessa. Il giudice di prime cure  ha statuito la responsabilità della X Costruzioni , in quanto con colpa grave ha formulato la domanda riconvenzionale, basata su tesi giuridicamente inconsistenti e infondate. Pertanto, ha condannato parte convenuta a ristorare il danno ex art 96 c.p.c.

La materia del contendere

Parte attrice sosteneva la responsabilità della X Costruzioni e di conseguenza la condanna della stessa al pagamento della prestazione prestata nelle controversie giurisdizionali. Parte convenuta ha sostenuto che la stessa non dovesse corrispondere alcuna somma al geometra, in quanto il precedente difensore ed il ctp erano i responsabili dell’esito negativo della controversia.

Quaestio iuris

La querelle attiene ai presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità aggravata  ex art 96 c.p.c e alla  natura giuridica della norma.

Normativa di riferimento

Art  96 c.p.c Responsabilità aggravata

Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede e colpa grave, il giudice, su istanza dell’ altra parte, la condanna oltre che alle spese al risarcimento dei danni (2043 e ss) che liquida anche d’ ufficio nella sentenza.

Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare  o trascritta domanda giudiziale  o iscritta ipoteca giudiziale  o compiuta l’ esecuzione forzata su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento del danno l’attore  o il creditore procedente che agito senza la naturale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma  del comma precedente.

In ogni caso , quanto pronuncia sulle spese a norma dell’ art 91, il giudice , anche d’ ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte , di una somma equitativamente determinata.

Nota esplicativa

E’ necessario in primis esaminare  la tematica della responsabilità aggravata, con particolare riferimento all’ elemento oggettivo e soggettivo e alla natura giuridica della norma.

Il capo IV del codice  di procedura civile disciplina la responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali.

I presupposti per la condanna al risarcimento del danno per lite temeraria sono: la totale soccombenza,il danno della controparte e lo stato soggettivo integrato almeno dalla colpa grave. Quest’ultima si concretizza nel mancato doveroso impiego di quella diligenza che consenta di avvertire agevolmente l’ingiustizia della propria domanda. Ai fini della quantificazione del danno da responsabilità aggravata ex art. 96 cod. proc. civ., non è neppure necessario che l’interessato deduca e dimostri uno specifico danno per il ritardo provocato dall’impugnazione inammissibilmente esperita sulla decisione della causa, potendo la Corte desumere detto danno da nozioni di comune esperienza e fare riferimento anche al pregiudizio che la parte resistente abbia subito di per sé, per essere stata costretta a reagire all’iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario e spesso senza che ciò possa essere adeguatamente compensato, sul piano strettamente economico, dal rimborso delle spese giudiziali. E dal punto di vista dell’onere probatorio si è affermato che colui che vuole ottenere il ristoro del pregiudizio sofferto, ai sensi dell’art. 96° I° comma cod. proc. civ., deve dare la prova  del quantum (non essendo sufficiente l’accertamento che la controparte abbia agito in giudizio con mala fede o colpa grave); con la conseguenza che il giudice non può liquidare il danno, neppure con criteri equitativi, se non risultino dagli atti del processo elementi in base ai quali sia possibile identificarne concretamente l’esistenza.

Va tenuto ben presente che la responsabilità processuale aggravata è un istituto ben diverso dall’ordinaria responsabilità aquiliana; ed invero, come afferma sempre la Cassazione l’art. 96 c.p.c. si pone con carattere di specialità rispetto all’art. 2043 cod. civ. di modo che la responsabilità processuale aggravata, – ad integrare la quale è sufficiente nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 96 c.p.c. la colpa lieve, come per la comune responsabilità aquiliana, – pur rientrando concettualmente nel genere della responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue possibili ipotesi, sotto la disciplina normativa contenuta nel citato art. 96 c.p.c., né è configurabile un concorso, anche alternativo, dei due tipi di responsabilità; e la decisione in ordine a detta responsabilità è devoluta in via esclusiva al giudice cui spetta conoscere il merito della causa”.

