Cassazione civile sezione lavoro sentenza 22 ottobre 2012 n 18119

Lavoro, contratto, interpretazione, regole ermeneutiche, principio gerarchico

Le regole legali di ermeneutica contrattuale sono esposte negli artt. 1362 – 1371 c.c., secondo un principio gerarchico: conseguenza immediata è che le norme cosiddette strettamente interpretative, dettate dagli artt. 1362 – 1365, precedono in detta operazione quelle cosiddette interpretative integrative, esposte dagli artt. 1366 – 1371 c.c., e ne escludono la concreta operatività quando la loro applicazione renda palese la comune volontà dei contraenti.

Avuto riguardo a questo principio di ordinazione gerarchica delle regole ermeneutiche, nel cui ambito il criterio primario è quello esposto dal primo comma dell’art. 1362 c.c., ne consegue ulteriormente che qualora il giudice del merito abbia ritenuto che il senso letterale delle espressioni impiegate dagli stipulanti riveli con chiarezza ed univocità la loro volontà comune, così che non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti, detta operazione deve ritenersi utilmente compiuta, anche senza che si sia fatto ricorso al criterio sussidiario dell’art. 1362 c.c., comma 2, che attribuisce rilevanza ermeneutica al comportamento delle parti successivo alla stipulazione. (Nella fattispecie la Corte territoriale aveva dato atto che il resistente, dirigente alle dipendenze della società Panelli s.r.l. con l’incarico di direttore commerciale, aveva compiuto atti di concorrenza nei confronti della Panelli s.r.l. stessa, ma aveva anche ritenuto tale condotta giustificata, posto che il tenore letterale dell’accordo con cui gli veniva affidata in gestione, da parte di quest’ultima, con pattuizione scritta, un’altra società allo scopo di integrare le retribuzioni contrattuali corrispostegli come dirigente, non prevedeva che il direttore non dovesse compiere attività concorrenziale nei confronti della società Panelli.) Riferimenti normativi: artt. 1362-1371 c.c.

 

Cassazione civile sezioni unite sentenza 03 aprile 2012 n 5942

Finanziamento pubblico, risarcimento, giudice amministrativo, Cassazione, ricorso

Il giudice amministrativo che, giudicando sulla domanda risarcitoria per equivalente proposta dal beneficiario di un finanziamento pubblico e valutando il concorso di colpa del danneggiato, ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., riduca il risarcimento dimezzandolo, non incorre nell’ipotesi di sconfinamento della giurisdizione di legittimità nella sfera amministrativa riservata alla P.A. né in quella di rifiuto della giurisdizione, con la conseguenza che non è ammesso il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi degli artt. 362 cod. proc. civ. e 111, comma 8, Cost. Riferimenti normativi: art. 111, co. 8 Cost.; art. 1227 c.c.; art. 362 c.p.c. Cfr. Cass. Civ., SS.UU., sentenza 23 dicembre 2008, n. 30254, Cass. Civ., SS.UU., sentenza 9 novembre 2011, n. 23302 e Cass. Civ., SS.UU., sentenza 17 febbraio 2012, n. 2312.

 

