Mafia e politica tra vecchie questioni interpretative, recenti riforme e proposte populiste

 a cura della D.ssa Valentina Aragona

Sommario: 1. Cenni introduttivi: gli elementi del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso; – 2. L’evoluzione e la disciplina del concorso esterno in associazione mafiosa; – 3. Il concorso esterno nell’ipotesi del patto politico-mafioso; – 4. I rapporti tra il concorso esterno e il reato di scambio politico elettorale; – 5. Segue. La recente riforma dell’art. 416 ter c.p.; – 6. Osservazioni conclusive: analisi e criticità della c.d. Legge Lazzati

 

  1. 1.                Cenni introduttivi: gli elementi del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso

Prima di addentrarsi nella disamina del concorso esterno occorre introdurre il tema analizzando il reato di cui all’art. 416 bis c.p. Quest’ultima norma, introdotta dal legislatore nel nostro codice penale con la L. 13 settembre 1992 n. 646, punisce il delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso, che è stato inserito tra i delitti contro l’ordine pubblico[1]. Quest’ultimo viene individuato da alcuni Autori quale unico bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice in esame, la cui offesa è ravvisata «nel porsi dell’associazione come attività antigiuridica separata dai singoli delitti ed idonea a cagionare un grave pregiudizio per la pace e la tranquillità sociale»[2]. Secondo altra parte della dottrina, invece, il reato de quo deve qualificarsi come plurioffensivo, in quanto oltre a ledere l’ordine pubblico minaccia anche la libertà di mercato e la libera iniziativa economica[3]. Infine, la recente dottrina ha individuato nel bene giuridico tutelato dall’art. 416 bis c.p. la libertà morale di una pluralità di consociati lesa dal compimento degli atti d’intimidazione, che caratterizzano il reato de quo[4]. Tale orientamento trova certamente conforto nel fatto che connotato essenziale dell’associazione di tipo mafioso è proprio l’utilizzo del c.d. metodo mafioso, cioè della capacità degli affiliati di sfruttare la forza d’intimazione dell’associazione mafiosa, la quale è capace di creare vincoli di assoggettamento ovvero uno stato di sottomissione e di omertà intesa come rifiuto a collaborare con la giustizia, fondato sulla paura[5].

L’utilizzo del metodo mafioso, poi, deve mirare al perseguimento di talune finalità elencate tassativamente dall’art. 416 bis c.p. e considerate alternative le una alle altre, non essendo necessario che tali scopi siano effettivamente realizzati, trattandosi di un reato di pericolo volto a sanzionare appunto la sola messa in pericolo dei beni tutelati dalla norma[6].

Ai fini della configurabilità del reato de quo, inoltre, non risulta necessaria l’esistenza di una struttura organizzativa particolarmente complessa ed articolata[7]. Infatti, per associazione la dottrina prevalente intende una riunione di più persone caratterizzata da un minimo di stabilità ed organizzazione, volta a realizzare un programma criminoso e caratterizzata da un complesso di regole sociali[8]. Proprio da una tale descrizione del concetto di associazione e dalla lettera dell’art. 416 bis c.p., che richiede la presenza di tre o più persone, si evince agevolmente come la fattispecie in esame sia un reato plurisoggettivo a concorso necessario[9].

In particolare, la norma incriminatrice de qua individua diverse categorie di soggetti, ai quali è riservato un diverso trattamento sanzionatorio. Innanzitutto, l’art. 416 bis c.p. al comma 2, nell’elencare le condotte incriminate, consente di distinguere tre tipologie di soggetti: i promotori, che portano a conoscenza di terzi il programma sociale e operano anche al fine di far acquisire all’associazione la forza d’intimidazione necessaria a generare le condizioni di assoggettamento ed omertà; gli organizzatori, che nell’ambito delle direttive dei capi coordinano autonomamente le attività degli altri aderenti all’associazione; ed, infine, coloro che costituiscono l’associazione, cioè che determinano la nascita del sodalizio criminoso[10]. Tali differenziazioni sono in realtà molto sfumate in quanto i confini tra le varie figure risultano molto labili e servono in realtà solo a distinguere i c.d. capi dell’associazione, che regolano l’attività degli altri consociati, collocandosi in una posizione di comando e che per tale ruolo subiscono un trattamento sanzionatorio più duro, rispetto ai meri partecipi. A quest’ultimi fa riferimento il comma 1 dell’art. 416 bis c.p., il quale prevede che debbano essere almeno tre e ne sancisce la punibilità per il solo fatto di partecipare all’associazione mafiosa, seppur in misura minore rispetto ai soggetti di cui al comma 2 della stessa norma.

La partecipazione va concepita come adesione vincolante ed impegnativa del singolo all’associazione, effettuata normalmente nel rispetto delle regole formali dalla stessa previste, che comporta a carico del partecipe un dovere di attivarsi al fine di conseguire le finalità criminose dell’ente, non appena questo impartisca il relativo ordine[11]. Si tratta, quindi, di una condotta a forma libera, di talché qualsiasi azione rilevante per l’associazione e non riconducibile alle figure di supremazia sopra indicate rientra nella partecipazione. Sul punto, in particolare la Suprema Corte ha ritenuto che «risponde di partecipazione ad associazione mafiosa colui che risulta in rapporto di stabile e organica compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare l’assunzione di un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato «prende parte» al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi»[12]. I criteri per individuare il partecipe vengono identificati in tutti gli indicatori fattuali, dai quali, sulla base di regole di esperienza, attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente individuarsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio, purché si tratti di indizi gravi e precisi, come, ad esempio, l’affiliazione rituale, la commissione di delitti-scopo, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di osservazione e prova, oltre a molteplici, variegati e però significativi facta concludentia[13]. Tuttavia, sul punto la dottrina ha più volte precisato che per provare l’appartenenza all’associazione non può farsi riferimento a dei meri formalismi d’iniziazione, che non sono comuni in tutte le organizzazioni mafiose e potrebbero, quindi, anche mancare, ma occorre provare la partecipazione attiva del soggetto che si assume essere un partecipe del sodalizio mafioso[14].

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, per la configurabilità del reato in esame occorre il dolo generico costituito dalla coscienza e volontà degli associati di far parte del sodalizio criminoso, ed il dolo specifico integrato dalla volontà di contribuire all’attuazione del programma criminoso in senso generico, senza che la volontà debba ricoprire l’intento di realizzare specifici reati, la cui realizzazione è tra l’altro indifferente, trattandosi di un reato di pericolo[15]. Con particolare riferimento ai partecipi dell’associazione, non è sufficiente la loro consapevolezza di apportare un contributo all’associazione stessa, ma è necessaria anche la consapevolezza di essere membro di una collettività con la quale si condividono determinati scopi e di essere, quindi, accettato come membro dell’associazione stessa[16].

Infine, deve rilevarsi che il reato di cui all’art. 416 bis c.p. configura un reato permanente la cui consumazione non cessa con la commissione del singolo reato mezzo, ma si protrae fino allo scioglimento dell’associazione stessa. La consumazione del reato in esame, quindi, è legata all’esistenza dell’associazione con la quale sorge e permane l’offesa all’ordine pubblico, quale bene giuridico tutelato dalla norma[17]. Per i singoli soggetti, perciò, il reato avrà inizio al momento dell’ingresso nell’associazione e cesserà al momento del recesso dalla stessa, fermo restando che l’associazione, comunque, resta in vita indipendentemente dall’alternarsi di diversi consociati al suo interno.

 

  1. 2.               L’evoluzione e la disciplina del concorso esterno in associazione mafiosa

Analizzati gli elementi fondamentali costituenti il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso, occorre soffermarsi sul dibattuto problema del concorso esterno in associazione mafiosa. Quest’ultimo ha sostanzialmente genesi giurisprudenziale e risponde all’esigenza di non lasciare impunite le condotte di sostegno alle organizzazioni criminali poste in essere da persone che non fanno parte della struttura associativa[18]. Infatti, nel corso degli anni 90, in un periodo in cui era molto forte e preminente l’esigenza di colpire non solo gli appartenenti alle associazioni mafiose, ma anche coloro i quali esprimevano consenso e sostegno dall’esterno, la giurisprudenza, facendo ricorso all’art. 110 c.p., ha iniziato ad allargare la punibilità per il reato di associazione mafiosa anche al c.d. extraneus, il quale, pur non essendo parte integrante dell’associazione mafiosa, dava alla stessa un contributo causale anche occasionale.

Tuttavia, l’ipotesi del concorso esterno ha determinato l’insorgere di diverse problematiche in relazione alla configurabilità del concorso eventuale di un esterno in un reato a concorso necessario e plurisoggettivo, quale è quello di cui all’art. 416 bis c.p. Ciò, in considerazione del fatto che, da quanto sin ora esposto, appare evidente come la partecipazione ad un’associazione mafiosa assuma dei connotati ben diversi rispetto al concorso di persone, nel quale non occorre un preventivo accordo tra le parti, essendo sufficiente la mera coscienza e volontà di realizzare un reato e la consapevolezza di concorrere con altri soggetti alla realizzazione delle stesso, oltre ovviamente al contributo causale, che il concorrente deve apportare nella commissione dell’illecito[19]. Diversamente, nell’associazione mafiosa è di preminente importanza l’esistenza di un vincolo associativo tra le parti, che si connota per la sua stabilità e che rappresenta un’entità ontologicamente distinta dalle singole deliberazioni criminose, le quali fanno parte, comunque, di un progetto criminale generico ed indeterminato, non essendo possibile, quindi, ravvisare un’associazione per la commissione di un solo reato determinato.

In particolare, la tormentata evoluzione giurisprudenziale relativa al concorso esterno inizia con la ormai storica sentenza Demitry[20], nella quale la Suprema Corte è stata chiamata a dirimere un contrasto giurisprudenziale tra quella parte di giurisprudenza che ammetteva la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa, distinguendolo dalla partecipazione nell’episodicità del contributo dato dall’estraneo[21]; ed altra parte che, invece, la negava, ritenendo che chiunque tenga una condotta consapevole che fornisca all’associazione un contributo causale, è già individuabile come partecipe dell’associazione stessa, al di là della sua rituale affiliazione, secondo le regole del sodalizio mafioso[22].

Secondo questa parte di giurisprudenza, tale circostanza troverebbe conferma nel fatto che il legislatore ha previsto circostanze aggravanti per il reato di favoreggiamento e per qualsiasi altro reato non punito con l’ergastolo, qualora il fatto commesso sia rivolto a favorire le associazioni di cui all’art. 416 e 416 bis c.p., ma non integri gli estremi della partecipazione punibile. Le condotte agevolatrici del sodalizio criminoso sarebbero già state, quindi, compiutamente disciplinate dal legislatore[23]. Pertanto, avuto riguardo anche a tali norme si è affermato che l’unica forma di concorso di persone punibile nel reato de quo è quella di concorso necessario e, quindi, di vera e propria partecipazione.

Sul punto si è espressa la Suprema Corte a Sezioni Unite, la quale chiarito che «è configurabile il concorso esterno nel reato di associazione mafiosa per quei soggetti che sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano – sia pure mediante un solo intervento – un contributo all’ente delittuoso tale da consentire all’associazione di mantenersi in vita anche limitatamente ad un determinato settore, onde perseguire i propri scopi»[24]. La Cassazione ha raggiunto tale conclusione sul rilievo che entrambe le sentenze dalle quali si è originato il contrasto, comunque, ammettevano la configurabilità del concorso eventuale anche nei reati plurisoggettivi a concorso necessario, quale è quello di associazione a delinquere di stampo mafioso. Inoltre, il Giudice di legittimità ha ritenuto che il concorrente eventuale si differenzi dal partecipe in quanto non vuole far parte dell’associazione, ma vi apporta un contributo solo temporaneo, soprattutto nei momenti di patologia dell’associazione stessa. Tale assunto non potrebbe essere sconfessato neppure dal rilievo che il concorrente eventuale debba agire con dolo specifico e che questo lo renderebbe automaticamente partecipe dell’associazione, in quanto è ammissibile, secondo la Suprema Corte, il concorso con dolo generico in un reato a dolo specifico, purché gli altri concorrenti perseguano il fine previsto dalla legge. Secondo questa impostazione, dunque, non è necessario che il concorrente voglia far parte dell’associazione e voglia perseguirne tutti i fini, ma basta semplicemente che abbia la consapevolezza che altri ne fanno parte e ne realizzano il programma criminoso[25]. Appare evidente che le Sezioni Unite nella pronuncia richiamata abbiano considerato configurabile il concorso esterno nel reato di associazione mafiosa solo in situazioni di patologia dell’organizzazione, nelle quali si renda necessario un contributo esterno particolarmente qualificato, che consenta all’associazione di mantenersi in vita e perseguire i propri scopi[26].