L’art. 96, primo comma, c.p.c., è stato identificato quale “presidio di tutela del principio di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111 Cost.” ; a tal fine, è stata sottolineata la funzione sanzionatoria che, oltre a quella risarcitoria, sarebbe destinato in tal caso ad assolvere il risarcimento . Una lettura di questo tipo sembrerebbe, allora, aprire la porta alla possibilità di qualificare il pregiudizio come danno punitivo: soprattutto laddove lo stesso appaia risarcito a fronte dell’abuso dello strumento processuale, senza indagare per alcun verso sulle ripercussioni provocate dalla lite temeraria. Una lettura di quest’ultimo tipo dell’istituto appare, tuttavia, superata a fronte della recente novella, alla luce della quale questo genere di funzione andrebbe semmai assegnata alla disciplina prevista dal terzo comma della norma. In conclusione, per quanto riguarda l’attuale assetto dell’art. 96, primo comma, c.p.c., appare del tutto condivisibile l’idea che esso si collochi entro la disciplina della responsabilità civile.

Con la legge 69/2009, l’art. 96 c.p.c. è stato integrato con una regola secondo cui il giudice può condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento a favore della controparte di una somma, la cui determinazione viene rimessa alla piena discrezionalità del giudice . Sull’interpretazione della norma si fronteggiano vari orientamenti.

Vi è chi ritiene che la nuova disciplina si finalizzata ad agevolare la condanna al risarcimento dei danni, pur in assenza di prova circa la relativa ricorrenza.Ai fini dell’applicazione della disciplina dovrà quindi sussistere comunque una lite temeraria, dovendosi ritenere, altresì, esistente un conseguente pregiudizio: è, quindi alla misura dello stesso che andrà dimensionata la condanna pecuniaria . Un distinto filone interpretativo propende per una maggior autonomia della fattispecie, ritenendo che il danno sarebbe risarcibile anche in caso di colpa lieve, qualificata dalla violazione dei doveri di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c.. In entrambe tali ipotesi interpretative, la fattispecie rimarrebbe comunque ancorata al terreno aquiliano; il che implica dover determinare la somma dovuta, da parte del giudice, prendendo a riferimento le ripercussioni negative patite dalla parte vittoriosa, precipuamente per quanto riguarda il danno non patrimoniale.

Secondo un diverso indirizzo, la nuova disciplina si considera deputata ad attribuire al giudice poteri repressivi, in quanto la stessa avrebbe ad oggetto non già un illecito civile, ma un illecito a rilevanza pubblica: di conseguenza la condanna verterebbe sul risarcimento di un vero e proprio danno punitivo, da versarsi a prescindere dalla verificazione di un pregiudizio a carico della parte vittoriosa e dalla sussistenza di un illecito caratterizzato da dolo o colpa grave. In questa prospettiva, la condanna non sarebbe diretta a fronteggiare i pregiudizi patiti dal danneggiato, ma a sanzionare la parte soccombente in ragione del suo comportamento processuale scorretto; si tratterebbe, perciò, di un vero e proprio danno punitivo.

Resta da segnalare che la determinazione della somma da versare non appare per alcun verso stabilita dal legislatore, nemmeno per quanto concerne i livelli minimi e massimi entro i quali potrà esplicarsi il potere equitativo del giudice. Accogliendo una prospettiva di questo tipo, sembra allora indispensabile – al fine di fornire un’indicazione al potere equitativo del giudice – calibrare il risarcimento sulla base del danno subito dalla collettività a fronte dell’abuso del processo .

