Pubblichiamo di seguito il miglior tema di civile, valutato 14

Autore: Domenico Arcuri

I patti nei rapporti di fatto tra le coppie dello stesso sesso: limiti di rilevanza e di meritevolezza. Profili di tutela.

La questione posta è inerente ad una tematica molto attuale che involge una pluralità di problemi giuridici. Il primo quesito, di ordine generale e che la questione sottintende, è se vi sia uguaglianza di trattamento normativo tra le persone conviventi appartenenti allo stesso sesso e quelle eterosessuali o se piuttosto vi sia una discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale. Si chiede se gli accordi stipulati dalle coppie omosessuali, che abbiano costituito una “famiglia di fatto”, siano o meno rilevanti per l’ordinamento giuridico e, nel caso di risposta affermativa, se tali pattuizioni incontrino limiti di meritevolezza. Si chiede, quindi, cosa può essere oggetto di accordo e cosa invece ne deve essere necessariamente lasciato fuori tanto che, nel caso in cui si inserisca nel patto, questo sarebbe non meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Infine: quali rimedi può attivare una delle parti dell’accordo nei confronti di quella inadempiente?

Tali domande ne portano poi altre. Se infatti il termine “patto” rimanda essenzialmente alla disciplina delle obbligazioni e dei contratti prevista dal libro quarto del codice civile, quella di patto stipulato da una coppia rimanda invece al libro primo, recante il titolo “delle persone e della famiglia”, ove sono disciplinati, appunto, i rapporti familiari.

Il codice civile, però, operando una sovrapposizione del termine matrimonio e quello di famiglia, esclude vi possano essere tipi di famiglia non fondati sul matrimonio cui dare giuridica rilevanza e tutela e non contempla affatto la possibilità per le persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio. Ciò che viene tutelato e riconosciuto dal codice è, dunque, solo la famiglia fondata sul matrimonio e non la famiglia, tanto che sarebbe più corretto che lo stesso recasse il titolo “delle persone e della famiglia fondata sul matrimonio.”. Ed è sempre il matrimonio e non la famiglia che trova riconoscimento costituzionale agli artt. 29, 30 e 31.

Tuttavia il termine famiglia e quello di matrimonio non coincidono affatto. La famiglia è infatti in genere costituita da un gruppo di persone, legate da vincoli affettivi, che vivono stabilmente ed in maniera duratura insieme; il matrimonio invece è un negozio giuridico bilaterale dal quale originano diritti e obblighi per i soggetti che lo contraggono così come stabilito dall’art. 143 e seguenti del codice civile dal quale nasce una “presunzione di famiglia”.

Tale impostazione giuridica e l’uso dei termini matrimonio e famiglia come sinonimi derivano essenzialmente dalle radici storiche dello Stato italiano – ma il discorso potrebbe estendersi a tutti i paesi ove forte è stata l’influenza religiosa – che da un certo momento storico in poi ha cominciato ad aborrire il “concubinato” ed i rapporti omosessuali, condannandoli duramente e considerandoli irrilevanti sul piano giuridico. Significativo al riguardo è il fatto che della categoria della inesistenza e quindi irrilevanza di determinati atti o rapporti giuridici ne parlarono per primi gli studiosi di diritto canonico del Medioevo. Essi fecero riferimento proprio al tema del matrimonio tra persone dello stesso sesso quale esempio di negozio inesistente, affermando che tale atto era così grave ed avulso dall’ordinamento tanto che non sarebbe stato possibile nemmeno riconoscergli la parvenza di un atto rilevante.

La distinzione tra atto nullo ed atto inesistente e l’aver ricondotto i giuristi medievali alla seconda categoria il matrimonio tra omosessuali non è di poca importanza sol che si consideri il fatto che dottrina di epoca successiva, dibattendo sulle categorie della inesistenza e della nullità, ha affermato che mentre l’atto nullo ha comunque rilevanza per l’ordinamento giuridico poiché viene comunque riconosciuto e qualificato e sarebbe in grado di produrre effetti, ciò non sarebbe possibile per l’atto inesistente, la cui difformità rispetto all’ordinamento è talmente grave da non poter nemmeno essere qualificato e riconosciuto.

