Dott.ssa Federica Martinez

 Sommario

  1. Premessa – 2. Il Legal Design: obiettivi e applicazioni – 2.1. “Design Thinking” – 2.2. “The proactive law approach” – 3. Depotenziare i dark pattern. Implicazioni pratiche nell’ambito della privacy4. Sviluppi nazionali ed internazionali – 5. Conclusioni
  1. Premessa

Il Legal Design è un nuovo approccio al mondo del diritto che coniuga due aspetti solo apparentemente estranei. Con il termine “legal” possiamo intendere tutto ciò che concerne la legge e la giustizia, come i processi, le procedure, i contratti e il materiale informativo. Il “design” al contrario non è legato al rigido panorama legale, ma al più creativo processo di visualizzazione di immagini per facilitare la comunicazione e la costruzione di progetti in grado di catturare e coinvolgere il destinatario. E’ sicuramente più facile immaginare l’utilizzo del design nel marketing, per persuadere l’utente finale ad acquistare un prodotto o rendere più agevole la comprensione di servizio offerto.

Non è tuttavia impossibile che il legal incontri il design. Margaret Hagan, docente alla Stanford University, esperta di design legale e di comunicazione, ritiene che sia necessario to make law more accessible, useful and engaging[1]. Questo nuovo approccio muove dall’esigenza di rendere chiaro, semplice, immediato, accessibile e comprensibile sia il diritto in sé che e le sue applicazioni pratiche. Ciò comporta una particolare attenzione all’impatto “estetico” del diritto, un settore che ben poco sembra avere di attrattivo.

La sfida del futuro è proprio questa: lavorare con un nuovo metodo multidisciplinare per rendere piacevole argomenti di non facile accesso e attirare l’attenzione verso un mondo apparentemente ostile e intricato.

 

  1. Il Legal Design: obiettivi e applicazioni

I primi studi e le prime applicazioni di questo metodo innovativo emergono in ambito universitario: in Finlandia, con il lavoro dell’avvocato Helena Haapio, e negli Stati Uniti, alla Stanford Law School grazie alla creazione del Legal Design Lab, guidato dalla professoressa Margaret Hagan.

I lavori e gli studi dei due team universitari pongono le lori basi, rispettivamente, nei concetti di Design Thinking e Proactive Law. I due approcci verranno disaminati nei paragrafi a seguire, ma possiamo fin da adesso chiarire quale sia la loro finalità, per meglio comprendere il motivo per cui vengono associati a questo metodo innovativo nel campo del diritto.

Entrambi gli approcci puntano alla centralità dell’utente finale ed alla efficace e produttiva interazione dell’uomo con il mondo che lo circonda. Per raggiungere questo obiettivo la comunicazione dovrà essere improntata a criteri di logicità, semplicità, chiarezza e trasparenza.

Possiamo pertanto definire il legal design come un’evoluzione della visualizzazione, intesa a rendere la comunicazione legale più semplice, più efficace e di più facile approccio. Si tratta quindi di un processo attraverso il quale il testo o la lingua parlata vengono chiariti dall’immagine, la cui funzione è quella di semplificare e integrare il linguaggio.[2]

Scopo principale è quello di prospettare una soluzione a quei problemi di trasparenza e comprensibilità dei testi a contenuto normativo, a partire dalla loro ideazione e progettazione. Ciò che il legal design si prefigge è pertanto la creazione e progettazione di testi orientati all’utente finale, un destinatario che ben può essere un profano della materia in questione. L’intento è quello di mantenere le persone al centro della progettazione e dell’erogazione dei servizi del mondo giuridico per renderlo più intuitivo, fruibile e sopratutto inclusivo. Tutti devono essere in grado di comprendere ciò che un operatore del diritto vuole comunicare: il linguaggio o l’impostazione di contenuti legali, applicando i criteri dettati dal legal design, saranno semplificati attraverso sintesi grafiche, infografiche, mappe e strumenti interattivi. Mediante l’utilizzo di tali strumenti da parte del designer l’utente finale potrà intraprendere un ragionamento logico, ponderato e completo che lo porterà a prendere delle decisioni consapevoli e in linea con quanto espresso dal testo. La semplificazione così operata non comporterà un sacrificio in termini di intenti e obiettivi del documento, ma al contrario le informazioni saranno percepite chiaramente e immediatamente eliminando, nei limiti del possibile, le incomprensioni e le difficoltà interpretative tipiche dell’ambito giuridico.