Con la riforma si è cercato quindi di colpire l’utilizzo abusivo della giurisdizione statuale per la soluzione dei conflitti, ovvero garantirne, lite pendente, un sicuro approdo ad una rapida decisione, scevra da comportamenti dilatori, sleali e scorretti.
Questo è l’obiettivo che si è inteso perseguire tramite l’applicazione del co. 3° dell’art. 96 c.p.c.  In particolare una parte della giurisprudenza di  merito ha riconosciuto nella fattispecie di cui all’art. 96, 3° co., c.p.c. l’introduzione di una ipotesi di condanna di stampo sanzionatorio che si discosta dall’illecito aquiliano per avvicinarsi alle c.d. condanne punitive o, per richiamare un famoso istituto anglosassone, ai punitive damages in funzione afflittiva, ma anche preventiva ed inibitoria rispetto a nuovi possibili abusi.
Un  altro filone giurisprudenziale di merito, ex adverso, qualifica l’art. 96, comma 3, c.p.c.  come ipotesi di cd. ‘processo simulato’, avendo le parti utilizzato lo strumento processuale «non già come mezzo per risolvere una controversia, bensì come espediente tecnico per realizzare un fine comune ad entrambe, di tal che il provvedimento giudiziale sembra privato del suo fisionomico carattere decisorio, per atteggiarsi a meccanismo attuativo dell’accordo dei finti contendenti. La fattispecie di cui all’art. 96, terzo comma, c.p.c. si preoccupa di garantire la reintegrazione del danno da illecito coinvolgimento nel processo cagionato da chi abbia agito o resistito in chiara violazione di quella che gli anglosassoni definiscono la fairness del processo sanzionando, ossia quelle condotte processuali non rispondenti ai presupposti minimi di diligenza professionale necessari per dar luogo alla prevalenza del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. sull’esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo e il contenimento dei relativi costi collettivi (art. 111 Cost.)».
Pertanto, per la giurisprudenza prevalente l’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. avrebbe perso i classici connotati della tutela risarcitoria per valorizzare il profilo sanzionatorio, in funzione deterrente, dunque inibitoria e preventiva, ma anche afflittiva e punitiva (V. ACIERNO, F. GRAZIOSI). Si tratterebbe di un istituto molto simile ai punitive damages dell’esperienza angloamericana, connotato soggettivamente dalla violazione del canone di correttezza processuale e buona fede oggettiva. Deporrebbe in tal senso l’esclusivo riferimento al profilo condannatorio, dunque senza alcun cenno ai danni del 1° comma, l’iniziativa anche officiosa, non solamente per la determinazione del quantum della sanzione comminata, ma anche per l’accertamento del comportamento scorretto. In altri termini, non la semplice riformulazione e ricollocazione dell’ultimo comma dell’art. 385 c.p.c. ma qualcosa di più. Una sanzione di ordine pubblico pensata per colpire la parte soccombente che, abusando della norma processuale, la impieghi a proprio vantaggio per fini che non le sono propri, in violazione dei canoni del giusto processo, evitando al contempo, e con ciò tutelando un interesse superindividuale, della collettività, che altri consociati possano commettere in futuro la medesima scorrettezza .

La Cassazione ha rilevato che «alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato». Nell’occasione si è chiarito che tale principio «vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perchè non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell’obbligato, ma occorre altresì la prova dell’esistenza della sofferenza determinata dall’illecito, mediante l’allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi in re ipsa».
Conclusivamente, nonostante la novellata formulazione del 3° co. dell’art. 96 c.p.c., si deve ritenere che i punitive damages non possano trovare posto nel nostro sistema: sarebbe infatti carente di fondamento normativo e di copertura costituzionale l’ammissibilità di una posta di risarcimento tendenzialmente priva di una valenza compensativa di valori afferenti alla persona ed alla sua sfera di estrinsecazione (patrimoniale o non), che assuma una funzione di afflizione nei confronti dell’autore del danno, a prescindere totalmente dall’entità del pregiudizio subito dalla vittima, e di reazione verso un pregiudizio subito dalla vittima in circostanze aggravate dalla presenza di violenza, mala intenzione, frode dell’autore del danno.
E’forse più utile considerare un approccio mediano che faccia proprio e valorizzi il contenuto sanzionatorio del 3° co dell’art. 96 c.p.c., senza svilirne la funzione e natura risarcitoria; ed ecco quindi il compromesso: sì alla punitività del danno, ma solo se coniugata comunque ad una sottostante, non importa se vaga e sfumata, concorrente funzione risarcitorio/riparatoria.