Tale indirizzo ideologico impose quindi l’idea che al di fuori del matrimonio, due persone legate affettivamente e sentimentalmente, dello stesso sesso o diverso, stabilmente conviventi, non potessero disciplinare tale rapporto poiché nessuna norma lo contemplava e che anzi il rapporto era irrilevante ( o rilevante penalmente).  Tale disparità di trattamento tra le coppie coniugate e quelle non coniugate è maggiormente evidente per le coppie omosessuali che, per le motivazioni cui si farà cenno,a differenza di quelle eterosessuali, non sono nemmeno ammesse a contrarre matrimonio. L’ ordinamento, infatti, stigmatizza in negativo l’omosessualità discriminando i soggetti laddove non li ammette al matrimonio; è come se gli omosessuali commettessero un illecito da sanzionare o si ponessero deliberatamente contro la legge quando, viceversa, l’orientamento sessuale di ogni persona è connaturato e non frutto di scelta, ed è inoltre una tendenza non meno naturale rispetto a quella eterosessuale.

La coincidenza dei termini matrimonio e famiglia è però venuta meno con l’evolversi della società.

La realtà ha reso cioè evidente ciò che era ovvio: da una parte che anche persone non unite dal vincolo matrimoniale, compresi gli omosessuali, sono in grado di convivere stabilmente, condividere affetto, sostenersi moralmente e materialmente, e cioè sono in grado di realizzare una “communio omnis vitae”, e dall’altra che, invece, numerosi coniugi erano costretti a rimanere uniti nel matrimonio quando di fatto era già venuto meno l’affectio coniugalis. Se questa ultima circostanza imponeva la legge sul divorzio, la prima imponeva e impone una legge che attribuisca diritti e tutele a quelle coppie che di fatto siano legate da vincoli affettivi che non vogliano sposarsi o che non possano sposarsi perchè omosessuali.

Nel momento in cui numerose coppie hanno cominciato a convivere “come se fossero sposate” e la loro convivenza accettata, non più condannata quale “concubinato”, ed ancora dal momento in cui gli omosessuali, secondo un criterio di razionalità, sono considerati anche da leggi medico-scientifiche persone normali ed è garantita loro la possibilità di convivere, allora il concetto di famiglia si è definitivamente emancipato dal concetto di matrimonio. La famiglia non è necessariamente il matrimonio e viceversa il matrimonio non è necessariamente famiglia. Tanto che laddove venga meno la famiglia, intesa questa quale formazione sociale in cui ogni individuo deve poter dare e ricevere affetto, assistenza morale e materiale, esprimere pienamente se stesso e sviluppare la propria personalità, allora anche il vincolo matrimoniale può essere sciolto. Risulta   pertanto chiaro che ciò che l’ordinamento tutela è la persona all’interno della famiglia quale formazione sociale e non più- o meglio non solo- il vincolo giuridico matrimoniale cui hanno aderito due soggetti. Viene in sostanza data preponderanza all’art. 2 piuttosto che all’art. 29 della Costituzione; tale preponderanza si rinviene anche nelle norme che disciplinano la separazione ed il divorzio.

Corollario di quanto appena affermato è di conseguenza che laddove vi sia una coppia che convive in maniera stabile e duratura, i cui membri siano legati affettivamente e si offrano reciprocamente assistenza morale e materiale, viene ad esistenza quella formazione sociale che prende il nome di famiglia i cui membri non potrebbero ricevere una tutela deteriore rispetto ai soggetti uniti in matrimonio pena la violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Cost..

D’altra parte il legame affettivo formalizzato nel matrimonio gode di uno statuto speciale. Mutuando impropriamente i termini relativi al contratto, si può dire che le norme dedicate al matrimonio descrivono già compiutamente : la fase precontrattuale, il momento in cui nasce il vincolo, la patologia del negozio, gli obblighi ed i diritti dei coniugi nella fase esecutiva del rapporto, la risoluzione e le conseguenze in caso di inadempimento degli obblighi.