Tuttavia, la distinzione tra concorrente esterno e partecipe fondata esclusivamente sulla presenza o meno di una situazione patologica per la vita dell’associazione, ha suscitato non poche perplessità, apparendo piuttosto indeterminata ed evanescente e, soprattutto, inidonea a rispecchiare l’agire normale delle associazioni mafiose, che si avvalgono di solito di legami di tipo duraturo e non di semplici prestazioni occasionali[27]. Pertanto, un concorrente esterno potrebbe anche dare un contributo continuativo al sodalizio criminoso e, tuttavia, rimanere tale perché la sua condotta non presenta i contrassegni propri dello status di socio[28].

Inoltre, ciò che lamentava e che continua a lamentare parte della dottrina, è un’incapacità dell’art. 416 bis c.p. di descrivere con sufficiente precisione le condotte punibili con un evidente vulnus al principio di determinatezza, al quale si affiancano i prospettati contrasti del concorso esterno, quale fattispecie di natura puramente giurisprudenziale, con il principio di legalità e con l’art. 111 Cost. a mente del quale l’individuazione dei reati non può essere frutto della discrezionalità del giudice[29].

Viste le numerose difficoltà interpretative riscontrate, le successive pronunce giurisprudenziali intervenute dopo la sentenza Demitry, nell’ottica di una migliore tipizzazione della fattispecie, hanno tentato di ancorare a parametri di maggiore certezza la ricostruzione del rapporto causale tra la condotta del partecipe e il rafforzamento o l’agevolazione dell’associazione mafiosa[30]. Emblematiche, in tal senso sono,  le storiche sentenze Carnevale e Mannino, nelle quali le Sezioni Unite hanno chiarito che assume la qualità di concorrente esterno nel reato di associazione di tipo mafioso la persona che, priva dell’affectio societatis e non inserita nella struttura organizzativa dell’associazione, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, purché questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e sia comunque diretto alla realizzazione anche parziale del programma criminoso della medesima al di là dell’esistenza o meno di una situazione patologica per la vita dell’associazione[31]. I requisiti per la sussistenza del concorso esterno delineati dalla Suprema Corte, e, poi, richiamati da parte della dottrina, quindi, dovrebbero tendere al rispetto del principio di materialità, atteso che la condotta deve dare un contributo effettivo e causale all’attività dell’associazione mafiosa, del principio di offensività, poiché siffatto contributo deve aver rafforzato concretamente l’attività dell’associazione stessa ed, infine, del principio di colpevolezza, in quanto il comportamento dell’extraneus deve essere connotato dal dolo inteso come consapevolezza di contribuire con la sua condotta al mantenimento o al rafforzamento dell’associazione[32].

Altra questione dibattuta e affrontata dalla giurisprudenza e dalla dottrina, poi, riguarda il dolo che deve accompagnare la condotta del concorrente esterno. Come già evidenziato, la sentenza Demitry ha evidenziato come possa configurarsi a carico del concorrente esterno, indifferentemente, o il dolo generico, dato dalla consapevolezza e volontà di agevolare l’associazione, o il dolo specifico, individuabile nello scopo di realizzare le particolari finalità del consorzio criminoso, purché manchi la volontà di appartenere al sodalizio criminoso[33].

Diversamente, le sentenze successive hanno rivisto tale posizione, ritenendo che il concorrente debba agire almeno con il dolo diretto, che si concreta nella volontà di realizzare, anche parzialmente, il programma criminoso dell’associazione. La Suprema Corte, infatti, ha affermato che «ai fini della configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa sul piano dell’elemento soggettivo occorre dimostrare che il soggetto sia consapevole dei metodi e dei fini dell’associazione mafiosa e dell’efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione, talché egli “sa” e “vuole” che il suo contributo sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso»[34]. Tale orientamento ha trovato sostegno anche in alcune recenti pronunce, nelle quali la Suprema Corte ribadisce la necessità di un dolo diretto inteso come coscienza e volontà, che l’agente deve avere, di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell’associazione, tramite il rapporto col soggetto qualificato[35].

Una siffatta posizione è stata, invece, oggetto di critiche da parte di quella dottrina che ancora ritiene non configurabile il concorso esterno in associazione mafiosa, atteso che «non vi è alcuna plausibile ragione che legittimi per la condotta degli estranei il ricorso all’indeterminata figura della condotta concorsuale di cui all’art. 110 c.p.»[36]. Ciò, in quanto, in quanto il dolo dell’estraneo investe sia il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice sia il contributo causale recato dalla condotta dell’agente al sodalizio criminoso ed al suo rafforzamento, perciò deve ritenersi applicabile tout court l’art. 416 bis c.p.[37]. È chiaro, infatti, che se si accoglie un’interpretazione ampia della nozione di partecipe, intendendo come tale colui che consapevolmente arreca un contributo causale al perdurare dell’associazione o al suo rafforzamento, non vi sarà spazio per la figura del concorrente.

Tuttavia, l’orientamento dottrinale prevalente ritiene, in ossequio al prima richiamato orientamento giurisprudenziale, che debba accogliersi una nozione ristretta di partecipe, secondo la quale per far parte dell’associazione non è sufficiente che il soggetto lo voglia unilateralmente e metta a disposizione il suo contributo per la stessa. Ciò, infatti, basterebbe solo a configurare un concorso eventuale di persone nel reato, mentre per essere un partecipe a tutti gli effetti occorre che il soggetto entri effettivamente a far parte dell’associazione la quale lo abbia accettato come membro[38].

La differenza sostanziale esistente, quindi, tra il concorrente esterno ed il partecipe, risiede nel fatto che la condotta di chi pone in essere la fattispecie concorsuale accessoria, non realizza per l’appunto la condotta della fattispecie tipica, ma apporta occasionalmente un contributo, che facilita la realizzazione della fattispecie tipica da parte degli autori di tale condotta ovvero i partecipi. Solo questi ultimi pongono in essere la condotta integrante la fattispecie tipica associativa, caratterizzata dall’essere inseriti nell’organizzazione e dalla reiterazione e la stabilità dell’apporto arrecato dal singolo in favore dell’associazione[39].

Una più netta differenziazione tra il dolo del partecipe e quella del concorrente esterno la si può rinvenire in una recente pronuncia della Suprema Corte, nella quale si legge che «la particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica, sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell’evento lesivo del medesimo reato»[40]. Secondo la Cassazione, quindi, il concorrente esterno, pur sprovvisto dell’affectio societatis, deve essere consapevole dei metodi e dei fini dell’associazione a delinquere e dell’efficacia causale della sua attività di sostegno alla stessa. Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto nelle pronunce in precedenza esaminate, non occorre anche che il concorrente esterno condivida il programma criminoso dell’associazione, ben potendo, decidere consapevolmente di sostenerla pur essendo avverso o indifferente rispetto ai metodi ed agli obiettivi dell’associazione stessa. E’ evidente come una siffatta ricostruzione consenta di sganciare totalmente l’atteggiamento psicologico richiesto al concorrente esterno da quello del partecipe, evitando così una possibile sovrapposizione delle due figure.

 

  1. 3.               Il concorso esterno nell’ipotesi del patto politico-mafioso

Chiarita la natura e l’evoluzione del concorso esterno in associazione mafiosa, occorre soffermarsi sulla portata della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria oggetto di commento[41]. Bisogna, innanzitutto, ricostruire la vicenda giudiziaria dalla quale è scaturita la pronuncia oggetto di analisi. In particolare, dal capo d’imputazione si legge che l’imputato era accusato del delitto di cui agli artt. 110 – 416 bis del c.p., per avere sostenuto e agevolato le complesse e molteplici attività e gli scopi criminali propri di un’associazione per delinquere di stampo mafioso, contribuendo alle stesse, offrendo e consegnando denaro, richiedendo e ottenendo da esponenti di numerose cosche consensi elettorali in favore proprio e di terzi, costringendo altri esponenti politici a dimettersi dalla carica e, infine, promettendo assistenza giudiziaria ad appartenenti di associazioni mafiose, appoggiandone la candidatura e ostacolando l’evolversi della normativa sui collaboratori di giustizia durante il suo mandato. Ciò che viene imputato, quindi, è un concorso esterno in associazione mafiosa realizzato tramite un patto politico-mafioso tra le parti.

Ebbene, sul punto la Corte d’Appello di Reggio Calabria, a fronte di una condanna in primo grado dell’imputato, lo assolveva, ritenendo che la sua condotta non potesse rientrare nel concorso esterno in associazione mafiosa in quanto non idonea a dare un effettivo contributo causale al rafforzamento dell’associazione stessa. Alle medesime conclusioni perveniva poi la Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria, secondo la quale, nonostante vi fosse la prova di un patto politico-mafioso tra l’imputato e le varie cosche, non vi era prova che da tale patto fosse effettivamente scaturito un rafforzamento dell’associazione stessa. A seguito di ricorso del Procuratore Generale, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 24 maggio 2011, annullava con rinvio la sentenza impugnata della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria per carenze logico-motivazionali e demandava ai giudici del rinvio il compito di stabilire se il patto stipulato dall’imputato con le cosche che operavano nella provincia di Reggio Calabria, avesse rafforzato le cosche stesse e se le vicende occorse potessero costituire indizi gravi, precisi e concordanti della serietà e concretezza degli impegni assunti dall’imputato nei confronti del sodalizio criminale per ottenere la sua elezione.

Ebbene, i Giudici della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria, uniformandosi a quanto disposto nella sentenza di rinvio dalla Suprema Corte, hanno analizzato l’intera vicenda al fine di verificare se nel caso di specie potesse effettivamente configurarsi una fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa a mezzo di un patto politico-mafioso.

La Corte, innanzitutto, ha voluto chiarire che, in applicazione dei richiamati principi giurisprudenziali consolidati, nel caso di specie l’imputato non poteva essere ritenuto responsabile di partecipazione nell’associazione mafiosa, in quanto non risultava essere un affiliato delle cosche; egli, invece, era un soggetto esterno che con la propria condotta poteva rafforzare l’associazione mafiosa, apportando un contributo volontario e causale alla stessa, quindi, a suo carico poteva configurarsi solo un concorso esterno nel reato ex art. 416 bis c.p. Infatti, nel caso di specie, avuto riguardo alle risultanze probatorie, secondo il Giudice non v’era dubbio che l’imputato avesse stipulato con le cosche un vero e proprio patto – definito dai giudici di primo e di secondo grado, una sorta di “patto con il diavolo” – per ottenere l’appoggio delle cosche alla sua elezione[42]. Ebbene, in tali ipotesi, secondo la costante giurisprudenza è possibile configurare un concorso esterno laddove si verifichi che l’extraneus abbia non solo stretto un patto, ma abbia dato tramite questo il proprio contributo causale, rafforzando l’associazione mafiosa.

La Suprema Corte, in particolare, ha chiarito che «il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche nell’ipotesi del patto di scambio politico-mafioso, in forza del quale un uomo politico, non partecipe del sodalizio criminale si impegna, a fronte dell’appoggio richiesto all’associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, a favorire gli interessi dei gruppo»[43]. Tale patto deve, quindi, tradursi in un impegno serio e concreto da parte dell’uomo politico verso l’associazione mafiosa in ragione della affidabilità e della caratura dei protagonisti dell’accordo, dei caratteri strutturali del sodalizio criminoso del contesto storico di riferimento e della specificità dei contenuti.

È inoltre necessario che risulti accertato, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali[44]. Ebbene, dottrina e giurisprudenza si sono divise circa la possibilità di rinvenire tale contributo causale nella semplice stipula dell’accordo tra le parti o, viceversa nel compimento di singoli atti esecutivi dell’accordo che risultino utili per l’associazione.

Sul punto, un orientamento giurisprudenziale e dottrinario non riteneva possibile dare rilievo al mero accordo, esaltando il compimento di atti esecutivi, sul rilievo che diversamente si arriverebbe ad un’anticipazione di tutela tale da punire il concorrente esterno per dei meri atti preparatori, in deroga all’art. 115 c.p.c., con un evidente vulnus al principio di offensività che, invece, richiede la punibilità solo dei comportamenti attuativi concreti tenuti dal concorrente stesso e lesivi di beni giuridici tutelati[45]. A tale orientamento sembrano uniformarsi anche i giudizi del primo e del secondo grado nella vicenda in esame, i quali, dopo aver accertato che l’imputato aveva stipulato un accordo con gli esponenti delle cosche per ottenere un appoggio di dette cosche alla sua elezione, si sono impegnati nella verifica di specifici comportamenti addebitati all’imputato ed hanno concluso che nessuno di essi aveva apportato un significativo rafforzamento delle capacità operative della cosca e che l’istruttoria svolta non aveva consentito di accertare in quali modi si era impegnato nei confronti del sodalizio criminoso.