Nel caso di specie, il Tribunale di Reggio Emilia ha ritenuto che  trovasse applicazione l’ art 91 c.p.c e che parte convenuta dovesse rifondere anche le spese di lite della terza chiamata. Il risarcimento del danno per responsabilità aggravata  è riferita a tutti i procedimenti in cui vengono regolate le spese di lite, quali volontaria giurisdizione, cautelari ante causam, sommario di cognizione ex art 702 bis e ss c.p.c. La domanda di risarcimento  non è proponibile in un altro giudizio, eccetto l’ ipotesi in cui ciò sia precluso  in forza dell’ evoluzione propria dello specifico processo  da cui la responsabilità aggravata ha avuto origine. Il Tribunale, inoltre, ha illustrato le varie tesi emerse circa la  natura giuridica della norma. Secondo un orientamento giurisprudenziale, con la formulazione dell’ art 96 c.p.c il legislatore avrebbe introdotto una forma di danno punitivo al fine di scoraggiare il contenzioso privo di validi motivi. Altresì, il giudice di prime cure rileva che sia necessario un requisito soggettivo, ossia la mala fede o colpa grave; ex adverso non è possibile condannare al ristoro del danno qualora ricorra l’ipotesi di colpa lieve. Tale requisito psicologico è richiesto sia nella fattispecie del I comma dell’ art 96 c.p.c  sia qualora il giudice condanni d’ufficio al risarcimento del danno ex art 96 III comma c.p.c. Il giudice di prime cure osserva che circa l’entità della sanzione monetaria è necessario utilizzare il parametro delle spese di lite.

Giurisprudenza

Cass. n. 8363/2010; Cass. n.3835/1989; Cass. n. 13126/1988; Cass. n. 6514/2004; Cass. n. 19181/2003;

Cass. n. 21933/2006; Cass.n.3740/1987; Cass. n. 3770/1981; Cass. n. 5262/2001; Cass. n. 8166/1997;

Cass. n. 12301/2005; Cass. n.7168/2004; . Trib. Piacenza 15/11/2011n. 855/2011 e ord. 22/11/2010; Trib. Verona 21/3/2011 e 1/7/2010; Trib. Torino ord. 16/10/2010;

Trib. Piacenza 15/11/2011 n. 855/2011 e ord. 22/11/2010; Trib. Reggio Emilia nn. 729/2012 e 712/2012 Trib. Varese 23/2/2012, 6/2/2001, 22/1/2011, 27/5/2010, 30/10/2009; Trib. Piacenza 15/11/2011 n. 855/2011, 7/12/2010, ord. 22/11/2010;

Trib. Verona 21/3/2011, ord. 1/10/2010, 20/9/2010, ord. 1/7/2010; Trib. Min. Milano dec. 4/3/2011; Trib. Foggia 28/1/2011; Trib. Rovigo sez. dist. Adria 7/12/2010; Trib. Roma sez. dist. Ostia 9/12/2010; Trib. Varese sez. dist. Luino sez. dist. Luino ord. 23/1/2010;

Trib. Roma 11/1/2010; Trib. Prato 6/11/2009, Trib. Milano ord. 29/8/2009.Cass. n. 17902/2010; Cons. Stato n. 1209/2012. Trib. Reggio Emilia nn. 729/2012 e 712/2012; Trib. Piacenza 15/11/2011 n. 855/2011, 7/12/2010, ord. 22/11/2010;

Trib. S Maria Capua a Vetere 26/9/2011; Trib. Verona ord. 21/3/2011 e ord. 1/10/2010; sent. 20/9/2010; Trib. Foggia 28/1/2011;

Trib. Oristano ord. 17/11/2010; Trib. Pescara sent. 30/9/2010; Trib. Padova ord. 10/11/2009 – ord. 2/11/2009,  e ord. 30/10/2009; Trib. Reggio Emilia nn. 729/2012 e 712/2012

 

 

 

 

Tribunale di Reggio Emilia

Sentenza 25 settembre 2012, n. 1569

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA

Il Giudice, dott. Gianluigi MORLINI, in funzione di Giudice monocratico,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA EX ART. 281 SEXIES C.P.C.

nella causa RG Civ. n. 1924/2011

ATTORE: A. M. (avv. Chesi)

Conclusioni: Memoria ex art. 183 comma 6 c.p.c.

