Avv. Giuliana Degl’Innocenti

 

Preliminarmente mi si conceda di osservare come l’esercizio legittimo del diritto di recesso del conduttore per gravi motivi oppure – se contemplato nel dettato contrattuale a prescindere da essi – comporta il solo venir meno del rapporto negoziale; pertanto non esime il conduttore dall’obbligo di corrispondere i canoni maturati durante il semestre di preavviso.

Concentrerò la presente trattazione della tematica in oggetto, appunto, sull’analisi delle conseguenze giuridiche relative al mancato versamento dei canoni di locazione di immobili durante il lockdown da parte delle imprese che hanno dovuto forzatamente sospendere la propria attività (con azzeramento del proprio fatturato) in conseguenza della normativa d’emergenza adottata dal Governo per fronteggiare la pandemia, nonché sulle conseguenze riguardanti la mancata corresponsione delle rate locatizie da parte dei conduttori di immobili non commerciali in costanza di confinamento.

Significative pronunce di merito sulla questione:

 

Esaminando le misure urgenti emanate nella fase d’emergenza, si nota in via generale un contegno cauto e prudenziale da parte del Giudicante che, quasi in attesa della definizione di una normativa dedicata, in continua e convulsa evoluzione, oppure del corroborarsi di quella esistente, evita di opzionare scelte potenzialmente pregiudizievoli, rinviando la decisione alla avvenuta integrazione del contraddittorio.

A titolo di esempio,  citerò quanto stabilito dal Tribunale di Venezia con provvedimento emanato il 14 aprile 2020 in un procedimento cautelare ex articolo 700 c.p.c., avviato dal conduttore di un immobile adibito ad uso commerciale che aveva avanzato richiesta di adozione di una misura urgente per precludere al locatore l’escussione della fideiussione rilasciata a garanzia del pagamento dei canoni. Il Giudice ritenendo possibile l’approvazione di un’ulteriore disciplina normativa emergenziale, ha disposto che la banca non pagasse quanto richiesto dal beneficiario della fideiussione.

Sul medesimo versante si inquadra pure  il decreto emesso dal Tribunale di Bologna il 12 maggio 2020, con il quale anche in virtù della pendenza di trattative tra i contendenti, è stato disposto che il locatore di un locale ad uso commerciale non mettesse all’incasso gli assegni bancari, ricevuti dall’inquilino posti a garanzia dei canoni non corrisposti per i mesi di aprile-luglio 2020, allo scopo di scongiurare il verificarsi delle conseguenze pregiudizievoli per il debitore in caso di incasso dei titoli e mancato pagamento per difetto di provvista (segnalazione al CAI e de plano divieto di sottoscrivere nuovi assegni, divieto di emissione dei ridetti titoli di credito e iscrizione del protesto da parte del pubblico ufficiale).

Evidenzio altresì, come con ordinanza del 29 maggio 2020 emanata all’interno di un procedimento cautelare ex articolo 700 c.p.c. avviato dal conduttore di un ramo d’azienda, il Tribunale di Roma, nell’accertare che “non vi è alcuna norma di carattere generale che preveda una sospensione dell’obbligo di corrispondere i canoni di locazione” impone di prendere atto che “il legislatore ha inteso, in relazione a talune fattispecie, di assumere iniziative di agevolazione ma nulla ha voluto disporre in ordine al quantum ed al quando del pagamento dei canoni locatizi commerciali o di affitto di azienda”, stabilendo così l’impossibilità di applicare “alcuna norma sospensiva dell’obbligo di pagamento di canoni di affitto di azienda tratta dalla disciplina emergenziale ad oggi adottata, per la ragione – tanto semplice quanto decisiva – che una norma di tal fatta non esiste” e, dunque, l’impossibilità di assumere una misura cautelare di semplice differimento dei termini negoziali di corresponsione delle rate di affitto.

Secondo la Giustizia adita, il richiamo al principio di buona fede sancito nelle disposizioni degli articoli 1175 e 1375 Codice Civile, pur rilevante, non convince, in quanto, se da un lato questa regola si traduce nel dovere di ogni contraente di soddidfare l’interesse della controparte, imponendo una condotta che, al di là da precisi obblighi negoziali e dal dovere del neminem laedere, sia in grado di tutelare gli interessi dell’altra, non può cagionare un deciso mutamento delle obbligazioni principali del contratto, appunto sia nelle tempistiche sia nella misura di versamento del canone, in quanto “rischierebbe di minare la possibilità, per le parti, di confidare nella necessaria stabilità degli effetti del negozio (quanto meno, i principali) nei termini in cui l’autonomia contrattuale li ha determinati. Allo stesso modo il Tribunale di Roma, rileva in una fattispecie analoga alla precedente che non potrebbe applicarsi l’articolo 1467 Codice Civile riguardante l’eccessiva onerosità sopravvenuta, essendo strumento incompatibile con la conservazione del dettato negoziale e capace soltanto di determinarne lo scioglimento.