Cassazione civile sezione lavoro sentenza 31 ottobre 2012 n 18811

Guardia giurata, abbandono posto di lavoro, bisogno fisiologico, inerzia, rapina

L’abbandono del posto di lavoro da parte di dipendente cui siano affidate mansioni di custodia e sorveglianza configura – a differenza del momentaneo allontanamento dal posto predetto – una mancanza di rilevante gravità idonea, indipendentemente dall’effettiva produzione di un danno, a fare irrimediabilmente venir meno l’elemento fiduciario nel rapporto di lavoro ed a integrare la nozione di giusta causa di licenziamento, anche in difetto di corrispondente previsione del codice disciplinare, atteso che, nelle ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il potere di recesso del datore di lavoro deriva direttamente dagli artt. 1 e 3 L. n. 604 del 1966, norme esprimenti precetti di sufficiente determinatezza. (Nella specie, il dipendente, guardia giurata presso una banca, giustificava la sua condotta con la cogenza di un sopraggiunto bisogno fisiologico e dalla necessità di trattenersi ulteriormente fuori dalla postazione di lavoro per provvedere alla ricarica del telefono cellulare. La Corte invece riteneva che, sulla base di un elementare obbligo di diligenza collegato con le mansioni di guardia giurata rivestite, finalizzate alla sicurezza dell’ambiente di lavoro, il lavoratore fosse tenuto sia ad assicurarsi che fosse ripristinata l’operatività del sensore metal detector – che era stato disattivato su istanza del vigilante per consentirgli di entrare nei locali della banca con indosso la pistola di dotazione – sia ad avvertire qualche dipendente della banca del proprio allontanamento perché si procedesse alla immediata chiusura dell’accesso ai suddetti locali per i pochi minuti ordinariamente necessari per espletare le suddette incombenze.) Riferimenti normativi: artt. 1 e 3, L. n. 604/1966.

 

Cassazione civile sezione III sentenza 09 marzo 2012 n 3717

Pubblicità sanitaria, attività professionale, società, Ordini, autorizzazione. L’abrogazione contenuta nell’art. 2, lett. b), della legge 4 agosto 2006, n. 248) delle norme in materia di pubblicità sanitaria di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 175, prescinde dalla natura (individuale, associativa, societaria) dei soggetti esercenti la professione sanitaria, atteso che la stessa è attuativa dei principi comunitari volti a garantire la libertà di concorrenza e il corretto funzionamento del mercato e sarebbe illegittimo, oltre che irragionevole, limitarne la portata all’esercizio della professione in forma individuale, fermo restando che, all’interno del nuovo sistema normativo, nel quale la pubblicità non è soggetta a forme di preventiva autorizzazione, gli Ordini professionali, ai sensi dell’art. 2, lett. b), ultima parte, della legge n. 248 del 2006, hanno il potere di verifica, al fine dell’applicazione delle sanzioni disciplinari, della trasparenza e della veridicità del messaggio pubblicitario. Riferimenti normativi: artt. 1-5, L. 5 febbraio 1992, n. 175; art. 2, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con L. 4 agosto 2006, n. 248. Cass. Civ., SS.UU., sentenza 18 novembre 2010, n. 23287.

 

Cassazione civile sezione II sentenza 28 marzo 2012 n 4991

Condominio, edifici, legittimazione attiva, azione, singoli condomini, sussistenza

Nel condominio di edifici, che costituisce un ente di gestione, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, né quindi del potere di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti dell’amministratore stesso che vi abbia fatto acquiescenza. Riferimenti normativi: artt. 1102, 1117-1118, 2909 c.c.

 

Cassazione civile sezione II sentenza 15 novembre 2012 n 20004

Contratto di appalto. Denunzia dei gravi difetti dell’opera.

 

La denunzia dei gravi difetti dell’opera prevista dall’art. 1669 cod. civ. ha lo scopo, non diversamente da quella prevista dal precedente art. 1667, di porre il destinatario (appaltatore o soggetti concorrenti, quali il progettista ed il direttore dei lavori), nella condizione di compiere le opportune verifiche al fine di accertare e dimostrare che il pericolo di rovina non deriva da sua colpa. Per il proprietario dell’opera l’onere di denunzia scatta, pertanto, nel momento in cui egli acquista un ragionevole grado di conoscenza dell’entità del vizio costruttivo e della sua riferibilità causale, elementi che, ai fini della configurabilità della denunzia, deve rappresentare al destinatario. Essa si perfeziona a seguito ed in conseguenza della comunicazione al soggetto responsabile dei gravi difetti che si sono manifestati nella costruzione, senza necessità che in essa vengano indicate le sue cause specifiche, il cui addebito implicito alla controparte risiede nella stessa natura di obbligazione di risultato che questi ha assunto, e il cui accertamento tecnico in termini di certezza risulta incompatibile con la stessa esigenza perseguita dalla legge attraverso gli istituti della decadenza e della prescrizione, di consentire all’appaltatore di compiere gli accertamenti necessari per verificare l’esistenza effettiva dei difetti lamentati e la loro imputabilità. Cfr. Cass. n. 4622 del 2002; Cass. n. 1993 del 1999.