Il legal design è una disciplina che può inserirsi in differenti ambiti applicativi. Può infatti essere utilizzato nella progettazione di procedure e realizzazione di normative, nella produzione di materiale informativo a contenuto giuridico (come ad esempio le privacy policies o le condizioni generali di vendita) o ancora nella creazione dei design contracts.[3] Quest’ultimi rientrano nell’ambito dell’ambizioso progetto portato avanti dal team finlandese dell’avvocato Helena Haapio, il cui obiettivo è la creazione di una nuova generazione di contratti che pongono al centro il destinatario finale. Per ottenere questo risultato si ispirano a quattro criteri principali:

  1. linguaggio chiaro e semplice;
  2. design ed impatto visivo;
  3. facilitazione del rapporto utente-contenuto;
  4. organizzazione del contenuto in modo da raggiungere l’obiettivo prefissato. [4]

Infine in Svezia, nel 2009, i principi del Legal design sono stati applicati nella redazione di una sentenza con elementi visuali: due linee temporali per figurare la catena degli eventi, cruciale per comprendere i fatti di causa[5].

Alla base di questo metodo digitale di “fare diritto” vi è un approccio multidisciplinare e di confronto tra più professionisti, appartenenti non solo all’area giuridica ma anche a quella della comunicazione, del design vero e proprio e della programmazione informatica. La visual law racconta per immagini attuando una traduzione in forma grafica dei contenuti: dai primi tentativi di visualizzazione semplificata, con l’utilizzo di intestazioni in grassetto, sommari, diagrammi o tabelle volti a chiarire concetti complessi, si è giunti all’elaborazione di documenti contenenti icone, diagrammi di flusso, schematizzazioni, timelines e così via.

La presenza di un ambiente multidisciplinare sta al contempo creando e aprendo la strada a nuove figure professionali come quella del “Lawyer legal design”, una figura professionale che può essere ricoperta da un designer come da un avvocato. L’obiettivo è quello di costruire documenti chiari e fruibili per tutti i destinatari, anche attraverso l’utilizzo di immagini esplicative.

2.1. “Design Thinking”

Questo approccio è stato codificato nel 2000, dall’Università di Stanford (California), e si configura come modello progettuale volto alla risoluzione di problemi complessi, poco definiti o sconosciuti, attraverso visione e gestione creative. Uscito dagli studi di design, sta permeando vari settori: in particolar modo la consulenza direzionale, la trasformazione digitale e la progettazione di software e interfacce. Recentemente, come abbiamo visto, è stato prestato anche al mondo del diritto.

È un metodo centrato sulla conoscenza delle necessità umane, riformulando i problemi in modo da porre al centro “l’Uomo”. È strettamente collegato con quello che viene definito Human-centered design (HCD): “[…] is an approach to interactive systems development that aims to make systems usable and useful by focusing on the users, their needs and requirements, and by applying human factors/ergonomics, and usability knowledge and techniques. This approach enhances effectiveness and efficiency, improves human well-being, user satisfaction, accessibility and sustainability; and counteracts possible adverse effects of use on human health, safety and performance” ( ISO 9241-210:2019. E) [6].

Il processo di Design Thinking è un processo non lineare, articolato in cinque fasi[7]:

  1. Empathise

Acquisire una conoscenza profonda del problema che si vuole analizzare, creando relazioni con le persone interessate al fine di conoscere le loro esperienze e motivazioni consentendo così una maggiore percezione dei loro bisogni.

  1. Define (the Problem)

E’ la fase in cui si analizzano le osservazioni e le informazioni recuperate e si sintetizzano per definire il centro del problema identificato dal team.

  1. Ideate

Possiamo definire questa fase come “Think outside the box”, con la creazione di nuove soluzioni e punti di vista alternativi. Per fare questo si possono utilizzare varie tecniche di ideazione, come il brainstorming, tutte incentrate sulla stimolazione del pensiero libero espandendo l’ambito del problema.