Tuttavia, altra parte della giurisprudenza di legittimità è orientata a dare rilievo alla semplice promessa, ritenendo che nel concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso la condotta tipica si esaurisce con il compimento delle attività concordate, anche quando queste consistano nella semplice promessa di favori connessi alla carica o all’ufficio rivestiti dal concorrente ed alla contiguità, percepibile all’esterno, di costui con l’associazione mafiosa[46]. Questa parte della giurisprudenza, che costituisce l’orientamento prevalente, quindi, fa propria una prospettiva marcatamente contrattualistica, ritenendo che il reato de quo si configuri con la semplice stipula del patto politico-mafioso che è vincolante fra le parti, a prescindere da qualsiasi adempimento e non essendo necessaria alcuna verifica circa il rispetto da parte del politico degli impegni assunti ove vi sia prova della conclusione di tale accordo[47].

Seguendo tale impostazione, nel caso di specie, si potrebbe affermare che i giudici del primo e del secondo grado, assolvendo l’imputato sul presupposto di non riuscire a ricostruire il contenuto del patto politico-mafioso e ad individuare con esattezza le specifiche e concrete condotte dallo stesso tenute in esecuzione del patto medesimo, hanno trascurato il fatto che la sola stipulazione dell’accordo, se caratterizzata da serietà e concretezza, era in grado di incidere positivamente sul rafforzamento delle capacità operative della cosca mafiosa, ponendola in una posizione di prestigio e facendola divenire un punto di riferimento per le altre cosche e di coordinamento delle strategie attuate dalle stesse.

Pertanto, può ritenersi coerente il ragionamento operato nella sentenza in commento laddove evidenzia che se, da un lato, l’imputato ha tratto vantaggio dal proprio accordo con le cosche mafiose rappresentato dalla collaborazione per la sua elezione, (atteso anche che «la sola richiesta di voti rivolta ad affiliati ed agli appartenenti alla vasta zona grigia della contiguità comportava che il candidato indicato era stato prescelto come funzionale agli interessi della consorteria criminale e, dall’altro, la richiesta rivolta a persone che abitavano nella zona di influenza della cosca era naturalmente colorata dalla forza di intimidazione tipica del sodalizio»[48]), dall’altro lato, sembrerebbe difficile negare anche il vantaggio e contributo che le cosche hanno tratto dalle condotte perpetrate dall’imputato stesso, scelto proprio perché ritenuto in grado di rafforzare l’associazione attraverso il suo potere politico. Ecco, dunque, manifestarsi la corrispettività degli elementi costitutivi dell’accordo e l’ausilio che l’uomo politico ha offerto all’associazione, consolidandola e rafforzandola.

Di talché, in esito agli elementi di fatto esaminati e alle considerazioni in punto di diritto esposte, la Corte ha ritenuto provate l’esistenza del patto politico-mafioso, e, quindi la responsabilità penale dell’imputato sull’assunto che «accedere ad un rapporto sinallagmatico che contempla la promessa di voti in cambio della disponibilità a futuri favori, nei confronti di cosche mafiose, integra per il politico che ne sia parte la fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, ove si consideri la volontarietà e consapevolezza dell’accordo e dei suoi effetti, perché è lo stesso accordo che di per sé avvicina l’associazione mafiosa alla politica, facendola in qualche misura arbitro anche delle sue vicende elettorali, e rendendola altresì consapevole della possibilità di influenzare perfino l’esercizio della sovranità popolare, e cioè del suo potere»[49].

 

  1. 4.                I rapporti tra il concorso esterno e il reato di scambio politico elettorale

Occorre altresì rilevare come la Corte d’assise d’Appello di Reggio nella sentenza in oggetto abbia ritenuto integrata la fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa e non quella diversa di scambio politico elettorale di cui all’art. 416 ter c.p.[50]. Quest’ultima norma sanziona lo scambio elettorale politico-mafioso, che si concretava, nella formulazione previgente, in una dazione di denaro all’associazione mafiosa in cambio di voti e propaganda elettorale.

La giurisprudenza dominante e parte della dottrina hanno osservato che tale norma è volta ad estendere la punibilità delle condotte oltre il concorso esterno, e cioè anche nei casi in cui il patto preso in considerazione, non risolvendosi in contributo al mantenimento o rafforzamento dell’organizzazione, resterebbe irrilevante quanto al combinato disposto degli artt. 416 bis e 110 c.p.[51]. Il soggetto politico, infatti, in tali casi agisce assecondando il proprio interesse e, pertanto, non potrebbe mai considerarsi né partecipe né concorrente dell’associazione mafiosa, alla quale non apporta alcun vantaggio, se non, sempre nella formulazione previgente, la dazione di denaro[52]. Pertanto, ai fini della configurabilità del reato di scambio elettorale politico-mafioso di cui all’art. 416 ter c.p. è sufficiente un accordo elettorale tra l’uomo politico e l’associazione mafiosa, avente per oggetto la promessa di voti in cambio del versamento di denaro, mentre non è richiesta la conclusione di ulteriori patti che impegnino l’uomo politico ad operare in favore dell’associazione in caso di vittoria elettorale. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui tali ulteriori patti vengano conclusi, occorre accertare se la condotta assuma i caratteri della partecipazione ovvero del concorso esterno all’associazione medesima[53].

Altra parte della dottrina, tuttavia, non concorda con tale impostazione e ritiene che in tal modo si finirebbe per aggirare dei precisi confini entro i quali lo stesso legislatore ha considerato penalmente rilevante un accordo elettorale politico-mafioso con conseguente palese violazione del principio di stretta legalità[54]. L’art. 416 ter c.p., infatti, sarebbe volto a punire ogni forma di accordo in cui il politico contraccambia la promessa di voto assicurata dal gruppo criminale attraverso un comportamento concreto ed effettivo qual è l’elargizione di denaro ad un soggetto aderente a consorteria di tipo mafioso al fine di ottenere appoggio elettorale tramite l’utilizzo da parte dell’affiliato della forza di intimidazione mafiosa, con le modalità precisate nel comma 3 dell’art. 416 bis c.p., cui l’art. 416 ter fa esplicito richiamo[55]. Conseguentemente deve ritenersi che, in base alla formulazione previgente della norma, esulava dall’area del penalmente rilevante un semplice patto di scambio elettorale politico mafioso che prescindeva dalla dazione di denaro come contropartita al sostegno elettorale[56].

Ciò lasciava un evidente vuoto di tutela in tutte quelle diverse ipotesi nelle quali si realizzava un patto tra il politico e l’associazione mafiosa, che, pur non avendo ad oggetto somme di denaro, prevedeva comunque una condotta causalmente orientata a contribuire alla vita dell’associazione in cambio di voti elettorali. Tale condotta, come già rilevato, poteva anche non concretarsi in comportamenti esecutivi, quali la dazione di denaro, in quanto il semplice accordo poteva essere idoneo ad apportare un vantaggio sia all’associazione che al politico[57].

È evidente, tra l’altro, che, come già evidenziato, la Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria nella sentenza in commento abbia fatto proprie tali risultanze, considerando configurabile il concorso esterno nel reato di associazione mafiosa anche nell’ipotesi del patto politico-mafioso, in forza del quale un uomo politico, non partecipe al sodalizio criminale, si impegna, in modo serio e concreto, a favorire gli interessi del gruppo, a fronte dell’appoggio richiesto all’associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, senza bisogno che vi sia un’elargizione di denaro o altri concreti comportamenti attuativi del patto stipulato.

 

  1. 5.               Segue. La recente riforma dell’art. 416 ter c.p.

Le questioni ora richiamate sono state affrontate nella recente legge n. 62 del 17 aprile 2014, con la quale il legislatore ha modificato l’art. 416 ter c.p.[58]. La novella legislativa ha inciso su molteplici aspetti del reato di scambio elettorale politico-mafioso, introducendo diversi elementi innovativi volti a migliorare l’efficacia repressiva della norma incriminatrice in questione.

Innanzitutto, relativamente alla condotta punibile, si evidenzia come la nuova norma individui quale oggetto di sanzione penale anche la semplice promessa di denaro a prescindere dell’effettiva dazione, ciò in armonia con i richiamati orientamenti giurisprudenziali e dottrinali secondo i quali basta il semplice accordo tra il politico ed il mafioso al fine di integrare la fattispecie de quo, senza bisogno che si concretizzi poi un’effettiva dazione, trattandosi di reato di pericolo. Si è deciso, quindi, di anticipare la soglia di punibilità alla fase di formazione dell’accordo sinallagmatico tra politico e mafioso, al fine di tentare di rendere più efficace la fattispecie in esame, atteso che anche la semplice promessa potrebbe portare vantaggi tanto al politico quanto all’associazione.

Sempre nella stessa ottica è stato modificato anche il secondo comma dell’art. 416 ter c.p., il quale sanziona non più il solo concreto procacciamento di voti, ma anche la semplice promessa di procacciamento[59].

Ulteriore elemento di novità è l’espresso riferimento alla dazione non solo di denaro, ma anche di altre utilità. Ciò non è di poco conto in quanto consente di ampliare l’ambito di applicazione della norma incriminatrice, colmando i vuoti di tutela lasciati dal solo riferimento ad un scambio di denaro, così come auspicato dalla dottrina e giurisprudenza già richiamate, le quali ritengono che non sia necessaria una concreta dazione di denaro ai fini dell’applicabilità della norma in esame, ma sia sufficiente la promessa di denaro o altre utilità[60]. Ebbene, è facile comprendere come il riferimento esplicito contenuto nella nuova norma consente di superare i prospettati contrasti con il principio di legalità e tassatività in materia penale, in quanto è ormai lo stesso testo
normativo a consentire espressamente un’applicazione della fattispecie incriminatrice oltre la semplice dazione di denaro.

Ci si è chiesti, tra l’altro, se la locuzione “altre utilità” possa comprendere anche la generica disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione. Una risposta negativa a tale quesito si rinviene nei lavori preparatori, poiché, nonostante il testo approvato dal Senato in seconda lettura, in data 28 gennaio 2014, avesse espressamente attribuito rilievo, oltre che a qualunque utilità, anche alla “disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione”, tale espressione è stata poi eliminata nel successivo iter dei lavori parlamentari e non compare nella nuova legge, forse in virtù delle sopra prospettate esigenze di tassatività e determinatezza, che verrebbero lese dall’utilizzo di un concetto troppo ampio e generico e del pericolo di un’eccessiva dilatazione dei fatti perseguibili con le relative notevoli difficoltà in sede probatoria[61].

Il nuovo testo dell’art. 416 ter c.p., inoltre, individua una fattispecie plurisoggettiva necessaria propria, poiché al secondo comma prevede la punibilità anche di chi promette di procurare voti[62].

È rimasto inalterato, poi, il riferimento all’utilizzo da parte del soggetto agente del c.d. metodo mafioso dal quale, invece, i lavori preparatori sembravano voler prescindere. Infatti, nella Relazione alla proposta di legge C-204, si era cercato di eliminare ogni riferimento all’utilizzo del metodo mafioso, poiché, avuto riguardo alla struttura della fattispecie incriminatrice, che si caratterizza per essere un reato di pericolo a consumazione anticipata, la prova dell’utilizzo di un tale metodo si appalesava alquanto ardua[63]. Si voleva, quindi, punire la condotta delittuosa, prescindendo dalle modalità attraverso le quali il soggetto agente si impegna a procurare i voti oggetto dell’accordo. Tuttavia, già il testo approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 16 luglio 2013, sanzionava l’accettazione del «procacciamento di voti con le modalità previste dal terzo comma dell’art. 416-bis c.p.». Tale previsione poi non è stata più modificata in occasione dei successivi passaggi parlamentari ed è stata approvata nella nuova legge nell’intento di punire quello specifico accordo tra il candidato e l’organizzazione mafiosa avente ad oggetto l’impegno di questa ad attivarsi nei confronti del corpo elettorale con le modalità intimidatorie tipicamente connesse all’ordinaria operatività della cosca.

Sotto il profilo della colpevolezza, il testo dell’art. 416 ter c.p., come definitivamente approvato, non contiene specifiche disposizioni; pertanto, essendo un delitto, sarà certamente punibile se vi è il dolo del soggetto agente ai sensi degli artt. 42 e 43 c.p. Ciò trova conferma anche nei lavori preparatori ed in particolare nell’analisi del testo inizialmente approvato dalla Camera dei Deputati il 16 luglio 2013, il quale prevedeva che l’accordo tra le due  parti del patto politico mafioso per il procacciamento di voti fosse fondato sulla consapevolezza – indicata dall’avverbio “consapevolmente” – dell’accettazione. Tuttavia, tale previsione non è stata poi reiterata nei successivi passaggi parlamentari, poiché, trattandosi di un reato doloso, è stata considerata superflua e problematica sul piano interpretativo e probatorio.