 

Cassazione civile sezione I sentenza 06 novembre 2012 n 19114

Separazione, addebito, tradimento, omosessuale, testimonianze de relato

Nell’addebitare la separazione, il giudice può tener conto anche delle testimonianze de relato, aventi ad oggetto la narrazione di fatti non appresi direttamente dal teste, ma a lui riferiti, non sussistendo violazione dei principi che regolano la prova e la sua valutazione in base ai principi stabiliti dagli artt. 115 e 116 c.p.c. (Nel caso di specie, i giudici del Tribunale e della Corte d’Appello ponevano a fondamento della propria decisione, circa l’addebito della separazione, le dichiarazioni dei testi a conoscenza del fatto che il marito aveva intrattenuto una relazione extraconiugale di tipo omosessuale e che questa era stata la causa determinante dell’intollerabilità della convivenza, decisioni confermate dalla Cassazione.) Riferimenti normativi: artt. 115-116 c.p.c.

Cassazione civile sezioni unte sentenza 31 ottobre 2012 n 18701

Avvocato, reato, patteggiamento, albo, radiazione, ininfluenza

Non sussiste alcun diritto ai benefici ottenuti con la sentenza di patteggiamento, per i legali che hanno commesso gravi illeciti disciplinari.

Infatti quelle fatte in sede disciplinare sono valutazioni attinenti a valori diversi dai beni protetti dalle norme applicate nel giudizio penale, e non possono pertanto essere censurate con il richiamo a quelle che, sotto profili e a effetti diversi, sono ricavabili dalle statuizioni della sentenza penale. (Nella fattispecie, il Consiglio nazionale forense ha correttamente valutato in piena autonomia il comportamento dell’incolpata, giudicandone l’offensività in relazione ai “principi supremi di giustizia e lealtà processuale”, alla “dignità, prestigio e decoro” della stessa professionista, e della collega coinvolta nella produzione in giudizio di una sentenza falsa, alla lealtà dovuta nei confronti degli altri professionisti – collega codifensore e difensore di controparte -, e al “decoro, dignità e correttezza” dell’intera classe professionale. Riferimenti normativi: art. 5 Cod. Deontologico; artt. 445, co. 1 bis e 653 c.p.p.

 

 

Tar Basilicata sentenza 4 ottobre 2012 n 456

Ordine di demolizione. Non opera solo quale sanzione rivolta contro il responsabile dell’abuso, ma legittimamente può essere irrogata nei confronti del proprietario dell’immobile, anche qualora non responsabile dell’abuso stante che essa è volta a garantire il ripristino della legalità violata

La demolizione, quale misura volta a garantire il ripristino della legalità violata, non opera solo quale sanzione rivolta contro il responsabile dell’abuso, ma legittimamente può essere irrogata nei confronti del proprietario dell’immobile, anche qualora non responsabile dell’abuso, proprio perché il proprietario in tale veste trovasi in una relazione giuridica qualificata con l’immobile oggetto di abuso, che gli consente di attivarsi onde renderlo conforme alla normativa urbanistica ed edilizia vigente. Sono legittime le sanzioni demolitorie nei confronti del proprietario dell’immobile abusivo, non avendo l’amministrazione alcun obbligo di compiere accertamenti giuridici circa l’esistenza di particolari rapporti interprivati, ma solo l’onere di individuare il proprietario catastale.

