femminicidioDa “Quaderni Romani” a cura dell’avv. Luciano Randazzo e della dott.ssa Angela Allegria

Chi uccise Luciana, la mora dell’Appia Pignatelli? Estate del 1987, la città di Roma è vuota.

Le ferie sono arrivate prepotenti, lasciando pochi romani alle prese con il caldo torrido, temperato soltanto dal frizzante ponentino che domina sulle serate romane, specialmente al Gianicolo. Scarse anche le notizie, la politica ed il palazzo sono in ferie, l’attività parlamentare sospesa, tutto tace, dorme. Le giornate scorrono sonnolente. La cronaca di Roma è scarna, priva persino delle notizie pruriginose, quelle che tengono alta l’attenzione dei lettori. Ma qualcosa irrompe sulle pagine della cronaca romana. Il quotidiano l’Unita pubblica il 9 luglio un articolo che suscita subito l’interesse dei lettori, soprattutto attira l’attenzione della Questura di Roma, anzi del funzionario di turno della squadra mobile. Uno sconosciuto, dal nome di Antonio Nalli, forse ancora vivo nel ricordo di qualche anziano poliziotto, confessa un omicidio davanti all’incredulo dirigente del Commissariato di Tivoli. Consumato a seguito di una rapina, avvenuta circa trent’anni prima, in via Appia Pignatelli, località Torraccia, esattamente il 21 giugno 1958. Vittima tale Luciana Monti di anni 27, soprannominata nell’ambiente malavitoso del tempo la mora dell’Appia Pignatelli. Ma chi era la Mora dell’Appia Pignatelli? Era una prostituta romana e viveva nel quartiere Trastevere. La classica battona, secondo la colorita terminologia gergale. Una prostituta stanziale, che aveva scelto quale luogo di lavoro, per ricevere i clienti occasionali, una squallida ed improvvisata alcova, posta vicino ai ruderi romani della tomba di Cecilia Metella, sull’Appia Pignatelli appunto.

Il degrado sociale di quei tempi non provava rispetto neppure per le vestigia romane. Anzi la loro lontananza dal centro cittadino, e la loro ubicazione in zone isolate, poco frequentate, ne facevano luoghi ideali per consumare amplessi frettolosi e prezzolati. Allora iniziava quel degrado urbano che avrebbe trovato oggi i consequenziali epigoni. Fu un omicidio truculento, secondo le cronache del tempo, che quotidianamente si rincorrevano per soddisfare la curiosità morbosa dei lettori. Gli omicidi di donne, e di prostitute in particolare, destavano la curiosità morbosa tipica di quella società chiusa, gretta ed ipocritamente cattolica. La descrizione dei particolari raccapriccianti superava l’interesse per lo sviluppo delle indagini. Quel corpo martoriato dalle coltellate, inferte con ferocia inaudita, venne identificato per quello di Luciana Monti, di anni 27, giacente supina in una sterpaglia presso il mausoleo di Cecilia Metella. Un paradosso storico, applicazione della teoria del contrappasso, “contra patiri” di senechiana memoria. Anche Cecilia, nobildonna romana, sposa di Cornelio Nepote, secondo quanto riferisce lo stesso Cicerone, ebbe una relazione extraconiugale con Columella e venne considerata dalla morigerata società romana una donna di facili costumi. Due donne, due diverse tradizioni, due scelte di vita difformi, l’amore prezzolato per Luciana e l’amore profano per Cecilia, ma in entrambi i casi vittime d’una società che bolla l’amore come peccaminoso.

La mora era l’appellativo dato da clienti e frequentatori di via Appia, i così detti puttanieri, ed era molto bella. Una bellezza prorompente, come voleva quel modello femminile importato dai costumi americani e che oramai si stava radicando nelle nostre tradizioni. Abitava nel vecchio quartiere romano di Trastevere, che in quegli anni non era quello che oggi noi conosciamo: allegro, festaiolo, frequentato dagli amanti della movida notturna, dai sistematici cercatori di trattorie tipiche a tutti i costi (che oggi tra l’altro non esistono più). Oggi si trovano lì delle ridicole imitazioni, rifacimenti di osterie per irretire i nuovi barbari, i turisti, i cittadini non romani. Ma un tempo Trastevere era il centro del malaffare quotidiano, quello che oggi s’è spostato nelle borgate. Il trasteverino nell’immaginario era il classico bullo romano, arrogante, presuntuoso, progenitore del moderno coatto, ben descritto da Carlo Verdone. Un malavitoso dedito a piccoli furti, piccole truffe e prestiti usurai. Non c’era il commercio in grande stile di droghe, era in buona sostanza un mondo atavico, piccolo e forse anche semplice. Le vecchie sale cinematografiche, come il Cinema America, erano il centro del divertimento, soprattutto domenicale. Richiamavano torme di persone: dagli impiegati con le famiglie, che trascorrevano qualche ora in serenità, alle cameriere che cercavano l’evasione, per sognare una vita migliore e l’immancabile amore passionale, come insegnava la filmografia del tempo tramite Amedeo Nazzari ed Ivonne Sanson, gli eroi ideali. Coppie di giovani che approfittando del buio in sala cercavano un po’ di intimità negata dal loro povero quotidiano, tra sospiri, fumo denso che quasi si tagliava e baci appassionati. Così Luciana Monti ogni mattina si recava al lavoro sulla via Appia, accompagnata dal suo amante e protettore, lo squallido Antonio Del Sere. Era separata dal marito Luciano Cossu. L’istituto del divorzio era ancora lontano per quell’Italia, conformista ed eccessivamente cattolica. Il cadavere venne trovato da due sue colleghe che battevano nella zona, era in posizione supina adagiato su un giaciglio improvvisato, immerso in una pozza di sangue, a seguito di quattro coltellate inferte con una violenza inaudita.