  1. Prototype

Velocizza i processi di Design Thinking perché consente di comprendere in maniera rapida punti di forza e debolezza delle nuove soluzioni da implementare. Questo principio è strettamente correlato a quello di user contribution: nel Design Thinking non ci si limita a definire i passi per immaginare un’idea o una soluzione, ma si arriva alla concreta realizzazione di tale idea mediante il confezionamento di un prototipo. Tali prototipi possono concretizzarsi in roadmap di sviluppo o addirittura in veri e propri modelli funzionanti.

  1. Test

E’ la fase in cui entra in gioco l’utente finale (user contribution): la soluzione migliore identificata durante i precedenti passaggi è testata, facendo largo uso di ricerche etnografiche e test A/B.

 

Author/Copyright holder: Teo Yu Siang and Interaction Design Foundation. Copyright licence: CC BY-NC-SA 3.0

 

2.2. “The proactive law approach”

Il termine proactive è l’opposto di reattivo, indicando pertanto una tipologia di approccio alla legge basata su una visione ex-ante degli avvenimenti e non ex-post. Secondo la definizione indicata dal “Merriam -Webster Online Dictionary” la parola proactive fa riferimento ad un elemento anticipatorio, includendo azioni preventive per situazioni future (“acting in anticipation of future problems, needs, or changes”). O ancora, riprendendo la definizione del ” Dictionary.com. WordNet® 3.0. Princeton University”, proactive contiene elementi di controllo e di strategia per individuare cambiamenti idonei a rispondere a situazioni future, ancora prima che queste accadano[8].

Tradizionalmente la focalizzazione in campo giuridico è stata sul passato: le ricerche hanno avuto l’obiettivo di individuare fallimenti o lacune nel complesso panorama giuridico e legislativo. L’approccio proattivo è invece orientato verso il futuro, con lo scopo di prevenire le cause dei problemi, facilitando così un’interazione produttiva tra le parti del mondo del diritto.

Questo nuovo approccio nasce in Finlandia negli anni ‘90, ispirandosi a ciò che viene definito “Proactive Contracting”. Originariamente lo scopo era quello di fornire un quadro complessivo al fine di integrare le conoscenze giuridiche con l’aspetto pratico, tangibile e quotidiano per creare modelli di contratti sempre più efficienti.

L’obiettivo di questo nuovo approccio è quello di raggiungere un successo attraverso due aspetti: il primo è quello proattivo di promuovere e incoraggiare il corretto comportamento per raggiungere ciò che si desidera; il secondo è l’aspetto preventivo, mettendo in atto azioni e comportamenti tali da evitare che i rischi, strettamente legati all’aspetto legale, possano divenire concreti.

Utilizzando un’analogia con il campo della medicina preventiva, è possibile affermare che l’approccio della Proactive Law combina aspetti di promozione della salute con quelli della prevenzione: l’obiettivo è quello di aiutare individui e professionisti ad essere in una buona “legal health” e prevenire “malattie” di incertezza giuridica, controversie e contenziosi[9].

 

  1. Depotenziare i dark pattern. Implicazioni pratiche nell’ambito della privacy

Nel mondo digitale l’espressione “dark pattern” è un neologismo coniato dallo user experience designer Harry Brignull, per indicare tipologie di interfaccia di siti, app o di percorsi di interazione con un servizio, appositamente progettati per guidare l’utente verso comportamenti non realmente voluti[10].

Per la realizzazione di questi percorsi, che possono ad esempio omettere una parte di informazioni o al contrario somministrare un surplus di informazioni che rendono difficile la comprensione del contenuto all’interessato, interviene quella che viene definita User experience (UX): le interfacce vengono modificate e testate basandosi su analisi e studi di scienza cognitiva di abitudini e comportamenti dei futuri utenti.

È difatti possibile che il fornitore di un servizio sfrutti, per il proprio profitto, quelli che vengono definiti “bias cognitivi”[11]: errori semiautomatici del pensiero in cui il cervello umano incorre influenzando decisioni e giudizi. Tali bias vengono pertanto utilizzati in correlazione con i dark pattern al fine di spingere l’utente di un servizio verso decisioni o scelte solo apparentemente logiche ed obiettive, ma in realtà condizionate da fattori esterni.