La ricordata Giustizia di merito, infatti, interpretando le norme in chiave di ricostruzione dell’equilibrio contrattuale e di conservazione del vincolo obbligatorio, fa riferimento invece allo strumento dell’impossibilità temporanea, applicando in combinato disposto l’articolo 1256 Codice Civile (disposizione generale in materia di obbligazioni) e l’articolo 1464 Codice Civile (disposizione speciale in tema di contratti a prestazioni corrispettive)  sancendo che “nel caso di specie ricorre una (del tutto peculiare) ipotesi di impossibilità della prestazione della resistente allo stesso tempo parziale (perché la prestazione della resistente è divenuta impossibile quanto all’obbligo di consentire all’affittuario, nei locali aziendali, l’esercizio del diritto a svolgere attività di vendita al dettaglio, ma è rimasta possibile, ricevibile ed utilizzata quanto alla concessione del diritto di uso dei locali, e quindi nella più limitata funzione di fruizione del negozio quale magazzino e deposito merci) e temporanea (perché l’inutilizzabilità del ramo di azienda per la vendita al dettaglio è stata ab origine limitata nel tempo, per poi venir meno dal 18 maggio 2020)”.

De plano, seguendo il ragionamento condotto dal Tribunale capitolino, le ripercussioni della pandemia sul contratto “non sono dunque né solamente quelle della impossibilità totale temporanea (che comporterebbe il completo venir meno del correlato obbligo di corrispondere la controprestazione) né quelle della impossibilità parziale definitiva (che determinerebbe, ex articolo 1464, una riduzione parimenti definitiva del canone): trattandosi di impossibilità parziale temporanea, il riflesso sull’obbligo di corrispondere il canone sarà dunque quello di subire, ex articolo 1464 Codice Civile una riduzione destinata, tuttavia, a cessare nel momento in cui la prestazione della resistente potrà tornare ad essere compiutamente eseguita”.

Il Giudice stabilisce, quindi, che il locatore ha potuto eseguire (anche se senza colpa, ma per factum principis) durante il lockdown una prestazione solo parzialmente conforme al dettato contrattuale, dunque ha ritenuto che il conduttore avesse diritto ex articolo 1464 Codice Civile a una riduzione del canone limitatamente al solo periodo di impossibilità parziale, riduzione da effettuarsi, nel quantum, con riferimento: a) alla sopravvissuta possibilità di utilizzazione del ramo di azienda nella più limitata funzione di ricovero delle merci, correlata al diritto di uso dei locali; b) al fatto che il ramo di azienda è pur sempre rimasto nella materiale disponibilità della ricorrente.

In conclusione, pertanto si può affermare che il Tribunale di Roma, pur stimolando le parti a percorrere la via della ricerca di un accordo, sia intervenuto concretamente nel regolamento contrattuale e nella regolamentazione del rapporto obbligatorio, giudicando equa una riduzione dell’ammontare del canone mensile del 70% per i mesi di sospensione dell’attività economica.

Le pronunce della Giurisprudenza di legittimità sul punto:

Evidenzio subito come la Corte di Cassazione abbia offerto un contributo significativo in ordine alla regolamentazione delle conseguenze relative all’emergenza da Covid-19 che si ripercuotono sulle obbligazioni contrattuali (come, appunto, la locazione) attraverso la Relazione dell’Ufficio del Massimario dell’8 luglio 2020 n. 56.

Detta Relazione analizza gli istituiti tradizionali nonché le misure normative sostanziali relative al diritto emergenziale in ambito contrattuale e concorsuale.

Sarà sufficiente che rammenti come la Suprema Corte stabilisca chiaramente come l’istituto della impossibilità parziale di cui all’articolo 1464 Codice Civile possa difficilmente trovare applicazione ai contratti di locazione, anche di beni produttivi, “dal momento che la prestazione di concessione in godimento rimane possibile e continua a essere eseguita quand’anche per factum principis le facoltà di godimento del bene risultino momentaneamente affievolite”.

“Nel contratto di durata – viene osservato nella  Relazione – la prestazione del locatore continua ad essere resa benché l’utilità che il conduttore ne ricava sia allo stato depressa. Fare perno sulle disposizioni in materia di impossibilità sopravvenuta per smarcare in tutto o in parte il locatario dal pagamento del canone vuol dire correggere l’alterazione dell’equilibrio contrattuale, dislocando una porzione delle conseguenze finanziarie del Covid da una parte all’altra del contratto, ma sulla base di una considerazione che appare ispirata al buon senso, più che al rigore giuridico”.

In relazione poi allo strumento dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, la Cassazione ne afferma il ricorso nell’attuale contingenza socio-economica, dovendosi attribuire al fenomeno pandemico i caratteri di straordinarietà, imprevedibilità e inevitabilità previsti dalla disciplina codicistica. Tale rimedio può rivelarsi, però, secondo i Giudici di Piazza Cavour, scarsamente utile nella prassi, a causa appunto, delle conseguenze falcidianti e non conservative del negozio, il quale può essere salvato soltanto dalla parte avvantaggiata dalla sopravvenienza e, pertanto, con il minor interesse alla riconduzione ad equità del dettato contrattuale.