Sicuramente un omicidio derivato da una rapina. La borsetta era aperta e mancavano dei soldi, alcuni modesti gioielli e la fede nuziale che la povera Luciana portava al dito: forse una patetica forma di difesa dai malintenzionati. Mancava anche il suo orologio, di poco valore. Le indagini in un primo momento si focalizzarono su di un biondino con una maglietta a strisce bianche e celesti, con il quale era stata vista appartarsi. Successivamente si accertò che il giorno dell’omicidio la vittima si era appartata con due uomini, ma di quest’ultimo non si seppe mai nulla, se ne persero subito le tracce e nessuno indagò approfonditamente, come in genere accadeva a quei tempi. Neppure si riuscì stabilire l’ora esatta della morte rispetto all’ora del rinvenimento del cadavere, le 14 pomeridiane. Antonio del Sere, il suo protettore ed amante, venne subito imputato (non esisteva ancora proceduralmente la figura dell’indagato). Ma la sua posizione venne presto archiviata: quel giorno si era avvicinato al luogo del delitto, ma avendo visto un trambusto era fuggito per la paura. Questo era l’amore che provava per la sua Luciana. Ma la dichiarazione fu sufficiente a porlo in libertà. Certo gli investigatori del tempo erano proprio impreparati, per non dire superficiali, in materia d’indagini per gli omicidi, oppure sollecitati ad indagare solo su casi eclatanti e mediatici come nel 1953 era stato per la morte di Wilma Montesi. Tutti coloro che vennero imputati per l’omicidio della mora vennero prosciolti. Nessuno venne rinviato a giudizio, e l’autore o gli autori materiali del delitto non furono identificati. Le indagini, come spesso accadeva a quei tempi, furono superficiali, inconsistenti e limitate, soprattutto celeri, troppo celeri.

L’indagine doveva chiuderai subito, l’estate romana che era alle porte non doveva essere turbata dalla morte di una povera prostituta trasteverina. Quella festa de Noantri, la festa del quartiere di Trastevere, non doveva essere rovinata dal ricordo di una morta ammazzata. Di Luciana Monti di anni 27, prostituta abituale schedata, non se ne parlò più. L’oblio prese il sopravvento e tutti dimenticarono. Ma un mercoledì di luglio del 1987, quando erano trascorsi oltre trenta anni dall’omicidio, il quotidiano L’Unità pubblicava un articolo a firma di Giuliano Capecelatro, che riportava una dettagliata confessione dell’omicidio nei confronti di una donna avvenuto circa trenta anni prima. Le dichiarazioni confessorie ad uno stupito dirigente del locale Commissariato riguardavano la morte di Luciana Monti, prostituta detta la mora della Appia Pigatelli, e venivano rese da Antonio Nalli, un degente presso la Casa di Cura per malattie mentali Divina Provvidenza. Quelle dichiarazioni in un primo momento apparvero inattendibili, perché rese da un soggetto schizofrenico, un disturbato mentale, ma soprattutto perché rilasciate a distanza di sette giorni dalla pubblicazione sullo stesso quotidiano di un inchiesta proprio sull’omicidio Monti di tanti anni prima. Le circostanze che colpirono gli inquirenti della polizia giudiziaria furono l’estrema precisione e puntualità, nonchè la coincidenza con quanto dichiarato dai testimoni sentiti all’epoca del fatto. Quel giorno, il 21 giugno 1958, il Nalli insieme al suo amico biondino era andato sulla via Appia, e si erano entrambi appartati con Luciana la mora per consumare un rapporto sessuale. Il biondino aveva con se’ una macchina fotografica, elemento questo che non venne preso in considerazione dagli investigatori, se approfondito avrebbe potuto portare al un percorso diverso.

Perché un cliente andava ad un incontro con una prostituta recando con se’ una macchina fotografica? Per quale motivo il rapporto sessuale doveva essere consumato in tre? Molto inusuale. Forse un fotografo dilettante a caccia di scene particolari da fotografare per poi rivendere al mercato illegale delle foto porno fatte in casa? La rapina fu effettivamente il movente dell’Omicidio? Nessuna risposta a queste domante. Chi confessava il delitto era un malato psichiatrico, un manovale perennemente disoccupato, che a causa della disperazione, del malessere e di un alcolismo conclamato, era diventato un malato mentale e con gravi disturbi del comportamento. Un povero diavolo che preso dal rimorso per quel l’omicidio di trenta anni prima, e dopo la morte del suo amico biondino, esecutore materiale, peraltro morto un anno prima, aveva deciso di parlare per purgarsi l’anima. Il rimorso lo aveva corroso. La Polizia romana riapriva le indagini sulla spinta delle dichiarazioni, cercando di trovare validi riscontri probatori. Poi non si seppe più nulla. Anche in questo caso la povera Luciana Monti, prostituta abituale, venne ancora dimenticata. Stava nascendo l’Italia craxiana, l’Italia del “Made in Italy”,del falso benessere e degli sprechi e delle vicende che poi avrebbero portato all’attuale crisi. Di li a poco sarebbe nata Tangentopoli, seppellendo sempre di più le vicende che a nessuno interessavano. Le cronache narrano che qualcuno lascerebbe spesso un fiore sulla tomba di Luciana, forse l’unico modo sincero per ricordarla.

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