CONVENUTO: X. Costruzioni Generali s.r.l. (avv. Liborio Cataliotti)

Conclusioni: Comparsa di costituzione e risposta

TERZO CHIAMATO: INA Assitalia s.p.a. (avv. Sutich e Dell’Amore)

Conclusioni: Comparsa di costituzione e risposta

FATTO

Promuovendo la presente controversia, il geometra A. ha chiesto la condanna della X. Costruzioni al pagamento della complessiva somma di € 5.616,00 per il compenso relativo all’attività di consulente tecnico di parte prestata in due distinte controversie giurisdizionali.

Ha resistito la X., non negando l’effettivo svolgimento dell’attività né l’astratta congruità del prezzo richiesto, ma sostanzialmente addebitando al proprio CTP, nonché al difensore che all’epoca assisteva la X. stessa, l’esito negativo della controversia, contestando in particolare all’avvocato la scelta processuale di non avere esperito un accertamento tecnico preventivo, ed al CTP di non avere sostenuto che anche in assenza di tale accertamento si sarebbero potuti accertare i difetti delle opere eseguite da controparte. Per tali motivi, la convenuta ha chiesto il rigetto della domanda attorea; ed in via riconvenzionale la solidale condanna del geometra A. e del precedente difensore, del quale ha domandato l’autorizzazione alla chiamata in giudizio, al risarcimento dei danni.

Il Giudice allora procedente ha rigettato l’istanza di chiamata in causa del precedente difensore, sussistendo nei confronti dello stesso un rapporto solo occasionalmente collegato a quello principale. A seguito della proposizione della riconvenzionale, la X. ha chiesto ed ottenuto la chiamata in giudizio della propria assicurazione INA per essere eventualmente manlevata nelle denegata ipotesi di condanna, ed INA si è ritualmente costituita argomentando l’assenza di responsabilità della propria assicurata.

DIRITTO

a) La domanda attorea è in tutta evidenza fondata, e come tale va accolta.

Ribadito infatti che non è in contestazione né l’effettivo svolgimento dell’attività di CTP, né l’astratta adeguatezza del compenso richiesto, risulta di palmare evidenza l’insussistenza dell’addebitata responsabilità professionale.

Infatti, pacifico essendo che non dipendono certo dal CTP né la scelta di proporre o meno un ricorso per ATP né la valutazione della strategia processuale, risulta infondato già in fatto il rilievo per il quale il CTP non avrebbe evidenziato i difetti delle opere eseguite da controparte o non avrebbe comunque sostenuto la tesi che, anche in assenza di tale preventivo accertamento, i difetti erano ancora riscontrabili. E’ infatti facile replicare che, in realtà, il geometra A., in corso di causa, ha sempre sostenuto l’esistenza di tali difetti e la persistente possibilità di accertarli in corso di causa (cfr. in particolare all. 8, 12, e 14 parte attorea). Senza quindi nemmeno dovere dar corso all’istruttoria testimoniale richiesta da parte convenuta, e previa quindi conferma del rigetto delle istanze istruttorie reiterate in sede di precisazione delle conclusioni, deriva l’infondatezza del rilievo mosso all’opera del geometra A., ciò che impone l’accoglimento della domanda attorea, con il riconoscimento dei richiesti interessi ex D.Lgs. 231/2002, decorrenti dal 16/4/2009, data delle nota pro forma; nonché ed il rigetto della riconvenzionale, fondata su un preteso inadempimento dell’A. stesso. In ragione del rigetto della domanda riconvenzionale, rimane ovviamente assorbita la domanda di manelva dell’A. verso INA.

b) Non vi sono motivi per derogare ai principi generali codificati dall’art. 91 c.p.c. in tema di spese di lite, che, liquidate come da dispositivo in assenza di nota, sono quindi poste a carico della soccombente parte convenuta ed a favore della vittoriosa parte attrice. La convenuta deve poi essere condannata a rifondere anche le spese di lite della terza chiamata, atteso che, laddove l’attore risulti soccombente nei confronti del convenuto in ordine a quella pretesa che ha provocato e giustificato la chiamata in garanzia, è l’attore stesso a dovere rifondere le spese del terzo (Cass. n. 8363/2010, Cass. n. 21933/2006, Cass. n. 12301/2005, Cass. n. 7168/2004, Cass. n. 6514/2004, Cass. n. 19181/2003, Cass. n. 5262/2001, Cass. n. 8166/1997, Cass. n. 3835/1989, Cass. n. 13126/1988, Cass. n. 3740/1987, Cass. n. 3770/1981), laddove, come nel caso che qui occupa, vi è regolarità causale della chiamata, intesa come prevedibile sviluppo logico e normale della lite, ed astratta fondatezza della chiamata in manleva, accertata incidentalmente.