L’ultima rilevante novità della riforma sta nella rimodulazione della pena. In particolare, nel corso dei lavori preparatori si riteneva di dover prevedere una pena minore rispetto a quella di cui all’art. 416 bis c.p. atteso che mentre «il concorso esterno in associazione mafiosa è connotato dal mantenimento o rafforzamento dell’associazione mafiosa», diversamente «l’anticipazione della tutela propria dell’art. 416 ter c.p. sconsiglia di punire in modo analogo condotte con un potenziale offensivo diverso e rende opportuno prevedere una riduzione rispetto ad oggi per lo scambio elettorale politico-mafioso»[64]. Tuttavia, il successivo testo della legge approvato in senato il 28 gennaio 2014 ripristinava la pena originaria da 7 a 12 anni, cioè pari a quella prevista dall’art. 416 bis c.p., ciò in virtù del forte disvalore penale individuato nella condotta di inquinamento della competizione elettorale mediante gli accordi con le associazioni mafiose. Il testo di legge approvato, però, rifacendosi alle considerazioni originarie emerse nei lavori parlamentari prevede una cornice edittale da quattro a dieci anni di reclusione in luogo di quella da sette a dodici anni, proprio in ragione del diverso disvalore dei fatti di reato puniti nella norma in esame rispetto a quelli di cui all’art. 416 bis c.p., il quale è volto a punire una condotta dotata di una carica lesiva maggiore rispetto al mero patto politico-mafioso, in ossequio ai principi di proporzionalità ed adeguatezza della pena[65].

Sotto il profilo sistematico merita, inoltre, un cenno il rapporto tra il nuovo art. 416 ter c.p. e gli artt. 110 e 416 bis c.p. Ciò in quanto può accadere che la condotta dell’esponente politico si articoli anche in attività successive al mero scambio politico mafioso volte al sostegno degli interessi del sodalizio criminale. Sul punto la giurisprudenza consolidata formatasi in relazione alla previgente fattispecie prevista dall’art. 416 ter  c.p., ha ritenuto configurabili, cumulativamente e in concorso tra loro, sia il reato di “scambio elettorale politico-mafioso”, sia il reato di partecipazione o di concorso esterno all’associazione di tipo mafioso allorché oltre al mero accordo elettorale siano conclusi ulteriori patti, che impegnino l’uomo politico ad operare in favore della cosca in caso di vittoria elettorale[66].

In conclusione, si può osservare che la nuova fattispecie di reato di cui all’art. 416 ter c.p. presenta diversi rilievi positivi, ai quali, tuttavia, si affiancano anche alcune criticità[67]. Quest’ultime si ravvisano, innanzitutto, nell’equiparazione sotto il profilo sanzionatorio tra la mera promessa e la concreta erogazione di denaro o altra utilità, laddove, invece, il diverso disvalore delle condotte potrebbe richiedere una pena diversa.

Inoltre, anche in riferimento alla nozione di “altre utilità” questa appare vaga e suscettibile di ricomprendere anche valori di natura non patrimoniale, con il rischio di un’estensione eccessiva della rilevanza penale.

Un ulteriore aspetto problematico, poi, si rinviene nel secondo comma dell’articolo 416 ter c.p., il quale prevede l’applicazione della pena di cui al primo comma anche per chi «promette di procurare voti con le modalità di cui al primo comma». Ebbene, non può trascurarsi che il promittente verosimilmente sarà un membro dell’associazione mafiosa e come tale già perseguibile ai sensi dell’art. 416 bis c.p. Ciò pone dei problemi di coordinamento tra le due norme in esame, atteso che «il ricorso al metodo mafioso di procacciamento del voto è connaturale all’adesione all’associazione ed è difficilmente immaginabile che possa essere attuato da soggetto totalmente estraneo ad essa», potendosi al più configurare, come già evidenziato, un concorso tra le due norme in esame[68].

 

  1. 6.               Osservazioni conclusive: analisi e criticità della c.d. Legge Lazzati

Secondo le considerazioni sinora espresse appare evidente che le norme antimafia siano frutto prevalentemente di una legislazione di tipo emergenziale, volta a reprimere un fenomeno sempre più preoccupante e diffuso qual è l’associazione di stampo mafioso. Ebbene, proprio questa ‘legislazione dell’emergenza’ ha condotto alla formulazione di fattispecie incriminatrici che, come evidenziato, risultano spesso in contrasto con i principi costituzionali sottesi al diritto penale. Il concorso esterno, infatti, così come creato dalla giurisprudenza, come si è avuto modo di evidenziare, non è svincolato da questa tensione con i principi costituzionali di legalità, offensività e determinatezza. Pertanto, alcuni dei numerosi progetti di riforma che si sono avvicendati nel corso di questi anni, hanno mirato proprio a rendere la fattispecie di concorso esterno maggiormente conforme a tali principi fondamentali e contestualmente ad aumentarne l’efficacia repressiva, tentando di sopperire ad alcune esigenze di tutela avvertite nel nostro sistema.

In questo contesto si colloca l’approvazione della Legge n. 175/2010 denominata Legge Lazzati[69], volta ad impedire lo svolgimento di propaganda elettorale a chi è sottoposto a misure di prevenzione, proprio al fine di evitare che sorgano intese politico-mafiose sin dalla fase della campagna elettorale, anticipando così la tutela penale. L’intento perseguito dal legislatore tramite l’approvazione di tale legge, infatti, è stato proprio quello di contenere e limitare l’incidenza delle pressioni mafiose sulla libertà di voto, atteso che il condizionamento del voto e della competizione elettorale a favore di un partito politico il più delle volte rappresenta solo l’inizio di un più ampio accordo tra politica e mafia[70]. In particolare, l’attuale testo della Legge si compone di due articoli, dei quali il primo modifica il testo dell’art. 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso anche straniere) introducendovi due nuovi commi, il 5 bis 1 ed il 5 bis 2[71]. La particolarità di tale testo di legge consiste nell’aver previsto non solo la punizione per i soggetti sottoposti a sorveglianza speciale che svolgano propaganda elettorale, ma anche per lo stesso candidato che, consapevole dell’esistenza di una misura di prevenzione, si avvalga della collaborazione del soggetto sottoposto a tale misura[72].

Attualmente, il testo della legge Lazzati è confluito nel c.d. Codice antimafia, ossia nel D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Quest’ultimo, infatti, all’art. 67, co. 7, disciplina proprio il divieto di propaganda elettorale, riproducendo sostanzialmente il dettato del comma 5 bis – 1 della Legge Lazzati. Ebbene, questa legge, pur rappresentando un’innovazione nell’ambito della lotta alla mafia, è stata censurata sotto diversi profili, non solo negli ambienti politici[73], ma anche nei primi commenti apparsi nella letteratura penalistica[74]. In particolare, è stato osservato che le modifiche apportate all’originario disegno di legge in sede di conversione e approvazione, abbiano eliminato tutta la sua efficacia repressiva e deterrente. Si è ritenuto, infatti, che oggetto di approvazione sarebbe dovuto essere il testo originario, ora riproposto dal Centro Studi “Giuseppe Lazzati”, il quale risultava meglio armonizzato con le altre disposizioni in materia e maggiormente chiaro ed armonico[75].

Sono state evidenziate diverse criticità che renderebbero l’originario testo preferibile a quello attualmente vigente. In particolare, il disegno primigenio conteneva tre articoli, il primo dei quali è quello su cui si è maggiormente soffermata l’attenzione del dibattito[76]. Si è osservato che, mentre l’originario testo puniva l’esercizio da parte del sorvegliato speciale di qualsiasi forma di propaganda elettorale diretta ed indiretta, il testo della legge entrata in vigore pone invece un limite alle condotte vietate, facendo esclusivo riferimento alla legge n. 212/1956[77].

È stato evidenziato, per altro verso, che la norma introdotta sia carente sul piano della determinatezza, attesa la difficile distiguibilità del reato in esame rispetto alle altre fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 416 bis e 416 ter c.p., che delineano condotte spesso molto attigue alla propaganda elettorale sanzionata dalla L. 175/2010[78].

È stato osservato, ancora, che contrariamente all’originario disegno di legge, del quale questi critici auspicano l’introduzione, l’attuale art. 67 del Codice antimafia introduce un arco temporale preciso entro il quale può commettersi il reato, che va dalla formalizzazione della candidatura alla chiusura delle operazioni di voto, rendendo così la norma facilmente eludibile. Ciò perché le attività di propaganda elettorale possono avere inizio ben prima dell’ufficializzazione delle liste e delle candidature, in modo che un tale limite temporale consentirebbe comunque ai sorvegliati speciali di svolgere la loro attività di propaganda e di condizionamento del voto, ben prima della formalizzazione della candidature, evitando così di essere penalmente perseguibili[79].

Inoltre, il divieto di propaganda elettorale posto dalla L. n. 175/2010 per i sorvegliati speciali, afferisce solo ai casi in cui tale propaganda si rivolga a favore di singoli candidati e non anche delle formazioni politiche, consentendo ai sorvegliati speciali, comunque, di effettuare attività di propaganda nei confronti di liste e partiti[80].

Alcuni Autori hanno pure sottolineato come la struttura del divieto di propaganda elettorale e le limitazioni allo stesso connesse, circoscrivano notevolmente la condotta punibile, anche atteso che la misura di prevenzione deve essere stata comminata con un provvedimento definitivo, requisito non richiesto, invece, per l’applicazione di altre restrizioni connesse sempre alla misura di prevenzione, cosicché la fattispecie di reato delineata dalla legge Lazzati parrebbe «marginale e di difficile applicazione»[81].

Infine, relativamente al comma 5 bis – 2 della legge Lazzati, si è detto che questo, introducendo la punibilità del candidato solo allorché egli abbia diretta conoscenza del fatto che il soggetto di cui si avvale sia sottoposto a sorveglianza speciale, impone un accertamento molto rigoroso sotto il profilo dell’elemento soggettivo, rendendo quasi impossibile pervenire alla prova dello stesso e, quindi, ad una concreta applicabilità della norma. Tali difficoltà probatorie sarebbero ancor più aggravate dall’ulteriore previsione, contenuta nello stesso comma ed ora trasposta nell’art. 76 co. 8 del Codice antimafia, secondo la quale il candidato debba avvalersi concretamente dell’aiuto del sorvegliato speciale nelle attività di propaganda, non essendo sufficiente la mera promessa di un appoggio, circostanza che renderebbe ardua una concreta applicazione della norma[82]. Al contrario, l’originario disegno di legge non prevedeva nulla circa la consapevolezza del candidato sulla condizione del prevenuto mafioso, rendendo così più semplice a livello probatorio individuare e punire eventuali [supposti] patti politico-mafiosi[83].

Ebbene, tale nuova proposta di legge indirizzata, come già detto, a reintrodurre l’originario disegno di legge Lazzati, abrogando quello attualmente vigente, nonostante la meritevolezza dello scopo perseguito volto al contrasto della collusione tra mafia e politica nell’ambito particolare dello scambio elettorale, si presta, tuttavia, a diverse obiezioni, soprattutto sotto il profilo dei principi fondamentali. Infatti, se, da un lato, l’obiettivo della maggiore efficacia repressiva potrebbe in qualche misura essere raggiunto, dall’altro lato, potrebbe essere compromessa ulteriormente l’armonizzazione della disciplina antimafia con i principi costituzionali.

Innanzitutto, non può non evidenziarsi il contrasto sussistente tra l’art. 1 del progetto di legge Lazzati ed i principi di tassatività e determinatezza, atteso che le norme che lo compongono appaiono caratterizzate da una forte incertezza e vaghezza, che rende complessa l’individuazione non solo dei destinatari della sanzione penale e della condotta punibile, ma anche del bene giuridico tutelato. L’individuazione di quest’ultimo è irrinunciabile, anche avuto riguardo alla nota teoria costituzionalmente orientata del bene giuridico[84], per la quale l’illiceità penale di un fatto dovrebbe dipendere dalla rilevanza costituzionale del bene giuridico leso, cioè dall’assunzione dello stesso tra i valori costituzionalmente rilevanti, esplicitamente o implicitamente garantiti dalla Costituzione o tra i beni «costituzionalmente non incompatibili»[85]. Un’interpretazione costituzionalmente orientata della fattispecie penale, quindi, impone di ritenere che il ricorso alla sanzione penale, quale extrema ratio del nostro ordinamento, si giustifichi solo in virtù dell’effettiva lesione di un bene giuridico costituzionalmente tutelato, l’individuazione del quale, quindi, risulta di importanza essenziale, così come la definizione dell’offesa che tale bene deve subire per giustificare il ricorso allo strumento penalistico. Nella categoria dei reati associativi, è noto che i beni giuridici tutelati sono rappresentati da entità vaghe ed incerte quali l’ordine o la sicurezza pubblica, la cui lesione risulta difficilmente verificabile e distinguibile dalla mera messa in pericolo[86]. Pertanto, proprio per ovviare a tale ricostruzione, che esaurirebbe i reati associativi nella mera minaccia ad entità generiche, la dottrina ha ritenuto che i beni giuridici tutelati da tali fattispecie di reato dovrebbero essere quelli delle potenziali vittime delle condotte delittuose e non l’ordine o la sicurezza sociale[87]. Con specifico riferimento alla Legge Lazzati, quindi, i beni tutelati dovrebbero individuarsi nella corretta e disciplinata competizione elettorale e nel regolare e libero esercizio del diritto all’elettorato attivo e passivo. Questi possono certamente annoverarsi tra i beni giuridici di rilevanza costituzionale, atteso che il condizionamento del voto non rappresenta solo un indice del legame tra mafia e politica, ma ancor più gravemente costituisce una lesione del principio costituzionale di libertà del voto di cui all’art. 48 Cost., il quale impone che i cittadini siano garantiti da pressioni o condizionamenti che potrebbero limitare tale diritto[88].