L’ordine di demolizione di opera abusiva, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione e correlativa esplicazione delle ragioni di interesse pubblico attuale e concreto alla demolizione né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, poiché non è ravvisabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il trascorrere del tempo non può legittimare . L’ordine di demolizione può essere rivolto anche all’usufruttuario il quale, in virtù della particolare ampiezza del diritto di cui è titolare, può essere equiparato al proprietario. Cfr. TAR Liguria, 18 maggio 2012, n. 705; TAR Campania, Napoli, 6 aprile 2011, n. 1945; TAR Lombardia, 9 marzo 2011, n. 644; T.A.R. Campania, Salerno, 15 febbraio 2006, n. 96; TAR Veneto, 9 dicembre 2003, n. 6064. Sulla seconda massima: Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 2011 n. 5758; Id., 12 aprile 2011, n. 2266; Id., sez. V, 31 marzo 2010, n. 1878; TAR Lombardia, Milano, 14 giugno 2012, n. 1656.

 

Cassazione civile sezione III sentenza 20 novembre 2012 n 20322

Assicurazione da responsabilità civile. Nel caso in cui l’assicurato sia responsabile in solido con altro soggetto, l’obbligo indennitario dell’assicuratore nei confronti dell’assicurato, nei limiti del massimale, non è riferibile alla sola quota di responsabilità dell’assicurato

In tema di assicurazione della responsabilità civile, nel caso in cui l’assicurato sia responsabile in solido con altro soggetto, l’obbligo indennitario dell’assicuratore nei confronti dell’assicurato, nei limiti del massimale, non è riferibile alla sola quota di responsabilità dell’assicurato, operante ai fini della ripartizione della responsabilità tra i condebitori solidali, ma concerne l’intera obbligazione dell’assicurato nei confronti del terzo danneggiato, ivi compresa quella relativa alle spese processuali cui l’assicurato, in solido con il coobbligato, venga condannato in favore del danneggiato vittorioso, solo in tal modo risultando attuata – attraverso la conformazione della garanzia sulla obbligazione dell’assicurato – la funzione del contratto di assicurazione della responsabilità civile di liberare il patrimonio dell’assicurato dall’obbligazione di risarcimento, ferma restando la surroga dell’assicuratore, ex art. 1203, n. 3 cod. civ., nel diritto di regresso dell’assicurato nei confronti del corresponsabile, coobbligato solidale.

Cassazione civile sezione III sentenza 20 novembre 2012 n 20315

Chi ottiene la cassazione con rinvio non può introdurre, invocando l’art. 389 c.p.c., un giudizio inteso ad ottenere la cancellazione dell’ipoteca e il risarcimento dei danni per la pretesa illegittimità dell’iscrizione

Qualora sia stata iscritta ipoteca in forza di una sentenza di primo grado e tale sentenza venga confermata in appello, la cassazione con rinvio della sentenza d’appello, non determinando alcun effetto sulla sentenza di primo grado, a norma del’art. 336, secondo comma, c.p.c, non incide in alcun modo sulla legittimità del’iscrizione ipotecaria. Ne deriva che chi ha ottenuto la cassazione con rinvio non può introdurre, invocando l’art. 389 c.p.c., un giudizio inteso ad ottenere la cancellazione dell’ipoteca e il risarcimento dei danni per la pretesa illegittimità dell’iscrizione e la relativa domanda dev’essere rigettata per inesistenza del diritto fatto valere.

 

Cassazione penale sezione V sentenza 22 novembre 2012 n 45677

Reato di bancarotta. La sottrazione dei beni va sempre provata in concreto Il passaggio di denaro tra i soci deve essere adeguatamente provato per contestare il reato di bancarotta