c) Deve poi altresì procedersi ad una condanna dell’opponente anche ai sensi del novellato articolo 96 comma 3 c.p.c., a tenore del quale “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”. Sul punto, si osserva che la norma introdotta nel tessuto codicistico dalla L. n. 69/2009, recepisce ed estende a tutti i processi il meccanismo dell’art. 385 comma 4 c.p.c., precedentemente dettato per il solo processo di Cassazione ed ora coerentemente abrogato; ma non si applica al processo previdenziale, posto che l’articolo 152 disp. att. c.p.c. richiama solo il primo comma, non anche il terzo comma dell’articolo 96 c.p.c.

Per espressa scelta normativa, la pronuncia può essere effettuata d’ufficio e non ha limite nella determinazione dell’importo della condanna, come invece vi era nell’art. 385 c.p.c. ora abrogato. Pur nel silenzio della norma, è opinione pacifica quella per la quale non vi sono ostacoli a ravvisare la configurabilità della fattispecie anche nei confronti del terzo chiamato, come nel caso del presente giudizio, o del terzo intervenuto.

Così come era già stato chiarito con riferimento al primo comma, la domanda non è poi proponibile al di fuori del processo in cui la condotta generatrice della responsabilità aggravata si è manifestata, e quindi in via autonoma, consequenziale e successiva, davanti ad altro giudice, salvo il caso in cui la possibilità di attivare il mezzo sia rimasta preclusa in forza dell’evoluzione propria dello specifico processo dal quale responsabilità aggravata ha avuto origine, essendovi cognizione inscindibile sull’an e sul quantum della pretesa risarcitorie; ed è formulabile per la prima volta anche in sede di precisazione delle conclusioni, non attenendo al merito della controversia in quanto non idonea a mutare oggetto e causa petendi della domanda.

Nonostante il comma 1 parli di ‘sentenza’, l’applicazione dell’art. 96 comma 3 c.p.c. è poi generalmente riferita a tutti i procedimenti in cui vengono regolate le spese di lite, quali volontaria giurisdizione, cautelari ante causam, sommario di cognizione ex artt. 702 bis e ss. c.p.c. (cfr. Trib. Piacenza 15/11/2011 n. 855/2011 e ord. 22/11/2010, Trib. Verona 21/3/2011 e 1/7/2010, Trib. Torino ord. 16/10/2010).

Ad avviso di questo Giudice e come peraltro già precisato da autorevole Dottrina, inoltre, la pronuncia non abbisogna della preventiva instaurazione del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., essendo posterius e non prius logico della decisione di merito (in questi termini cfr. anche Trib. Piacenza 15/11/2011 n. 855/2011 e ord. 22/11/2010; per la giurisprudenza di questo Tribunale, cfr. Trib. Reggio Emilia nn. 729/2012 e 712/2012).