Orbene, soprattutto per ciò che concerne i diritti e i doveri dei coniugi, si nota che tramite il negozio matrimoniale i soggetti possono disporre di interessi inerenti diritti della personalità, limitandoli e potendo essere sanzionato  il coniuge nel  caso di violazione del patto con l’addebito della separazione. Ci si riferisce in particolare agli obblighi previsti dall’art. 143 del codice civile; l’addebito, sempre a voler mutuare impropriamente termini relativi al contratto, svolge una funzione risarcitoria-sanzionatoria derivante dall’inadempimento del patto matrimoniale. Lo statuto matrimoniale comprende poi diverse norme, tra le quali spiccano quelle relative al regime patrimoniale – art. 159 e seguenti del codice civile- che discendono automaticamente dal matrimonio.

Non vi è, invece, una disciplina analoga che regoli compiutamente un “patto di convivenza” e la coppia che voglia costituire un rapporto giuridico che sia vincolante deve ricorrere, di volta in volta, alla disciplina delle obbligazioni e dei contratti con tutto ciò che ne consegue e con tutti i limiti prescritti dall’ordinamento per tali tipi di negozi.

Le situazioni che possono verificarsi sono essenzialmente tre: a) quella della coppia coniugata alla quale si applicano le norme sulla famiglia fondata sul matrimonio; b) quella della coppia eterosessuale che non voglia sposarsi che può regolare di volta in volta alcuni aspetti della convivenza ricorrendo alle norme che disciplinano le obbligazioni ed i contratti; c) quella della coppia omosessuale che non può sposarsi e che però non deve subire un trattamento discriminatorio rispetto alla coppia eterosessuale.

Non è mancata giurisprudenza di merito che ha ravvisato nelle norme relative allo statuto matrimoniale violazione di principi costituzionali e ne ha sollevato relativa questione innanzi al Giudice delle leggi. Infatti gli articoli del codice civile sul matrimonio escludendo, più o meno esplicitamente, la possibilità per gli omosessuali di sposarsi sarebbero costituzionalmente illegittimi perchè contrari agli artt. 2, 3, 10, 13, 29 e 117 Cost.. In altri termini non si riconoscerebbe agli omosessuali il diritto fondamentale di costituire una famiglia (art. 2 Cost) con disparità di trattamento rispetto alla coppia eterosessuale (art. 3 Cost); ciò lederebbe la libertà degli omosessuali (art. 13 Cost) di costituire una famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost) ed infine vi sarebbe violazione degli artt. 10 e 117 della Costituzione poiché le stesse norme sarebbero contrarie ai principi della CEDU ( artt.8 e 14 ) ed alle norme comunitarie ( Trattato di Nizza).

La questione di legittimità costituzionale veniva però rigettata dalla Corte. In particolare non era possibile ricomprendere nell’art. 29 della Costituzione il matrimonio tra omosessuali di modo che gli stessi potessero godere dello statuto matrimoniale previsto dal codice civile e ciò perchè tale operazione, più che una interpretazione, avrebbe costituito la creazione di una nuova norma e la Corte costituzionale non può sostituirsi al Legislatore. E’ noto,infatti, che è quest’ultimo l’unico soggetto legittimato ad emanare leggi secondo le stesse disposizioni costituzionali.

Come accennato, però, l’evoluzione sociale ha consentito di scindere il concetto di matrimonio da quello di famiglia ed una coppia che conviva in maniera stabile e duratura costituisce fenomeno rilevante sul piano giuridico. E’ una formazione sociale (art. 2 Cost.) i cui membri devono poter godere di diritti e doveri. Il “rapporto coniugale di fatto”, inoltre, non potrebbe essere trattato in maniera deteriore rispetto al rapporto coniugale pena la violazione dell’art. 3 Cost. e, per quello che qui maggiormente interessa, una famiglia di fatto costituita da omosessuali, non può essere discriminata rispetto ad una famiglia di fatto costituita da eterosessuali perchè ciò sarebbe contrastante con il medesimo articolo, oltre che con le norme succitate.