Ulteriore criticità del progetto di legge Lazzati, poi, si può ravvisare nell’eccessiva anticipazione della soglia di punibilità . Se è vero, infatti, che spesso gli accordi politico-mafiosi insorgono proprio nella fase della campagna elettorale, è altrettanto vero che, strutturando in tal senso una fattispecie di reato, si potrebbe finire per punire la mera divulgazione delle proprie idee politiche, ledendo un diritto fondamentale dei cittadini. Infatti, laddove si ritenga che i beni giuridici tutelati dalla norma siano proprio la libera competizione elettorale e il corretto esercizio del diritto di elettorato passivo, non può non evidenziarsi che tali beni difficilmente possano essere lesi dalla semplice attività di propaganda politica, la quale di per sé è priva di tale attitudine lesiva. Ciò evidenzia non solo il contrasto con il principio di determinatezza, ma anche il vulnus ai principio di offensività[89], di extrema ratio e di sussidiarietà[90]. Un diritto penale razionale, invece, dovrebbe essere fondato sull’uso della pena solo se necessaria, e, quindi, sui principi di extrema ratio e frammentarietà, e dovrebbe tenere in considerazione che l’esistenza del reato e l’applicazione della sanzione penale hanno senso solo se mirati a tutelare interessi particolarmente rilevanti[91]. Al contrario, il progetto di legge Lazzati, oltre a prevedere una fattispecie penale a fronte di una condotta che di per sé potrebbe non essere effettivamente e concretamente lesiva di un bene giuridico tutelato, individua pure quale unica sanzione applicabile per colui che trasgredisce il divieto di propaganda elettorale, la sanzione della reclusione da uno a sei anni, trascurando completamente la possibilità di ricorrere a sanzioni alternative alla pena detentiva, di natura interdittiva o riparatoria, non incidenti sulla libertà personale. Ciò tanto più che non è ben chiaro cosa debba intendersi per propaganda elettorale o meglio questa viene inserita in un ambito molto ampio, che rischierebbe di investire ogni mera manifestazione del pensiero politico da parte del sorvegliato speciale, finendo così per poter punire una condotta priva di effettivo disvalore penale. Il rischio, quindi, resta sempre quello che, nell’incerta formulazione del precetto penale, si sanzionino condotte prive di disvalore ed anzi relative a diritti costituzionalmente tutelati quale la libera espressione del pensiero.

Tali considerazioni appaiono ancor più rilevanti laddove ci si ponga dalla parte del candidato in quanto la sua punibilità, nel disegno di legge, non risulta legata ad alcun altro parametro normativo se non alla semplice richiesta o sollecitazione rivolta al sottoposto a sorveglianza speciale. L’art. 2 del progetto di legge in esame, infatti, al contrario dell’attuale testo in vigore confluito nel Codice Antimafia, non fa neppure riferimento ad una qualche consapevolezza del candidato circa la qualità di sorvegliato speciale di colui che svolge la propaganda elettorale[92]. Si ravvisa, quindi, non solo un’ulteriore lesione del principio di determinatezza, laddove si faccia riferimento al concetto di sollecitazione i cui confini non sono affatto definiti dalla norma in esame, ma anche una lesione dei principi di offensività ed extrema ratio allorché la fattispecie in progetto non impone neppure di appurare sotto il profilo dell’elemento soggettivo l’eventuale consapevolezza del candidato circa la provenienza mafiosa del soggetto al quale si rivolge. Si vorrebbe così estendere eccessivamente l’area delle condotte penalmente rilevanti, anticipando la punibilità a condotte prive di effettivo disvalore penale.

Inoltre, non può non rilevarsi come la proposta di legge in esame risulti particolarmente rispondente ad esigenze di marketing politico, piuttosto che ai principi di una legittima politica criminale ispirata ai valori costituzionali. Infatti, come in passato la legislazione in materia di criminalità organizzata è nata sotto la spinta di un’emergenza sociale legata alla capillare diffusione del fenomeno mafioso, anche alcune delle attuali proposte di riforme sembrano fortemente influenzate dall’esigenza repressiva, che nasce all’interno della società e che viene amplificata e strumentalizzata dai mezzi di comunicazione di massa[93].

In particolare, il diritto penale, più di ogni altro settore del diritto, appare sempre più influenzato dai mass media e dalla diffusione mediatica dei fenomeni criminosi. Tale influenza si esplica sia a livello legislativo nella selezione delle condotte da reprimere e, quindi, nei conseguenti progetti di riforma, sia a livello giurisdizionale dove spesso le decisioni giudiziarie rischiano di subire la pressione ed il condizionamento mediatico. Ebbene, esempio di tale fenomeno può essere la proposta di legge Lazzati, la quale per molti versi – più che ispirata alle esigenze di una legittima politica criminale costituzionalmente orientata –, risulta essere il prodotto di forti pressioni mediatiche e, conseguentemente, politiche, rivolte a far fronte alle spinte proveniente da un’opinione pubblica strumentalizzata e ad attrarre consenso elettorale. Tale proposta, infatti, sembra rientrare in quell’idea di democrazia diretta, oggi enfatizzata dalla diffusione di potenzi mezzi di comunicazione di massa, primo fra tutti internet, secondo la quale «il miglior governante, amministratore o giudice sarebbe l’opinione pubblica»[94]. Alcune nuove organizzazioni politiche, infatti, fondano la loro filosofia sull’utilizzo di internet quale strumento volto a consentire ai cittadini di prendere parte in prima persona alle decisioni senza intermediari.

Tuttavia, non deve trascurarsi che, soprattutto in materia penale, le nuove tecnologie non possono sostituire, ma solo affiancare i tradizionali mezzi di democrazia. Ciò in quanto i principi fondamentali del diritto penale, primo fra tutti quello di legalità ed extrema ratio, impongono un’attenta ponderazione delle scelte di politica criminale ed il ricorso alla sanzione penale solo laddove ciò si riveli strettamente necessario e non per soddisfare tutte le spinte provenienti dalla società, veicolate tramite i mass media, spesso in maniera distorta, strumentale e populista. «Le idee di politica criminale, infatti, non dovrebbero essere considerate alla semplice stregua di un prodotto da creare e commercializzare tramite i media, ma dovrebbero essere espressive di valori irrinunciabili, incompatibili con la mercificazione della persona»[95].

Ciò senza contare che nella maggior parte dei casi i cittadini, per le distorsioni ‘marketizzate’ del sistema mediatico, non riescono ad avere una’informazione piena e corretta, non partecipando così realmente al processo democratico, ma formando il proprio convincimento in base a notizie alterate o poco attendibili, delle quali ancor più internet risulta impregnato. Il risultato è spesso «una legislazione, ancora, che nel tentativo di rincorrere l’opinione pubblica mediatizzata, affastella norme in un sistema sempre più irrazionale, sproporzionato, caotico e, dunque, in contrasto con le esigenze di extrema ratio e di determinatezza del diritto penale»[96].

Anche la legislazione in materia di criminalità organizzata, infatti, per alcuni versi può farsi rientrare in quel più ampio fenomeno definito “populismo penale”, che si caratterizza per l’utilizzo improprio ed inefficace della sanzione penale come apparente soluzione ai più svariati problemi sociali, con la «credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale»[97].

In conclusione, deve rilevarsi che se, da un lato, l’intento della proposta di legge Lazzati è apprezzabile, atteso che affronta una questione di estrema rilevanza quale la collusione e la contiguità tra il mondo politico e quello mafioso; dall’altro, il perseguimento di tale obiettivo di tutela non può condurre a mettere da parte i principi e le garanzie sottese al diritto penale, ma anzi richiederebbe riforme volte a garantire l’effettività della repressione penale e però, contemporaneamente, anche il rispetto dei principi costituzionali richiamati.

Tale esigenza risulta ancora più pregnante laddove si consideri che ancora oggi la complessa figura del concorso esterno in associazione mafiosa, soprattutto nell’ambito dei patti politico-mafiosi, è molto controversa e continua ad apparire come «un istituto giuridico ‘liquido’, fluido, controverso, tormentato, divisivo: insomma, polemogico»[98]. Infatti, nonostante per alcuni possa dirsi risolta la questione circa la sua configurabilità, atteso che sul punto, anche a seguito della numerose pronunce della Suprema Corte, giurisprudenza e dottrina sembrano quasi pacifiche, permangono tuttora diversi problemi applicativi[99]. Tant’è che parte della dottrina auspica l’introduzione di norme penali ad hoc che consentano di individuare in modo tassativo e determinato le condotte concorsuali punibili, riconducendole ad una maggiore offensività per i beni giuridici tutelati[100].

Certamente, quindi, le diverse incertezze interpretative e probatorie che si ravvisano relativamente al concorso esterno in associazione mafiosa, necessiterebbero di un nuovo programma di riforme, ciò anche atteso che la mafia tende ad evolversi costantemente cambiando i suoi metodi di intervento e divenendo sempre più silente ed invisibile. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito ad un vero e proprio mutamento del volto della mafia, che sempre di più assume caratteri imprenditoriali, seguendo un processo di marginalizzazione delle attività delittuose in senso stretto, per orientarsi maggiormente su attività organizzate spesso di carattere imprenditoriale[101]. Ciò non determina certo un venire meno della forza d’intimidazione delle associazioni mafiose, ma anzi simboleggia un aumento di pericolosità di tali organizzazioni capaci di inserirsi nel tessuto economico della società, creando delle attività c.d. paralecite, spesso difficili da individuare, che «inquinano l’assetto generale del Paese»[102].

A tale cambiamento del volto della criminalità organizzata si affianca la sempre maggiore diffusione dei c.d. reati dei “colletti bianchi”, con particolare richiamo a quella classe economica media composta dal ceto dirigenziale o impiegatizio dotato di preparazione tecnica, indipendenza ed autonomia professionale, che consente di dissimulare meglio le proprie condotte illecite con quelle lecite e di poter neutralizzare eventuali pericoli di svelamento delle illiceità delle loro azioni[103]. Tra questi soggetti non può non essere ricompresa pure la classe politica, per molti versi in grado di agire su un piano di apparente liceità, favorendo con il proprio potere e la propria influenza le attività dei gruppi mafiosi. Anche lo Stato, pertanto, dovrebbe evolvere i propri strumenti legislativi, cercando di rendere più efficace il contrasto a quello che purtroppo può ancora oggi definirsi un “cancro per la società”, senza però contraddire le garanzie costituzionali in materia penale.

 



[1] Occorre evidenziare come dottrina e giurisprudenza individuino due diverse accezioni di ordine pubblico: una in senso materiale, secondo la quale l’ordine pubblico è equiparabile alla sicurezza collettiva ed alla pacifica convivenza; l’altra in senso ideale o normativo, secondo la quale l’ordine pubblico riflette un complesso di principi e istituzioni fondamentali posti alla base dell’ordinamento giuridico e, quindi, è sinonimo di ordine legale costituito. Sul punto G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale parte speciale, Bologna, 2008, 462 ss. Tali Autori avvallano la nozione materiale di ordine pubblico ritenendo quella ideale eccessivamente sfuggente, inafferrabile e facilmente utilizzabile per criminalizzare il semplice dissenso politico-ideologico.

[2] Cfr. G. L. Verrina, L’Associazione di stampo mafioso, Torino, 2008, 2. Alcuni Autori, tuttavia, ritengono che l’ordine pubblico non sia idoneo a fungere da bene giuridico per la sua vaghezza ed onnicomprensività. Da ciò discende che il reato de quo sia volto a punire i meri atti preparatori, cioè il mero accordo, in deroga all’art. 115 c.p.c., essendo i veri beni giuridici quelli alla cui offesa mirano gli associati, con conseguente contrasto con il principio di offensività di cui l’art. 115 c.p.c. è un’espressione. In tal senso A. Cavaliere, I reati associativi tra teoria, prassi e prospettive di riforma, in Aa.Vv., Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e innovazioni normative, Torino, 2010, 150 ss.; Id., Il concorso eventuale nelle associazioni per delinquere e di tipo mafioso, in Aa. Vv, I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio, Padova, 2005 123 ss.