Tre sono invece le principali questioni sulle quali non si è formata un’univoca posizione interpretativa, e sono quelle relative alla natura della norma, al suo ambito di applicazione ed all’entità della condanna. In particolare, è discusso se, per procedere alla condanna ai sensi del terzo comma, sia o meno richiesta l’esistenza di un danno di controparte; se siano o meno richiesti i requisiti della lite temeraria di male fede e colpa grave, previsti dal primo comma dello stesso articolo 96; quali siano infine i parametri che devono guidare la discrezionalità del giudice nel quantificare l’importo della condanna. Ciò posto, con riferimento alla prima tematica della natura della norma, questo Giudice, aderendo alla tesi già propugnata da parte della Dottrina e condivisa dalla quasi totalitaria maggioritaria giurisprudenza di merito, ritiene che l’articolo 96 comma 3 c.p.c. introduca nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia deflazionando il contenzioso ingiustificato (cfr. Trib. Varese 23/2/2012, 6/2/2001, 22/1/2011, 27/5/2010, 30/10/2009; Trib. Piacenza 15/11/2011 n. 855/2011, 7/12/2010, ord. 22/11/2010; Trib. Verona 21/3/2011, ord. 1/10/2010, 20/9/2010, ord. 1/7/2010; Trib. Min. Milano dec. 4/3/2011; Trib. Foggia 28/1/2011; Trib. Rovigo sez. dist. Adria 7/12/2010; Trib. Roma sez. dist. Ostia 9/12/2010; Trib. Varese sez. dist. Luino sez. dist. Luino ord. 23/1/2010; Trib. Roma 11/1/2010; Trib. Prato 6/11/2009, Trib. Milano ord. 29/8/2009. In questi esatti termini, sia pure come obiter dictum, anche Cass. n. 17902/2010, e, per la giurisprudenza amministrativa, Cons. Stato n. 1209/2012. Per la giurisprudenza di questo Tribunale, cfr. Trib. Reggio Emilia nn. 729/2012 e 712/2012). Risulta conseguentemente esclusa, come peraltro ben lumeggiato dai lavori preparatori, la necessità di un danno di controparte, pur se la condanna è stata prevista a favore della parte e non dello Stato, al probabile fine di rendere effettivo il recupero della somma e quindi l’afflittività della sanzione. E’ infatti ben vero che la teorica del danno punitivo, conosciuta negli ordinamenti anglosassoni nelle forme dei punitive o exemplary damages comminati in funzione di deterrence a chi ha agito con malice o gross negligence in violazione della fairness processuale, è sostanzialmente estranea alla storia del nostro diritto civile. Ma è altrettanto vero che, per un verso, il contenuto letterale della norma pare inequivoco nel non presupporre l’esistenza di un danno di controparte; e per altro verso non vi sono parametri costituzionali che vietano al Legislatore di introdurre tale tipologia di danno.

Con riferimento invece alla tematica dell’elemento soggettivo richiesto in capo al destinatario della condanna, pare a questo Giudice che possa essere seguita la tesi più garantista, che postula comunque la presenza del requisito della malafede o della colpa grave, non già della sola colpa lieve od addirittura della mera soccombenza (così Trib. Piacenza 15/11/2011 n. 855/2011, 7/12/2010, ord. 22/11/2010; Trib. S Maria Capua a Vetere 26/9/2011; Trib. Verona ord. 21/3/2011, ord. 1/10/2010, sent. 20/9/2010; Trib. Foggia 28/1/2011; Trib. Oristano ord. 17/11/2010; Trib. Pescara sent. 30/9/2010; Trib. Padova ord. 10/11/2009, ord. 2/11/2009, ord. 30/10/2009. Per la giurisprudenza di questo Tribunale, cfr. Trib. Reggio Emilia nn. 729/2012 e 712/2012). Invero, pur essendo la questione oggettivamente opinabile, militano a favore di tale ricostruzione un argomento letterale ed uno logico-sistematico.

In particolare, da una prima angolazione e sotto il profilo strettamente letterale, va osservato che la norma è stata introdotta come comma 3 del già esistente art. 96 c.p.c., dettato proprio in tema di lite temeraria in quanto connotata dall’avere agito con malafede o colpa grave; e tale inserimento nel medesimo articolo rende ragionevole ritenere che il requisito soggettivo del primo comma debba reggere anche la fattispecie del terzo comma. Da un punto di vista logico-sistematico, poi, la natura sanzionatoria della norma non può che presupporre, a pena di irrazionalità del sistema, un profilo di censura nel comportamento del destinatario della condanna, ciò che appunto deriva dal suo elemento soggettivo di dolo o colpa grave.

Né, ad avviso del Giudice, può far diversamente opinare l’incipit della nuova previsione normativa, che introduce la norma con l’inciso “in ogni caso”. Detto inciso, infatti, può essere interpretato non già nel senso di disattendere quanto previsto dal primo comma con riferimento alla necessità del profilo della temerarietà della lite; bensì con riferimento alle peculiarità poi poste dallo stesso terzo comma rispetto quanto previsto dal primo comma, id est alla possibilità di operare la pronuncia d’ufficio e senza istanza di parte, nonché alla possibilità di operare la condanna anche in assenza di un danno di controparte.