La Corte di cassazione, con la sentenza 45677/2012, ha ribaltato la sentenza con cui la Corte di appello di Roma ha ritenuto adeguatamente motivato il concorso degli imputati nel fallimento e quindi nella bancarotta di una società rilevando che la prova della loro responsabilità riposava sul fatto che nel patrimonio della predetta società non erano mai confluiti gli importi relativi ai canoni di locazione degli immobili che la società aveva acquisito nell’imminenza del fallimento, da altra società dagli stessi amministrata, e che erano successivamente stati locati, in favore delle loro mogli. Al contrario dalle scritture risultava un versamento all’amministratore, senza causale, per un importo minore che in assenza di giustificativi la Corte di appello aveva attribuito al pagamento dei canoni. Secondo la Corte territoriale dunque dietro l’operazione vi erano sempre i due amministratori mentre le mogli intestatarie erano mere prestanomi. Per la Cassazione però la sentenza non fornisce alcuna motivazione in ordine al fatto che la somma di 13mila euro sia stata in tutto o in parte effettivamente versata in favore dell’amministratore da parte del socio. Non solo il fatto che nulla risultasse dalle scritture contabili avrebbe dovuto indurre il giudice a indicare gli elementi obiettivi, idonei a dimostrare un pagamento in favore della persona fisica.

 

Cassazione civile sezione VI sentenza 22 novembre 2012 n 20637

Diritto d’asilo. Al giudice italiano compete la verifica delle affermazioni del richiedente

Il giudice non può respingere una domanda di protezione internazionale solo sulla base della “credibilità soggettiva” che attribuisce al richiedente ma è tenuto, in forza dell’obbligo di cooperazione istruttoria, a verificare officiosamente la verosimiglianza delle affermazioni fatte, per esempio, accertando la situazione reale nel Paese di provenienza. Lo chiarisce la Cassazione, sentenza 20637/2012, accogliendo il ricorso presentato dalla difesa di un cittadino turco di etnia curda, Izzet T. che aveva sostenuto di essere stato bollato come vicino ai terroristi dopo un’intervista ad un quotidiano turco sulla organizzazione PKK, e da lì fatto oggetto della richiesta da parte della locale questura di un ordine di arresto alla procura. Per la Corte di appello di Milano però tali dichiarazioni non erano suffragate da indizi probatori sufficienti.La Sesta sezione civile della Cassazione però ha osservato che “ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato politico, l’omesso accoglimento dell’istanza di acquisizione dell’ordine di arresto e la mancata attivazione di una formale richiesta rivolta all’autorità competente nel paese d’origine, costituisce una palese violazione” del Dlgs 251/2007 e Dlgs 25/2008. Insomma, per la Suprema corte sarebbe stato il giudice italiano a doversi attivare per verificare le condizioni degli aderenti ai partiti filo curdi nel paese di origine sotto il profilo della libera manifestazione del dissenso politico. È dunque un errata applicazione del principio dell’onus probandi quello che ha portato a rigettare la richiesta di protezione sulla base del fatto che il richiedente non avrebbe dimostrato la sussistenza di situazioni che impediscono l’esercizio di diritti fondamentali.

 

Corte costituzionale sentenza 22 novembre 2012 n 257

Anche le libere professioniste hanno diritto a cinque mesi di maternità in caso di adozione

La corte costituzione con la sentenza 257 del 22 novembre 2012 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 64, comma 2, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53) nella parte in cui, relativamente alle lavoratrici iscritte alla gestione separata che abbiano adottato o avuto in affidamento preadottivo un minore, prevede l’indennità di maternità per un periodo di tre mesi anziché di cinque mesi.

I giudici delle leggi ricordano che “gli istituti nati a salvaguardia della maternità non hanno più, come in passato, il fine precipuo ed esclusivo di protezione della donna, ma sono destinati anche alla garanzia del preminente interesse del minore, che va tutelato non soltanto per quanto attiene ai bisogni più propriamente fisiologici ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo, collegate allo sviluppo della sua personalità (sentenze n. 385 del 2005 e n. 179 del 1993)”.  Un principio che vale ancora di più in caso di adozione o di affidamento preadottivo. “In questo quadro – sottolinea la sentenza – , non si giustifica, ed appare anzi manifestamente irragionevole, che, con riferimento alla stessa categoria dei genitori adottivi, mentre alle lavoratrici dipendenti, che abbiano adottato o avuto in affidamento preadottivo un minore, spetta un congedo di maternità (con relativa indennità) per un periodo massimo di cinque mesi, sia in caso di adozione (o affidamento preadottivo) nazionale che internazionale (art. 26, commi 1, 2 e 3 del d.lgs. n. 151 del 2001), alle lavoratrici iscritte alla gestione separata sia riconosciuta un’indennità di maternità per soli tre mesi”.