[3] G. Fiandaca, E. Musco, op. cit., 481 ss.

[4] Da ultimo M. Caterini, Imprenditori e contiguità mafiosa tra impulsi repressivi ed esigenze personalistiche, in Le Corti Calabresi, 2011, 3, 685 ss.

[5] G. Spagnolo, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1987, 28 ss.; C. Macrì, V. Macrì, La legge antimafia, Napoli, 1987, 30 ss.

[6] C.F. Grosso, Le fattispecie associative: problemi dommatici e di politica criminale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 1996, 412 ss.; C. Macrì, V. Macrì, op. cit., 28 ss. Tuttavia, occorre osservare che un orientamento dottrinale più risalente ritiene che l’ art. 416 bis c.p. configuri un reato di danno in quanto l’associazione mafiosa è un’associazione che ha già creato intorno a se omertà ed intimidazione. Non vi sarebbe, dunque, un mero pericolo di turbamento dell’ordine pubblico, ma un turbamento effettivo cagionato dall’utilizzo del metodo mafioso. Sul punto G. Spagnolo, op. cit., 108 ss.

[7] G. Spagnolo, op. cit., 25 ss.

[8] In tale senso l’associazione si distingue dal semplice concetto di gruppo inteso come un’unione di persone temporanea ed occasionale. Sul punto G. Spagnolo, op. cit., 21 ss.

[9] C. Macrì, V. Macrì, op. cit., 26 ss.

[10] G. L. Verrina, op. cit., 8 ss.; G. Spagnolo, op. cit., 76 ss.; C. Macrì, V. Macrì, op. cit., 26 ss.

[11] A. Corvi, Partecipazione e concorso esterno: un’indagine sul diritto vivente, in Riv. it. dir. proc. pen., 1, 2004, 242 ss.; C. Visconti, I reati associativi tra diritto vivente e ruolo della dottrina, in Aa. VV., I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio, Padova, 2005, 150 ss. Quest’ultimo Autore distingue due modelli di partecipazione associativa: uno di tipo causale, nel quale la soglia di punibilità coincide con il contributo causale apportato dal partecipe all’associazione, e l’altro di tipo organizzatorio in cui invece la rilevanza della condotta dipende dall’avvenuto inserimento dell’agente nella struttura associativa. Nello stesso senso G. Fiandaca, C. Visconti, Il patto di scambio politico-mafioso al vaglio delle sezioni unite, in Foro it., 2006, II, 86 ss.

[12] Cass. pen., sez. un.. 12 luglio 2005, n. 33748, in Foro it. 2006, 2, 80 ss. ; Cass. pen., 30 ottobre 2002, n. 22327, in Riv. it. dir. e proc. pen, 2004, 322 ss.; Id., 12 luglio 2005, n. 33748, cit. In dottrina A. Corvi, Partecipazione, cit., 242 ss. È diffuso in dottrina l’orientamento secondo il quale possono essere considerati partecipi all’associazione mafiosa anche i soggetti non imputabili, purché abbiano la volontà di partecipare all’associazione e possa escludersi l’applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 112 n. 5 c.p., in quanto la pluralità di persone è già elemento costitutivo della norma in esame e non potrebbe perciò costituire anche aggravante del reato. In tal senso G. Spagnolo, op. cit., 26 ss.

[13] Cass. pen., sez. un.,12 luglio 2005, n. 33748, cit.. In dottrina F. M. Iacoviello, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione a delinquere, in Cass. pen., 4, 1995, 842 ss. L’Autore elenca tutta una serie di elementi idonei ad individuare la figura del partecipe quali «l’attribuzione e lo svolgimento di un ruolo nell’organigramma aziendale dell’impresa mafiosa, la condivisione del programma delittuoso, l’inserimento in una gerarchia con conseguente potere di dare ordini e obbligo di eseguire gli ordini, il rispetto di regole interne con il coacervo di aspettative, facoltà, poteri e doveri che ne derivano».

[14] G. Borrelli, Tipizzazione della condotta e nesso di causalità nel delitto di concorso in associazione mafiosa, in Cass. pen. 2005, 12, 3759 ss.; F. Fava, Tre decisioni della Cassazione dal 1994 al 2002, in Aa. Vv., I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio, Padova, 2005, 21 ss.; A. Cavaliere, Il concorso eventuale, cit., 130 ss.; C. Visconti, Il tormentato cammino del concorso «esterno» nel reato associativo, in Foro it., 1994, II, 561 ss. Infatti, all’affiliato vero e proprio che ha aderito a mezzo di una cerimonia ufficiale all’associazione, parte della dottrina accomuna anche il c.d. quasi affiliato, cioè colui che, pur non essendo entrato a far parte del sodalizio criminoso in maniera ‘solenne’, si ponga a disposizione dell’associazione in modo stabile e serio, rivestendo un ruolo all’interno della stessa. Sul punto A. Corvi, Partecipazione, cit., 242 ss. Nello stesso senso in giurisprudenza Cass. pen., sez. I, 18 maggio 1994 n. 2348, in Foro it., 1994, 560 ss.

[15] G. L. Verrina, op.cit. 12; G. Fiandaca, E. Musco, op. cit., 485 ss.; C. Macrì, V. Macrì, op. cit., 26 ss. Questi ultimi precisano che soprattutto per i promotori, gli organizzatori ed i dirigenti dell’associazione mafiosa, il dolo specifico deve necessariamente concretarsi nella volontà di realizzare i fini associativi, avvalendosi del metodo mafioso, non essendo sufficiente la mera volontà di far parte dell’associazione.

[16] G. Spagnolo, op. cit., 92 ss.

[17] G. Spagnolo, op. cit., 109 ss.; C. Macrì, V. Macrì, op. cit., 38 ss.

[18] L. Caradonna, Il concorso esterno in associazione mafiosa e la fattispecie incriminatrice di carattere sussidiario prevista dall’art. 378 c.p.: configurabilità e differenze, in Giur. merito 2010, 1, 174 ss. M. Caterini, op. cit., 674 ss. Quest’ultimo Autore ritiene che il termine “esterno” venga utilizzato impropriamente per qualificare tale tipologia di concorso, in quanto il legislatore distingue già tra concorso necessario di persone, riferendolo alla partecipazione, e concorso eventuale di persone riferibile invece al concorso.

[19] M. Santambrogio, Il concorso eventuale di persone in delitto di tipo mafioso associativo, in Giur. merito 2005, 10, 2272 ss.; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 2001, 498 ss.; G. Fiandaca, E. Musco, op. cit., 483 ss.

[20] Cass. pen., sez. un., 5 ottobre 1994, n. 16, in Cass. pen., 2005, 842 ss. Occorre precisare che la problematica ha riguardato il concorso materiale esterno, essendo, invece, pacifica la configurabilità di un concorso morale esterno nelle forme dell’istigazione o della determinazione consistente «nel determinare, o comunque, rafforzare la volontà altrui di partecipare a un’associazione per delinquere o di promuoverla o di dirigerla o di organizzarla». In tal senso G. Spagnolo, op. cit., 126 ss.; A. Fallone, Concorso esterno: tra tipicità sostanziale e tipicità del metodo probatorio della fattispecie penale, in Giur. merito, 2012, 04, 774; M. Borrelli, op. cit., 2272 ss.; Cass. pen., sez. I, 30 giugno 1994, Mattina, Ced Cass. pen., 198338

[21] Cass. pen., sez. I, 4 febbraio 1988, Barbella, in Cass. pen., 1989, 1988; Nello stesso senso Id., sez I, 23 novembre 1992, Altomonte, in Foro it., 1993, IV, 64 ss.

[22] Cass. pen., sez. I, 18 maggio 1994, n. 2348, in Foro it., 1994, 560 ss.; Cass., 19 gennaio 1987, sez. I, Cillari, in Cass. pen., 1989, 34 ss.; Id., 21 marzo 1989, sez. I, Agostani, in Cass. pen., 1991, 222 ss.; Id., 18 maggio 1994, sez. I, Clementi, in Foro it., 1994, 560 ss.; Per una completa ricostruzione degli orientamenti sul punto in dottrina M. Caterini, op. cit., 675 ss.; G. Denora, Sulla qualità di concorrente “esterno” nel reato di associazione di tipo mafioso, in Riv. it. dir. proc. pen., 1, 2004, 322 ss.; G. L. Verrina, op. cit., 29 ss.

[23] R. Murano, Il nodo del concorso esterno: un’introduzione, in Aa vV, I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio, Padova, 2005, 17 ss.

[24] Cass. pen., sez. un., 5 ottobre 1994, n. 16, cit.; In dottrina C. Visconti, Il tormentato cammino, cit., 561 ss.

[25] Ciò troverebbe conferma anche nell’art. 418 c.p., che nell’individuare un’ipotesi di concorso nel reato, farebbe riferimento, appunto, al concorso eventuale esterno, che, quindi, sarebbe così espressamente riconosciuto Diversamente, la giurisprudenza che osteggia la configurabilità del concorso esterno ritiene che l’art. 418 c.p., nell’incriminare le condotte agevolatrici degli associati per delinquere, farebbe riferimento al concorso necessario nel reato associativo e, quindi, alla sola partecipazione all’associazione. In tal senso Cass. pen., sez. I, 18 maggio 1994, n. 2348 in Foro it., 1994, 560 ss. In dottrina A. Fallone, op. cit., 774 ss.; R. Murano, op. cit., 18 ss.

[26] L. Cardonna, op. cit., 174 ss.; A. Corvi, Partecipazione, cit., 242 ss.

[27] A. Corvi, Partecipazione, cit., 242 ss.

[28] F. M. Iacoviello, op. cit., 842 ss.

[29] G. Borrelli, op. cit., 3759; A. Corvi, Partecipazione, cit., 242 ss.; G.L. Verrina, Approccio riduttivo e carattere aporètico delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sul concorso esterno nel reato associativo, in Arch. pen., 2012, 2, 501 ss.; A. Cavaliere, Il concorso eventuale, cit. 135 ss.; C. Visconti, Il concorso esterno tra aspetti di costituzionalità e prospettive di riforma legislativa, in Dir. pen. e proc., 1998, 6, 752 ss.

[30] Si fa riferimento alle note sentenze Carnevale e Mannino pronunciate dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite. Per un’analisi diffusa di tali pronunce si veda G. Borrelli, op. cit., 3759 ss.; L. Cardonna, op. cit., 174 ss.; I. Ormanni, Concorso esterno? Prova diabolica, in D&G 2005, 27, 82; T. Padovani, Note sul c.d. concorso esterno, in Dir. pen. contemporaneo, 2/2012; R. Murano, op. cit., 11 ss.; F. Fava, op. cit., 20 ss.

[31] Cass. pen., sez. un., 30 ottobre 2002, n. 22327, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, 322 ss.; Cass. pen., sez. un., 12 luglio 2005, n. 3748, in Foro it., 2006, 2, 80 ss.; Nello stesso senso da ultimo Cass. pen., sez. I, 1° luglio 2014, (ud. 9 maggio 2014) n. 28225, in www.giurisprudenzapenale.it.

[32] C. Visconti, La punibilità della contiguità alla mafia tra tradizione (molta) e innovazione (poca), in Cass. pen., 1, 2002, 1854 ss.; A. Corvi, Il concorso esterno del magistrato nell’associazione di tipo mafioso, in Dir. pen. proc., 2006, p. 1112 ss.; C.F. Grosso, Le fattispecie, cit., 414 ss. A. Cavaliere, Il concorso eventuale, cit., 131 ss.; G. Fiandaca, C. Visconti, Il patto, cit., 86 ss. Questi ultimi ritengono che l’accertamento della causalità tra la condotta del concorrente esterno ed il rafforzamento dell’associazione vada condotto attraverso un apprezzamento ex post, in esito al quale sia dimostrato l’effettivo nesso condizionalistico tra la condotta stessa e la realizzazione del fatto di reato. «La soluzione dello specifico problema causale del concorso esterno viene inserita nel più generale orizzonte delineato con la precedente, e ormai celebre, sentenza Franzese del 10 luglio 2002, la quale funge a tutt’oggi da insuperato punto di riferimento in tema di causalità penalmente rilevante: proprio sulla scia dei principi elaborati in tale importante pronuncia, la Cassazione sostiene adesso che anche nell’ambito del concorso esterno il contributo eziologico dell’estraneo deve atteggiarsi a condizione necessaria dell’evento, secondo lo stesso modello di causalità tipico delle fattispecie incriminatrici a forma libera e causalmente orientate».