Alcuni esempi saranno d’aiuto a comprendere meglio la correlazione bias cognitivo e dark pattern[12]:

  • pubblicizzare un prodotto o un servizio scontato, ma solo in quantità limitata o per un limitato periodo di tempo, mettendo in tal modo fretta all’utente/consumatore spingendolo ad un acquisto non ponderato;
  • un sito internet che facilita l’iscrizione ma rende molto lunga e difficoltosa la cancellazione, spingendo l’utente a desistere;
  • chiedere informazioni personali non necessarie, inducendo l’utente in errore in merito all’obbligatorietà reale.

Vediamo adesso, in particolare, ciò che accade nell’ambito della privacy. Non è infrequente entrare in contatto con dark pattern anche in relazione ai dati personali: molti siti o app, raccolgono ad esempio dei dati non necessari alla fruizione del servizio con l’ulteriore fine di profilare gli utenti o comunicare i dati a terze parti. La comunicazione di queste finalità può essere segnalata in un banner, a volte anche poco visibile, mentre l’accesso alle informazioni potrà essere reso lungo, complicato e poco intuitivo con la conseguente riduzione della tutela della propria privacy. O ancora, attraverso l’impiego di dark pattern volti a nascondere o eludere informazioni, l’utente non è in grado di avere un’effettiva consapevolezza e controllo dei dati personali.

Queste prassi si pongono in netto contrasto con le previsioni normative contenute nel nuovo GDPR (Regolamento europeo 2016/679). Il Regolamento prevede, unitamente ai principi di trasparenza e correttezza delle informazioni, il principio di limitazione del trattamento alle sole finalità dichiarate dal servizio e il principio di minimizzazione dei dati.

Le informazioni, sopratutto in contesto digitale, devono essere accessibili e di facile comprensione espresse in un linguaggio semplice e chiaro. L’art. 12 del GDPR, al comma 7, ammette la possibilità di utilizzare informazioni combinate con icone standardizzate, al fine di dare, in modo facilmente visibile e chiaramente leggibile, un quadro di insieme del trattamento previsto[13].

Secondo quanto affermato dal “Working Party art. 29”[14], che si è occupato di delineare le linee guida sulla trasparenza ai sensi del GDPR, occorre tutelare la parte debole che si trova in una posizione di asimmetria informativa. Per fare ciò è fondamentale che all’utente vengano fornite tutte le informazioni necessarie per una tutela efficace della sua privacy. Viene, ad esempio, chiarito che tali informazioni sulla privacy devono essere chiaramente differenziate dalle altre tipologie di informazione di tipo commerciale. O ancora è affermato che l’accesso online alle sezioni sulla privacy deve essere immediatamente attuabile ed evidente: il posizionamento di icone o la scelta di colori dell’interfaccia che renda poco intuibile o difficoltoso l’accesso a questa sezione (classico esempio di dark pattern) sono contrari alla normativa europea.

La trasparenza richiesta dal Regolamento non si limita a dover essere attutata in termini di linguaggio usato, ma necessita anche di un’attuazione concreta.

Nel mondo digitale, sempre più orientato alle immagini, contenitori di testi e significati, un approccio guidato dal legal design potrebbe sicuramente ampliare la portata della tutela intervenendo già nella fase della progettazione dell’interfaccia utente (UI), consentendo una reciproca interazione e garantendo una navigazione consapevole e dentro i confini delineati dal GDPR.

  1. Sviluppi nazionali ed internazionali

Il Legal Design nasce, come abbiamo visto, in Finlandia. Il suo sviluppo però non si arresta al territorio finlandese.

Negli Stati Uniti viene studiato e sviluppato alla Stanford Law School.

A New York, il legal design viene utilizzato per “raccontare” gli obblighi, gli adempimenti: lo Street vendor project, realizzato dal Center for Urban Pedagogy insieme ad un designer ha realizzato la Guida Vendor Power che rende accessibile il NY city code, permettendo ai negozianti (molti dei quali non di lingua inglese) di comprendere i propri doveri e i propri diritti.

In Canada, il legal design è pensato al servizio del settore pubblico: David Berman, esperto nel campo del graphic design e dell’information technology tenta questo nuovo approccio nel progetto Human Resources Development Canada and Justice Canada”.