 

Corte costituzionale sentenza 22 novembre 2012 n 258

E’ incostituzionale il comma 4 dell’articolo 26 del Dpr 602/1973 dove prevede che anche in ipotesi di irreperibilità relativa la notifica si consideri eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del Comune

Secondo la sentenza n. 258/2012 della Corte, è incostituzionale il comma 4 dell’articolo 26 del Dpr 602/1973 dove prevede che anche in ipotesi di irreperibilità relativa (articolo 140 del Cpc), la notifica si consideri eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del Comune. Quest’ultima procedura – si legge nella sentenza – deve essere relegata alle sole ipotesi di mancanza, nel Comune, dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario.

 

Cassazione penale sezione I sentenza 20 aprile 2012 n 15251

Reati transnazionali, pubblico ministero, attività investigativa, limiti, esclusione

 

In tema di reati transnazionali, i limiti posti dall’art. 12 della l. n. 146 del 2006 allo svolgimento degli accertamenti da parte del P.M. si riferiscono esclusivamente all’attività integrativa di indagine (ex art. 430 cod. proc. pen.) funzionale alla formulazione delle richieste al giudice del dibattimento in vista dell’eventuale adozione della confisca per equivalente ex art. 11 della medesima l. n. 146 o di una misura ablativa ex art. 12 sexies del D.L. n. 306 del 1992, conv. in l. n. 356 del 1992, e non, invece, alle attività svolte al di fuori del giudizio di cognizione. (Nella specie, la Corte ha ritenuto legittima l’attività investigativa svolta dal P.M., anche senza il rispetto dei limiti di cui all’art. 12 della l. 146 del 2006, finalizzata a richiedere al giudice dell’esecuzione un provvedimento di confisca ex art. 12 sexies del D.L. n. 306 del 1992, conv. in l. n. 356 del 1992).

Riferimenti normativi: L. 8 luglio 1992, n. 356; artt. 11-12, L. 16 marzo 2006, n. 146; art. 430 c.p.p.; art. 12 sexies, D.L. 8 giugno 1992, n. 306.

 

Cassazione penale sezione III sentenza 21 marzo 2012 n 10972

Misure cautelari reali, sequestro preventivo, reiterazione, ne bis in idem

Il principio del “ne bis in idem” non è ostativo alla reiterazione di un sequestro preventivo su beni in relazione ai quali il vincolo reale era già esistente ed il nuovo provvedimento miri semplicemente a confermare o a sostituire il precedente sulla base di un titolo di reato diverso da quello inizialmente ipotizzato. Riferimenti normativi: artt. 321 e 649 c.p.p.

Cfr. Cass. Pen., sez. III, sentenza 24 novembre 2008, n. 43806.

 

Cassazione penale sezione V sentenza 16 aprile 2012 n 14348

Difensore di fiducia, udienza, rinuncia, difensore d’ufficio, nomina, effetti

Nel caso in cui il difensore di fiducia che abbia ricevuto l’avviso per l’udienza rinunzi all’incarico prima della sua celebrazione, il giudice può provvedere alla nomina di un difensore d’ufficio all’udienza stessa, atteso che la suddetta rinunzia non ha effetto immediato, essendo il difensore di fiducia rinunciante ancora onerato della difesa dell’imputato fino all’intervento di tale nomina. Riferimenti normativi: artt. 96-97 e 107 c.p.p. Cfr. Cass. Pen., sez. V, sentenza 5 aprile 2011, n. 13660.