[33] A. Corvi, Partecipazione, cit., 242 ss.

[34] Cass. pen., sez. un., 12 luglio 2005, n. 3748, cit.; sul punto le Sezioni unite si erano espresse anche nella sentenza Carnevale, affermando che «nell’atteggiamento psicologico del concorrente esterno è richiesto il dolo diretto. Il discrimine tra concorso e partecipazione, quanto al profilo soggettivo, risiede essenzialmente nel segmento dell’atteggiamento psicologico che riguarda la volontà di far parte dell’associazione». Cass. pen., sez. un., 30 ottobre 2002, n. 22327, cit.

[35] Cass. pen., sez. V, 9 marzo 2012, n. 15727, in Cass. pen., 2013, 1, 231 ss.; Cass. pen., sez. II, 17 maggio 2012, n. 34979, in CED Cass. pen., 2012; Id., sez. VI, 27 novembre 2012, n. 49757, in CED Cass. pen., 2012. Nello stesso senso in dottrina G. Borrelli, op. cit., 3759 ss.; A. Corvi, Partecipazione, cit., 242 ss; A. Bargi, Concorso esterno e strumenti patrimoniali di contrasto della criminalità organizzata, in Arch. pen., 2012, 489 ss.; G. Fiandaca, Questioni ancora aperte in tema di concorso esterno, in Foro it., 2012, II, 565 ss.; G. Silvestri, Punti fermi in tema di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, in Foro it., 2012, II, 360 ss.

[36] Cfr.. G. L. Verrina, op. cit., 46

[37] G. Fiandaca, C. Visconti, Il patto, cit., 86 ss.; G. Fiandaca, Questioni ancora aperte, cit., 565 ss. G. Fiandaca, C. Visconti, Il concorso esterno come persistente istituto “polemogeno”, in Arch. pen., 2012, 487 ss. Questi ultimi Autori sono fortemente critici circa la ricostruzione del dolo dell’extraneus come dolo diretto, ritenendo che «risulta errato già da un punto di vista empirico – criminologico ipotizzare che l’extraneus, nell’agire a vantaggio dei sodalizi mafiosi, lo faccia perché sorretto da una vera e propria volontà di contribuire alla realizzazione (anche parziale) dei corrispondenti programmi criminosi. In realtà, chi ha effettiva conoscenza delle dinamiche che si instaurano tra i mafiosi e i sostenitori esterni, sa che nella psicologia di questi ultimi tende a prevalere un atteggiamento “egoistico” di sfruttamento a proprio vantaggio delle opportunità generate dalla contiguità criminale, ma senza, per questo, condividere i programmi criminosi degli associati o soltanto volere contribuire al loro conseguimento». Diversamente, si finirebbe per richiedere al concorrente esterno il dolo che invece caratterizza la condotta del partecipe. All’extraneus, quindi, dovrebbe solo richiedersi la prestazione volontaria di un contributo all’associazione, con la consapevolezza dell’effetto vantaggioso che alla stessa deriva dal suo contributo.

[38] G. Spagnolo, op. cit., 129 ss.; G. Borriello, op. cit., 2272 ss.; F. M. Iacoviello, op. cit., 842 ss.

[39] A. Fallone, op. cit., 776 ss. Tale Autore tra l’altro ritiene che un minimo di reiterazione debba caratterizzare anche la condotta del concorrente esterno, attesa la natura di reato permanete della fattispecie di cui all’art. 416 bis. Pertanto, le singole condotte, poste in essere una tantum rientrerebbero nelle previsioni di cui agli artt. 418 c.p. e 378 c.p.. L’Autore sostiene, quindi, che «se rimane fermo che la condotta del concorrente esterno può anche essere una condotta isolata, una tantum, è pur vero che tale condotta per integrare comunque gli estremi della fattispecie penalmente rilevante, deve essere tale da generare un rafforzamento del patrimonio associativo che proprio perché tale potrebbe verosimilmente essere interpretato anche nel senso di un minimo di stabilità del contributo arrecato dall’estraneo con la propria condotta».

[40] Cass. pen., sez. I, 1°  luglio 2014, (ud. 9 maggio 2014), n. 28225, cit.

[41] Corte assise appello Reggio Calabria, sez. II, 15 ottobre 2012, n. 15, in Riv. pen., 2013, 3, 331 ss.

 

[42] Occorre evidenziare che la dottrina ha definito il patto politico-mafioso come «l’accordo tra l’uomo politico e la cosca in forza del quale il primo, in cambio dell’appoggio elettorale dell’organizzazione, le somministra denaro o si impegna a tenere una volta eletto, comportamenti ad essa favorevoli». Cfr. F. Turlon, Il patto elettorale politico-mafioso, in Aa. Vv., I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio, Padova, 2005, 17 ss.

[43] Cass. pen., sez. un. 12 luglio 2005, n. 3748, cit.

[44] Cass. Pen., sez. un., 12 luglio 2005, n. 3748, cit.

[45] Cass. pen., sez. I, 25 novembre 2000, n. 4043, Cito, in C.E.D. Cass., n. 229991.. In dottrina A. Cavaliere, I reati associativi, cit., 155 ss.; Id., Il concorso eventuale, cit., 137 ss.; F. Turlon, op. cit., 50 ss.

[46] Cass. pen., sez. V, 16 marzo 2000, n. 4893, Frasca, in Cass. pen., 2001, 1194 ss.

[47] Cass. pen., sez. V, 6 febbraio 2007, n. 21648, in D&G, 2007; in dottrina A. Corvi, Partecipazione, cit., 242 ss.; A. Panetta, A. Balsamo, Sul patto elettorale politico mafioso vent’anni dopo. Poche certezze, molti dubbi, in Cass. pen., 2012, 11, 3756; P. Morosini, Riflessi penali e processuali del patto di scambio politico-mafioso, in Foro it., 2001, 80 ss.; C. F. Grosso, Accordo elettorale politico-mafioso e concorso esterno in associazione mafiosa, in Foro it., 1996, V, c. 127 ss. Quest’ultimo Autore, in relazione alla presunta violazione dell’art. 115 c.p., afferma che «è vero che l’accordo può rilevare penalmente alla condizione che esista una norma che lo preveda come condotta costitutiva di un reato. A questo scopo non è tuttavia necessario che si tratti di una specifica norma penale incriminatrice, essendo sufficiente che una norma generale, quale può essere appunto l’art. 110 c.p., consenta di considerarlo comunque rilevante sul terreno della responsabilità penale». In giurisprudenza Cass. pen., Sez. V, 16 marzo 2000, n. 4893, Frasca, cit.

[48] Corte assise appello Reggio Calabria, sez. II, 15 ottobre 2012, n. 15, cit.

[49] Ibidem.

[50] Tale norma è stata introdotta nel nostro codice penale con il D.L. 8 giugno 992 n. 306, convertito nella Legge 7 agosto 1992, n. 356, ovvero la medesima legge che ha inserito le finalità politico-elettorali tra quelle che caratterizzano l’associazione di tipo mafioso nell’art. 416 bis.

[51] Cass. pen., sez. un., 30 ottobre 2002, n. 22327, cit.; Id., sez. un., 12 luglio 2005, n. 3748, cit.; In dottrina F.C. Grosso, Accordo elettorale, cit., 127 ss.

[52] F. Turlon, op. cit., 38 ss. In giurisprudenza Cass. pen., sez. V, 20 aprile 2000, n. 4893, in Cass. pen., 2001, 1194 ss.. In tale pronuncia si legge che «nel reato di scambio elettorale politico mafioso non è necessario, ed anzi è improbabile, che il politico aderisca, quale componente o concorrente esterno, alla struttura malavitosa, nell’ipotesi in cui l’associazione mafiosa s’impegni per ostacolare il libero esercizio del diritto di voto o per procurare voti ad un determinato candidato; quest’ultimo, o sarà un aderente, a pieno titolo, alla suddetta associazione, ovvero in quanto uomo politico estraneo all’associazione, ma disponibile al soddisfacimento delle esigenze della stessa, potrà rivestire, in ragione del suo concreto comportamento, il ruolo di concorrente esterno; ciò in quanto anche se intraneus alla società sceleris, potrà allacciare con la stessa un rapporto collaborativo ed una relazione di reciproca utilità».

[53] Cass. pen., sez. VI, 9 novembre 2011, n. 43107, in Cass. pen., 2012,11, 3754 ss. Nello stesso senso in dottrina A. Corvi, Partecipazione, cit., 2004, p. 242 ss.

[54] G. Fiandaca, Una espansione incontrollata del concorso criminoso, in Foro it., 1996, V, c. 129 ss.; C. Visconti, Patto politico-mafioso e i problematici confini del concorso esterno, in Foro it., 1997, II, 442 ss., il quale afferma che «il patto in questione ha per oggetto una reciproca promessa tra politico e sodalizio mafioso, qualcosa, quindi, di meramente potenziale che ancora non si è tradotto in un contributo effettivo all’associazione criminale tale da integrare gli estremi di un concorso punibile. D’altra parte, la mera promessa di un impegno futuro, qualora disattesa da parte del politico, potrebbe addirittura sprigionare un effetto contrario a quello voluto e cioè depotenziare il prestigio e la temibilità dell’organizzazione: ecco, dunque, la necessità che le ‘prestazioni’ previste nel patto illecito trovino esecuzione in modo tale da concretizzare quell’apporto agevolativo o rafforzativo nei confronti dell’ente criminale che rappresenta il quid proprium del concorso esterno in associazione mafiosa».

[55] Cass. pen., sez. VI, 13 aprile 2012, n. 18080, in Cass. pen., 2013, 3, 1063,; Id., sez. I, 25 marzo 2003, n. 27777, Cassata ed altri, in Cass. pen., 2004, p. 3627. In dottrina M. Santambrogio, Il concorso eventuale di persone in delitto di tipo mafioso associativo, in Giur. merito, 2005, 10, 2272 ss.; F. De Leo, Aspettando un legislatore che non si chiami Godot. Il concorso esterno dopo la sentenza Mannino, in Cass. pen., 2006, 1994.

[56] G. Fiandaca, Una espansione, cit. 127; Visconti, Patto politico-mafioso, cit., 442 ss.

[57] I. Fonzo, F. Puleio, Lo scambio elettorale politico-mafioso. un delitto fantasma?, in Cass. pen., 6, 2005, 1908 ss.; F. Aprea, Il momento consumativo dello scambio elettorale politico-mafioso, in Giur. it., 2013, 4 ss.; S. Mantovani, Nota sul reato di scambio elettorale politico mafioso, in Giur. it., 2006, 5 ss.; F. C. Grosso, Accordo elettorale, cit., 127 ss.

[58] Il nuovo testo dell’art. 416 ter c.p. così come modificato dalla Legge n. 62/2014 è il seguente: «Chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416 bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità è’ punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La stessa pena si applica a chi promette di procurare voti con le modalità di cui al primo comma».

La disposizione, in base a quanto previsto dall’art. 2 della L. 62/2014, è entrata in vigore il 18 aprile 2014, ovvero il giorno seguente a quello della pubblicazione della legge in Gazzetta Ufficiale, senza il decorso dell’ordinario termine di vacatio legis.

[59] G. Amarelli, Il nuovo delitto di scambio elettorale politico-mafioso, in www.quotidianogiuridico.it; A. Manunta, Brevi note sul nuovo scambio elettorale politico mafioso, in www.giurisrpudenzapenale.com.

[60] G. Amarelli, op. cit.; A. Manunta, op. cit. In giurisprudenza Cass. pen., sez. II, 21 dicembre 2011, n. 47405, in C.E.D. Cass., n. 251609; Id., sez. I, 14 gennaio 2004, n. 3859, in C.E.D. Cass., n. 227476; Id., sez. II, 30 novembre 2011, n. 46922, in Cass. pen., 2012, 9, 2948 ss. nella quale si legge che «ai fini della configurabilità del reato di scambio elettorale politico-mafioso, previsto dall’art. 416 ter c.p., l’oggetto materiale dell’erogazione offerta in cambio della promessa di voti può essere rappresentato non solo dal denaro, ma da qualsiasi bene traducibile in un valore di scambio immediatamente quantificabile in termini economici».

[61] G. Amarelli, op. cit., 2 ss.; A. Manunta, op. cit., 3 ss.

[62] G. Amarelli, op. cit., 2 ss.; A. Manunta, op. cit., 2 ss.