Segnalo, altresì, come con precipuo riferimento alle obbligazioni pecuniarie, all’interno della Relazione si stabilisca che “il mancato o tardivo pagamento di somme dovute rimane, allo stato, e in linea di principio, ingiustificato e imputabile. Pur nel quadro costituzionale del principio solidaristico, il concetto di impossibilità della prestazione non ricomprende, infatti, la c.d. impotenza finanziaria, per quanto determinata dalla causa di forza maggiore in cui si compendia l’attuale emergenza sanitaria. Il principio non scalfito rimane quello che nega all’impotenza in questione, sebbene incolpevole, una vis liberatoria del debitore dall’obbligazione pecuniaria”.

In base al principio giuridico espresso dall’antico brocardo genus numquam perit, “non può esservi impossibilità oggettiva e assoluta di procurarsi il denaro per adempiere, essendo il denaro un bene generico e imperituro”.

Peraltro la Cassazione sancisce anche come la disposizione che obbliga le parti a comportarsi secondo correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 Codice Civile) si inserisce nel quadro delle norme imperative di legge che vincolano e regolano l’autonomia privata. Nel particolare momento oggetto della presente indagine, tale principio deve tradursi nel dovere di rinegoziare un negozio squilibrato.

Quindi seguendo il ragionamento dei Giudici di legittimità  il precetto della buona fede contrattuale genererebbe l’imposizione in capo alle parti di “rendersi disponibili alla modificazione del contatto, allorché la parte interessata a mantenere in essere un rapporto in senso aderente alla concreta realtà del mercato inviti l’altra a rinegoziare”, ingenerando quindi il dovere di quest’ultima di avviare la rinegoziazione in modo concreto, secondo i principi scaturenti, dalla clausola generale di buona fede.

Come vengono regolate le controversie scaturenti dalla pandemia da Covid-19:

Dopo aver passato in rassegna le principali posizioni assunte dalla Giurisprudenza di merito e di legittimità sul contenzioso scaturente dall’emergenza epidemiologica, ritengo opportuno dare conto di come il Legislatore, ha inteso regolare la materia in oggetto – in un’ottica di decongestionamento del contenzioso giudiziario – e abbia reso obbligatorio il preventivo ricorso all’istituto più utilizzato tra quelli di Alternative Dispute Resolution (ADR), ovvero la mediazione per risolvere le vertenze sorte a causa del lockdown a seguito della pandemia da Covid -19.

Analizzando la normativa sul punto osservo infatti che: il comma 1-quater dell’articolo 3 del Decreto-Legge 30 aprile 2020, n. 28, inserito in sede di conversione dalla Legge 25 giugno 2020, n. 70, ha aggiunto all’articolo 3 del Decreto-Legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla Legge 5 marzo 2020, n. 13, il comma 3-ter secondo il quale:

“Nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l’emergenza epidemiologica da COVID-19 sulla base di disposizioni successive, può essere valutato ai sensi del comma 6-bis, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituisce condizione di procedibilità della domanda”.

Detto articolo il quale è entrato in vigore il giorno successivo a quello di pubblicazione della Legge n. 70/2020 in Gazzetta Ufficiale e, pertanto, il 30 giugno 2020, aggiunge quindi un nuovo caso di mediazione obbligatoria per tutte le vertenze incentrate su obbligazioni nascenti da un contratto in cui l’inadempimento di una delle parti sia stato causato, anche solo in ipotesi, dal rispetto delle misure di contenimento disposte durante l’emergenza epidemiologica, da valutarsi, al contempo, per l’esonero della responsabilità per il ritardato, l’inesatto o il mancato adempimento dell’obbligazione assunta ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 Codice Civile (articolo 3, comma 3-bis, Decreto Legge 23 febbraio 2020, n. 6).

L’orientamento seguito dal Legislatore è quello di privilegiare la conservazione del rapporto obbligatorio valutando in modo meno severo gli effetti dell’inadempimento del debitore.

E’ pertanto ovvio come si sia cercato di stimolare in tutti i modi la ricerca e il raggiungimento di un’intesa tra le parti, allo scopo di garantire la sussistenza del vincolo obbligatorio attraverso la rinegoziazione del contratto, il ristabilirsi dell’equilibrio negoziale e la compartecipazione del proprietario alla temporanea difficoltà economica del proprio inquilino (vedasi sul punto la Relazione sopra menzionata: “Il venir meno dei flussi di cassa è un contagio diffuso, rispetto al quale la terapia non è la cesura del vincolo negoziale, ma la sospensione, postergazione, riduzione delle obbligazioni che vi sono annesse”), o regolarne in modo meno gravoso per il conduttore inadempiente gli effetti dello scioglimento del medesimo.

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