Cassazione penale sezione II sentenza 17 aprile 2012 n 14508

Dibattimento, complessità, misure cautelari, termine, sospensione, giudizio

Il giudizio di complessità del dibattimento, ex art. 304 comma secondo cod. proc. pen. – che legittima la sospensione dei termini di custodia cautelare – ha necessariamente carattere prognostico e, pertanto, deve essere formulato in ragione dell’attività da compiere e non già con riguardo all’attività espletata ed esaurita. (Nella specie trattavasi di giudizio abbreviato non condizionato a carico di cinque imputati in cui all’udienza del 21 ottobre 2011 era stato disposto il rinvio al 13 dicembre per eventuali repliche e la pronuncia della sentenza, mentre il provvedimento di sospensione dei termini per la complessità del dibattimento era stato disposto il 25 ottobre 2011, con la conseguenza, afferma la S.C., che il “tribunale non poteva formulare alcun giudizio prognostico di particolare complessità di un dibattimento che si era ormai esaurito il precedente giorno 21”). Riferimenti normativi: art. 304, co. 2 c.p.p. Cfr.Cass. Pen., sez. VI, sentenza 15 luglio 2003, n. 29537.

 

Cassazione civile sezione I sentenza 11 settembre 2012 n 15162

L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati

L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati, prescindendo da qualsivoglia domanda e, inoltre, risultano irrilevanti i contributi eventualmente corrisposti da terzi non giuridicamente obbligati. Ai fini dell’an e del quantum del mantenimento del figlio minore, inoltre, sono irrilevanti i contributi eventualmente corrisposti da terzi non giuridicamente vincolati.

 

Cassazione civile sezione III sentenza 06 novembre 2012 n 19158

Scuola, sorveglianza, obbligo, alunno, infortunio, legittimazione passiva, Ministero

Gli obblighi di sorveglianza e di tutela dell’istituto scolastico scattano solo se l’alunno si trovi all’interno dello stesso.

In ogni caso, legittimato passivo nell’azione volta a far valere il diritto al risarcimento del danno è solo il Ministero della Pubblica Istruzione in quanto l’art. 61, co. 2, della L. 11 luglio 1980, n. 312, nel prevedere la sostituzione dell’Amministrazione, salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave, nelle responsabilità civili derivanti da iniziative giudiziarie promosse da terzi, esclude in radice la possibilità che gli insegnanti statali siano direttamente convenuti nelle azioni di risarcimento danni da culpa in vigilando, quale che sia il titolo, contrattuale o extracontrattuale, dell’azione. Riferimenti normativi: art. 1228 c.c.; art. 61, co. 2, L. 11 luglio 1980, n. 312.

 

Cassazione civile sezione tributaria sentenza 12 ottobre 2012 n 17534

Accertamento induttivo, parametri, malattia fisica, fatti concreti, prova, inidoneità

In tema di accertamento delle imposte sui redditi, i parametri previsti dall’art. 3, co. da 181 a 187, della L. n. 549/1995 e dal successivo d.P.C.M. 29 gennaio 1996 – non costituendo fatto concreto noto e certo, specificamente inerente al contribuente, suscettibile di evidenziare in termini di rilevante probabilità l’entità del suo reddito, ma rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni – rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo ex art. 39, co. 1, lett. d) d.P.R. n. 600/1973, ma, ove siano contestati sulla base di allegazioni specifiche, sono inidonei a supportare l’accertamento medesimo, se non confortati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell’impresa che devono essere provati e non semplicemente enunciati nella motivazione dell’accertamento. Riferimenti normativi: art. 3, co. 181-187, L. n. 549/1995; d.P.C.M. 29 gennaio 1996; art. 39, co. 1, lett. d), d.P.R. n. 600/1973. Cfr. Cass. Civ., SS.UU., sentenza 18 dicembre 2009, n. 26635.

 

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