In estrema sintesi quindi si può affermare che, nonostante gli omosessuali non possano, secondo le disposizioni vigenti non superabili nemmeno da diversa lettura costituzionale, contrarre matrimonio, gli stessi, laddove costituiscano una famiglia di fatto, devono poter disciplinare il loro rapporto alla stregua di una famiglia di fatto costituita da eterosessuali. Inoltre, anche de iure condendo, il Legislatore non potrebbe emanare norme diverse per disciplinare la convivenza tra eterosessuali e quella tra omosessuali laddove le situazioni appaiano uguali.

Un diverso trattamento costituirebbe infatti violazione della Costituzione, del diritto comunitario e della CEDU.

Se è vero, pertanto, che in Italia la coppia omossessuale non può unirsi in matrimonio, è altrettanto vero che la stessa deve essere “trattata” alla stregua della coppia (rectius: della famiglia di fatto) eterosessuale.

La giurisprudenza di legittimità è intervenuta recentemente in merito ed ha confermato , in sostanza, ciò che aveva già statuito la Corte costituzionale e cioè: la coppia omosessuale non è ammessa a contrarre matrimonio nè ha la possibilità di registrare in Italia il matrimonio contratto nei paesi europei ove ciò è permesso; ciò non costituisce violazione della Costituzione perchè è nella discrezionalità del Legislatore disciplinare il matrimonio e tale scelta non può essere sostituita da pronunce giurisprudenziali pena lo straripamento del potere giudiziario in quello legislativo; le coppie omosessuali devono però essere trattate alla stregua delle coppie eterosessuali e laddove convivano in maniera stabile e duratura (costituiscano una famiglia di fatto rilevante ex. art. 2 Cost.) possono disciplinare il loro rapporto allo stesso modo delle coppie eterosessuali non sposate.

Si può concludere affermando che, nel nostro Stato, nulla è cambiato in ordine alla qualificazione del matrimonio tra omosessuali. L’ atto continua infatti ad essere sostanzialmente inesistente, così come era considerato dai giuristi medievali. Ciò che invece possono e devono essere considerati rilevanti per il nostro ordinamento giuridico sono i patti di convivenza stipulati dalle coppie omosessuali.

Tralasciando la filiazione e l’adozione che solleverebbero numerosi altri problemi non propriamente attinenti alla questione posta, si potrebbe affermare che le coppie omosessuali, che abbiano costituito una famiglia di fatto, possano stipulare patti di convivenza similmente ai conviventi more uxorio.

Tali accordi, però, in mancanza di disciplina specifica, sono disciplinati dalle norme riguardanti le obbligazioni ed i contratti.

L’art. 1322 del codice civile recita che “ le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge” e che possano concludere contratti anche atipici purchè siano idonei a realizzare interessi meritevoli di tutela.

Orbene, nei limiti delle norme imperative, dell’ordine pubblico e del buon costume, ed ancora di quelli formali e sostanziali, le coppie omosessuali possono stipulare qualsiasi negozio atto a bilanciare gli interessi reciproci tutelandosi durante la convivenza e per il tempo in cui essa sia cessata.

Le norme di riferimento sono, come si è detto, quelle che riguardano le obbligazioni ed i contratti che pongono però limiti alla autonomia privata; limiti che rendono i patti di convivenza affatto diversi dal “patto di matrimonio.”.

Difatti non possono costituire oggetto di patto i diritti indisponibili quali quelli concernenti la limitazione di diritti della personalità, pena la nullità del contratto per illiceità della causa o dell’oggetto. In particolare il patto non potrà prevedere alcun obbligo di fedeltà o di prestazioni di natura sessuale ecc., così come invece sono previsti direttamente o indirettamente nelle norme relative al matrimonio.

Da tutto quanto suesposto ne consegue che le tutele previste a favore del convivente sono tutte quelle previste in materia di obbligazioni e contratti, comprese le impugnative contrattuali ed il risarcimento del danno.

 

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