[63] La proposta di modifica era stata così formulata «chiunque, fuori delle previsioni di cui all’art. 416 bis, terzo comma, anche senza avvalersi delle condizioni ivi previste, ottenga, da parte di soggetti appartenenti a taluna delle associazioni di tipo mafioso punite a norma dell’art. 416 bis ovvero da parte di singoli affiliati per conto delle medesime, la promessa di voti, ancorché in seguito non effettivamente ricevuti, in cambio dell’erogazione di denaro o altra utilità è punito con la pena prevista dal primo comma del citato art. 416 bis».

[64] Cfr. dossier n. 11/1 del Servizio Studi della Camera dei Deputati del 12 luglio 2013.

[65] G. Amarelli, op. cit., 3 ss. Sul punto occorre rilevare che in sede parlamentare è stato altresì sollevato il problema che il nuovo e meno severo trattamento sanzionatorio previsto per l’art. 416-ter c.p. impedisce la possibilità di ricorrere all’arresto obbligatorio. Tuttavia, è stato osservato come, atteso che l’arresto obbligatorio richieda per la sua configurazione al flagranza di un reato non colposo e punibile con la  pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni, questo non risultava applicabile neppure nel previgente testo dell’art. 416 ter c.p. Sarà tuttavia possibile, come lo era in precedenza, procedere all’arresto in flagranza c.d. facoltativo ai sensi dell’art. 381 c.p.p.. In tal senso A. Manunta, op. cit., 2 ss.

[66]Cass. pen., sez. VI, 9 novembre 2011, n. 43107, in CED Cassazione, 2011; Id., sez. I, 25 novembre 2003, n. 4043, in Riv. pen., 2005, 1387

[67] Per una prima analisi dei punti critici del nuovo art. 416 ter c.p., si veda A. Manunta, op. cit., 3 ss.

[68] Cfr. A. Manunta, op. cit., 4 ss.

[69] La legge è stata promossa dal “Centro studi regionale G. Lazzati – Calabria” e dal suo fondatore, Romano De Grazia, ex magistrato della Suprema Corte di Cassazione.

[70] F. Siracusano, Il delitto di propaganda elettorale ad opera degli appartenenti all’associazione mafiosa, in Aa.Vv., Il doppio binario nell’accertamento dei fatti di mafia, Torino, 2013, 966 ss.

[71] Il primo comma prevede che «dal termine stabilito per la presentazione delle liste e dei candidati e fino alla chiusura delle operazioni di voto, alle persone sottoposte, in forza di provvedimenti definitivi alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi della presente legge, è fatto divieto di svolgere attività di propaganda elettorale previste dalla legge 4 aprile 1956 n. 212 in favore o in pregiudizio di candidati partecipanti a qualsiasi tipo di competizione elettorale». Il secondo comma, invece, dispone che «salvo che il fatto costituisca più grave reato, il contravventore al divieto di cui al comma 5-bis 1 è punito con la reclusione da uno a cinque anni. La stessa pena si applica al candidato che, avendo diretta conoscenza della condizione di sottoposto in via definitiva alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, richiede al medesimo di svolgere le attività di propaganda elettorale previste dal citato comma 5-bis 1 e se ne avvale concretamente. L’esistenza del fatto deve risultare anche da prove diverse dalle dichiarazioni del soggetto sottoposto alla misura di prevenzione».

[72] Il testo di legge in esame si compone poi di un secondo articolo, il quale dispone che «la condanna alla pena della reclusione, anche se conseguente all’applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per il delitto previsto dall’articolo 10, comma 5-bis 2, della legge 31 maggio 1965, n. 575, introdotto dall’articolo 1 della presente legge, comporta l’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena detentiva. A tal fine la cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza trasmette copia dell’estratto esecutivo, chiusa in piego sigillato, all’organo o all’ente di appartenenza per l’adozione degli atti di competenza. Nel caso in cui il condannato sia un membro del Parlamento, la Camera di appartenenza adotta le conseguenti determinazioni secondo le norme del proprio regolamento. Dall’interdizione dai pubblici uffici consegue l’ineleggibilità del condannato per la stessa durata della pena detentiva. La sospensione condizionale della pena non ha effetto ai fini dell’interdizione dai pubblici uffici».

[73] Sul punto occorre ricordare come gli esponenti del Movimento cinque stelle in collaborazione con il Centro Studi Lazzati si siano fatti promotori della nuova proposta di legge volta all’abrogazione dell’attuale testo della Legge Lazzati e all’introduzione degli articoli precedentemente contenuti nell’originario disegno di legge poi modificato in sede di approvazione.

[74] Sul punto diffusamente, con accenti diversi, F. Siracusano, Il d.lgs. n. 159 del 2011 e il divieto di propaganda elettorale, in Arch. pen., 2/2012, 633 ss.; Id., Il delitto di propaganda, cit., 970 ss.; A. Cisterna, Il divieto di propaganda elettorale da parte dei mafiosi: norme simboliche e strumenti inefficaci, in Dir. pen. e proc., 2011, 2, 149 ss.

[75] F. Siracusano, Il d.lgs. n. 159 del 2011, cit., 633 ss.; Id., Il delitto di propaganda, cit., 970 ss.

[76] L’articolo del disegno di legge disponeva che «alle persone indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla ‘ndrangheta o ad altre associazioni comunque localmente denominate che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso, sottoposte alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, è fatto divieto di svolgere propaganda elettorale in favore o in pregiudizio di candidati o simboli, con qualsiasi mezzo, direttamente o indirettamente. Ai fini della presente legge è da intendersi per propaganda elettorale qualsiasi attività diretta alla raccolta del consenso svolta in occasione di competizioni elettorali e caratterizzata da molteplicità di atti, coinvolgimento di più persone, impiego di mezzi economici e predisposizione all’uopo di una sia pur minima struttura organizzativa».

[77] Tale legge definisce la campagna elettorale come «l’affissione di stampati, giornali murali od altri e di manifesti di propaganda», lasciando sostanzialmente impunita ogni altra condotta realizzabile. Tale orientamento dottrinario è rappresentato da vari Autori tra i quali A. Cisterna, op. cit.; F. Siracusano, Il d.lgs. n. 159 del 2011, cit., 633 ss.; Id., Il delitto di propaganda, 970 ss.

[78] A. Cisterna, op. cit., 149 ss., secondo cui «il tratto distintivo è dato dalla particolare qualifica dell’intraneus, autore della violazione ex art. 10 (il sottoposto in via definitiva a misura di prevenzione personale) e dalla conseguente connotazione del delitto come reato proprio. Difatti, ogni attività di procacciamento di voti integra di per sé una forma di propaganda elettorale in favore del candidato alla competizione e pone, quindi, delicati problemi probatori al fine di accertare se l’illecita attività di proselitismo ex art. 10 citato a vantaggio (non in pregiudizio, questa volta) di un candidato non trasli verso il più ampio spettro associativo sanzionato ai sensi dell’art. 416 bis c.p.».

[79] F. Siracusano, Il d.lgs. n. 159 del 2011, cit., 633 ss.; Id., Il delitto di propaganda, 970 ss.

[80] A. Cisterna, op. cit., 149 ss.; F. Siracusano, Il d.lgs. n. 159 del 2011, cit., 633 ss.

[81] Cfr. F. Siracusano, Il delitto di propaganda, cit., 980

[82] A. Cisterna, op. cit., 149 ss.; F. Siracusano, Il d.lgs. n. 159 del 2011 cit., 633 ss.; Id., Il delitto di propaganda, cit., 970 ss. Quest’ultimo Autore ha pure evidenziato come la fattispecie delittuosa de qua è stata strutturata in forma monosoggettiva, prevedendo solo come eventuale la punibilità dell’uomo politico. Secondo questa tesi, invece, sarebbe stato più efficace strutturare il reato de quo come una fattispecie a concorso necessario, prevedendo come indispensabile la condotta sia del prevenuto che del politico, atteso che tra queste parti, nella maggior parte dei casi, si realizza un accordo sinallagmatico.

[83] F. Siracusano, Il delitto di propaganda, cit., 970 ss. L’Autore sottolinea anche come sebbene la norma de qua preveda, oltre alla pena detentiva, anche la sanzione interdittiva dell’ineleggibilità a carico del candidato politico, questa non è sufficientemente repressiva, in quanto limitata alla sola durata della pena detentiva, mentre sarebbe stato maggiormente efficace prevedere un’ineleggibilità perpetua del candidato stesso.

[84] Per tutti, F. Bricola, Teoria generale del reato, in Nov. dig. it., XIX (1973), 14 ss.

[85] L’espressione è di F. Mantovani, Principi, cit., 84; Nello stesso senso F. Bricola, op. cit., 16 ss. Tale Autore evidenzia che i beni non costituzionalmente incompatibili sono beni emergenti, non compresi nella Carta costituzionale, ma meritevoli di tutela penale in quanto «l’illecito penale può ledere anche beni non di rilievo costituzionale, ma legati ad un valore costituzionale da un rapporto di presupposizione necessaria: talché la lesione del primo sia necessariamente ed inequivocabilmente idonea a mettere in pericolo il secondo». Nello stesso senso A. Cadoppi, Il reato omissivo, cit., 586 ss. L’Autore sottolinea che la stessa Corte costituzionale non ha mai riconosciuto l’illegittimità di una norma sul presupposto che la stessa punisse una condotta non lesiva di un valore costituzionale, soprattutto per non ingerire nelle scelte del legislatore in merito ai beni da tutelare penalmente.

[86] A. Cavaliere, Il concorso eventuale, cit., 126 ss.

[87] A. Cavaliere, Il concorso eventuale, cit., 127 ss.

[88] F. Siracusano, Il delitto di propaganda, cit., 980 ss.

[89] Sulla costituzionalizzazione del principio di offensività, tra i tanti, F. Bricola, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., vol. XIX, Torino, 1973, 81 ss.; E. Dolcini, Il reato come offesa a un bene giuridico: un dogma al servizio della politica criminale, in Aa.Vv., Il diritto penale alla svolta di fine millennio, a cura di S. Canestrari, Torino, 1998, 211 ss.; M. Caterini, Reato impossibile e offensività, Napoli, 2004, 183 ss.; M. Gallo, I reati di pericolo, in Foro pen., 1968, 8 ss.; E. Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, 116 ss.; C. Fiore, Il principio di offensività, in Indice pen., 1994, 275 ss.

[90] T. Padovani, La problematica del bene giuridico e la scelta delle sanzioni, in Dei delitti e delle pene, 1/1984, 124 ss.; E. Lo Monte, Diritto penale e tutela dell’ambiente, Milano, 2004, 422 ss. Quest’ultimo Autore parla di sussidiarietà in concreto secondo la quale l’intervento penale deve essere attivato solo dopo aver posto in essere interventi alternativi ed averne verificato l’inefficacia

[91] F. Palazzo, Corso di diritto penale, parte generale, Torino, 2005, 87 ss.; S. Moccia, Dalla tutela di beni alla tutela delle funzioni: tra illusioni postmoderne e riflessi illiberali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2/1995, 368 ss.

[92] L’art. 2 del progetto dispone che «il sottoposto a sorveglianza speciale e che, trovandosi nelle condizioni di cui all’art. 1, propone o accetta di svolgere attività di propaganda elettorale, e il candidato che la richiede o in qualsiasi modo la sollecita sono puniti con la reclusione da uno a sei anni».

[93] Per un’ampia analisi di tale fenomeno M. Caterini, La legalità penal-mediatica. La mercificazione del “prodotto” politico-criminale tra vecchi e nuovi mezzi di comunicazione in E.R. Zaffaroni, M. Caterini (a cura), La sovranità mediatica. Una riflessione tra etica, diritto ed economia, Padova, 2014, 152 ss.

[94] Cfr. M. Caterini, La legalità penal-mediatica, cit., 167

[95] Cfr. M. Caterini, La legalità penal-mediatica, cit., 160

[96] Ibidem

[97] Tratto dal discorso del Santo Padre Francesco alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale, Sala dei Papi Giovedì, 23 ottobre 2014.

 

[98] Cfr. G. Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, in Dir. pen. contemporaneo, 1/2012, 251

[99] P.  Morosini, Il concorso esterno oltre le aule di giustizia, in Dir. pen. contemporaneo, 1/2012, 261 ss.; A. Bargi, op. cit., 502.

[100] A. Cavaliere, Il concorso eventuale, cit., 141 ss. Nello stesso senso F. Turlon, op. cit., 53 ss., il quale auspica l’introduzione di una fattispecie incriminatrice specificatamente volta alla repressione delle condotte concorsuali esterne poste in essere dai politici per agevolare le associazioni mafiose.

[101] E. Sicilia, Economia, impresa e criminalità dei colletti bianchi, Bari, 2001, 163 ss.

[102] Cfr. G. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008, 220

[103] G. Borelli, Il “metodo mafioso”, tra parametri normativi e tendenze evolutive, in Cass. pen., 7-8/2007, 2781 ss.; G. Turone, op. cit., 220 ss.

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