Proprio le differenziazioni da ultimo citate in ordine all’officialità della pronuncia ed all’assenza della necessità di un danno, rendono teoricamente possibile la coesistenza di una pronuncia di condanna ai sensi del primo comma con una ai sensi del terzo comma; pur se tale ipotesi devi ritenersi più che residuale, stante la limitatezza dell’area applicativa dell’art. 96 comma 1 c.p.c., che secondo la pacifica interpretazione della Suprema Corte presuppone la prova di un danno non aliunde risarcito ed ha così trovato applicazione concreta in rarissime ipotesi. La terza ed ultima problematica riguarda invece l’entità della sanzione monetaria, atteso che, come detto, la norma non prevede limiti edittali. Probabilmente, la soluzione più ragionevole ed utile ad orientare la discrezionalità del giudice è quella che utilizza il parametro delle spese di lite. In particolare, il protocollo del Tribunale di Verona, forse attualmente il più noto a livello nazionale, si è orientato nell’individuare nella forbice tra il minimo di un quarto ed il M. del doppio delle spese di lite (scelta quest’ultima che ricalca quella fatta dal Legislatore nell’ormai abrogato articolo 385 c.p.c. in tema di ricorso per Cassazione), l’entità della condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c. Quanto al parametro che deve guidare la concreta scelta dell’ammontare, se si aderisce alla tesi, qui condivisa, della natura sanzionatoria della pronuncia, esso deve essere quello della gravità dell’abuso processuale. Infatti, gli altri parametri possibili – quali ad esempio il valore della controversia, la natura della prestazione e l’entità del danno, richiamati anche dall’art. 614 bis c.p.c. in tema di astreintes – paiono volti più alla quantificazione del danno che alla quantificazione di una sanzione. Quanto sopra offre le coordinate per la statuizione sul caso concreto, ravvisandosi tutti i presupposti per la pronuncia ex art. 96 comma 3 c.p.c. In particolare:

– l’articolo 96 comma 3 c.p.c. è ratione temporis applicabile, posto che la causa è stata introdotta nel marzo 2011, e quindi dopo l’entrata in vigore della L. n. 69/2009;

– la pronuncia può essere resa d’ufficio, senza bisogno di instaurare il contraddittorio sul punto e senza che sia provato un danno di controparte;

– sussiste, da parte di X., una colpa grave, consistita nell’avere resistito in giudizio ed addirittura formulato domanda riconvenzionale, in modo manifestamente temerario e strumentalmente a fini dilatori, ciò che è testimoniato dalla proposizione di una tesi giuridicamente del tutto inconsistente e infondata già in fatto, in ragione di quanto esposto sub a). Ciò detto, stimasi equo indicare nella metà di quanto liquidato a titolo di spese di lite per ciascuna parte, l’entità della condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c.

P.Q.M.

il Tribunale di Reggio Emilia in composizione monocratica definitivamente pronunciando, nel contraddittorio tra le parti, ogni diversa istanza disattesa

– condanna X. Costruzioni s.r.l. a pagare a A. M. € 5.616 al lordo della ricevuta d’acconto, oltre interessi ex D.Lgs. n. 231/2002 dal 16/4/2009 al saldo;

– condanna X. Costruzioni s.r.l. a rifondere a A. M. le spese di lite del presente giudizio, che liquida in € 200 per rimborsi, € 2.500 per compensi, oltre IVA, CPA ed art. 14 TP;

– condanna X. Costruzioni s.r.l. a rifondere a INA Assiitalia le spese di lite del presente giudizio, che liquida in € 1.800 per compensi, oltre IVA, CPA ed art. 14 TP;

– condanna X. Costruzioni s.r.l. a pagare a A. M. ex art. 96 comma 3 c.p.c. € 1.250;

– condanna X. Costruzioni s.r.l. a pagare a INA Assitalia ex art. 96 comma 3 c.p.c. € 900.

Reggio Emilia, 25/9/2012.

Il Giudice
dott. Gianluigi MORLINI

IL CANCELLIERE

Depositato in Cancelleria il ……………………………….

IL CANCELLIERE

 

 

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