In Italia, nonostante il nuovo metodo sia stato poco trattato dal punto di vista scientifico e divulgativo, possiamo indicare alcune esperienze attive.

Il legal designer del team Lexpert, Stefania Passera, ha dato vita alle Legal Design Jams. Ispirandosi alle jam session dei jazzisti degli anni ‘20, gli incontri sono “type of events that bring together designers, lawyers and like-minded innovators to give an extreme user-centered makeover to existing legal documents[15].

In ambito universitario, ruolo importante è rivestito dal centro di ricerca ReCEPL dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli che svolge attività di ricerca sul tema del legal design, con particolare riferimento alla contrattualistica, avvalendosi di varie metodologie multidisciplinari.

Questi ovviamente sono solo alcuni esempi delle realtà in Italia che si sono approcciate al legal design.

A livello internazionale ricordiamo il network denominato “The legal design alliance”, un vero e proprio laboratorio innovativo e promotore di iniziative, di scambio di documenti e prototipi. Degno di nota è il “The Legal Design Manifesto” creato con lo scopo di diffondere e comunicare questo metodo innovativo.

Ancora a livello internazionale troviamo la IACCM (International Association for Contracts & Commercial Management) che ha creato una raccolta di linee guida sul tema “Contract Design Pattern Library”.

 

5.Conclusioni
In conclusione, applicare la visione human-centered all’operato dei giuristi, nell’accezione più ampia del termine, permetterebbe di riportare il diritto, come scienza sociale, al servizio del suo destinatario finale, qualsiasi sia il suo livello di conoscenza in materia.

Ciò non comporta una perdita di intenti o di obiettivi, e nemmeno un impoverimento del suo corpus, ma al contrario una facilitazione nella comprensione e razionalizzazione degli stessi da parte sia degli esperti che del comune cittadino, portando ad un rafforzamento nel raggiungimento delle sue finalità. Più è chiaro il messaggio, più sarà per tutti facile comprenderlo ed applicarlo.

È in questo contesto che il legal design può supportare le conoscenze ed i servizi che l’ambito legale fornisce ai suoi utenti.

[1]             Maria Teresa De Luca, “Legal design, il diritto incontra la tecnologia”, in www.ilprogressonline.it, 2018.

[2]             Paola Fattori, Il Legal Design: un nuovo strumento per una comunicazione efficace, in www.animaimpresa.it, 24/10/2019.

[3]             Claudia Morelli, ”Legal design, cos’è e come può essere utilizzato dagli avvocati”,in www.altalex.com, 09/04/2018.

[4]               Per un maggiore approfondimento: http://www.legaltechdesign.com/2014/09/design-principles-for-legal-help-  websites/

[5]             Claudia Morelli, cit.

[6]             https://en.wikipedia.org/wiki/Human-centered_design

[7]             www.interaction-design.org

[8]             Opinion of the European Economic and Social Committee on ‘The proactive law approach: a further

        step towards better regulation at EU level’ – Official Journal of the European Union, 28/07/2009.

[9]             Ibidem

[10]           Andrea Afferni,”Dark pattern: cosa sono e il loro rapporto con il gdpr “, in www.cybersecurity360.it, 21/05/2020.

[11]           Vennero descritti per la prima volta nel 1974 da Tversky e Kahneman come distorsioni cognitive automatiche attraverso le quali la mente opera sui dati di partenza per arrivare a formulare pensieri, idee, giudizi, istruzioni e azioni, sfruttando il desiderio inconscio di ciascuno di essere obiettivo e logico.

[12]           Andrea Afferni, cit.

[13]           Massimiliano Nicotra, “Trasparenza web, attenti ai “dark pattern”: il ruolo del “legal design” per la tutela degli utenti, in www.agendadigitale.eu, 14/03/2019.

[14]           Organismo consultivo indipendente composto da un rappresentante per ogni autorità nazionale di vigilanza e protezione dei dati, dal Garante europeo per la protezione dei dati e da un rappresentante della Commissione europea. Il 25/05/2018 è stato sostituito dal Comitato Europeo per la protezione dei dati (EDPB).

[15]           Maria Teresa de Luca, cit.

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