imagesA cura della dott.ssa Giusy Marigliano

Il nostro codice civile consacra agli artt. 1321 e 1322 il principio di autonomia privata in virtù del quale le parti, interessate alla realizzazione di un dato assetto di interessi, sono libere di determinare il contenuto dello stesso nel modo maggiormente confacente alle proprie esigenze, combinando due o più obbligazioni o prestazioni in genere e dando vita anche a fattispecie non corrispondenti ad alcun modello legale e pertanto atipiche. In tal senso si coglie la reale portata della prima delle succitate norme, volta ad individuare il contenuto del contratto nella determinazione rimessa ai paciscenti di costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale. Il legislatore prevede, pertanto, expressis verbis la facoltà di intervenire nuovamente su un regolamento contrattuale precedentemente divisato tra le parti (ergo preesistente) al fine di consentire alle stesse di perseguire il risultato voluto con qualsiasi mezzo negoziale pur sempre nel pieno rispetto dei limiti esterni (nonché legali di cui all’art. 41co. 2) fissati dalla Carta Costituzionale e interni (di matrice convenzionale). Alla luce di ciò si suole sussumere nella funzione regolamentare il negozio modificativo, inteso quale strumento che consente ai contraenti di esprimersi nuovamente sull’assetto in precedenza cristallizzato modificandolo in modo da non snaturarlo dell’originaria fisionomia e del proprio nomen juris. Trattasi a ben vedere di un negozio di secondo grado poiché ha per oggetto lo stesso rapporto giuridico su cui in prima battuta  le parti si sono espresse e al quale è collegato funzionalmente da un avvincente nesso economico e teleologico. Ciò a ben vedere non incide sulla causa, la quale resta pur sempre autonoma e distinta da quella del negozio di primo grado. Unico aspetto di discrimine risiede nella sua intrinseca atipicità, dato dall’assenza di una previsione legislativa che la schematizzi in astratto, necessitando così di superare indenne il vaglio di meritevolezza di cui all’art. 1322 co. 2 cc. È d’uopo, poi, soffermarsi sull’elemento caratterizzante del negozio in commento, ravvisabile nella componente soggettiva dell’animus modificandi. Siffatto stato d’animo interviene allorquando, stipulato e concluso un dato regolamento di interessi, i paciscenti palesano la volontà di regolarne gli effetti accessori sostituendoli con altri nuovi e differenti, e non procedendo in tal modo alla mera amputazione dei medesimi. Una simile esigenza affiora, di regola, al sopravvenire di fattori imprevedibili e non conoscibili al tempo della stipula e come tali  idonei a determinare uno squilibrio delle posizioni ricoperte dalle parti nell’assetto in questione. Risulta chiaro che quest’ultime, dando vita ad un’operazione complessa come quella in esame articolantesi in scelte non solo di tipo modificativo bensì integrativo, mirano a rimuovere il deficit posizionale di cui sopra. Naturaliter ogni intervento deve presentarsi come parziale, poiché diversamente non dovrebbe più disquisirsi di rinegoziazione ma di novazione, dato che la modifica di un elemento essenziale muta di regola la fisionomia dell’originaria obbligazione, palesando un animus novandi e non modificandi.[1] In tale ordine di ipotesi affinché si concretino gli estremi di una novazione oggettiva è necessario che l’ampiezza della modifica sia tale da realizzare un nuovo rapporto obbligatorio, differente dalla fattispecie di origine. Da quanto appena riferito emerge la reale portata di siffatto potere regolamentare: scongiurare che il pregiudicato equilibrio contrattuale si traduca in un incentivo per una o ambedue le parti all’inadempienza. Quivi non si pone un problema assoluto di raggiungibilità dello scopo ma di mere difficoltà nel perseguimento dello stesso imputabili a circostanze esterne e sopravvenute. Così ragionando l’autonomia contrattuale, palesata nuovamente in un negozio di secondo grado, interviene con l’unico fine di giustizia distributiva di rimuovere lo squilibrio de quo, garantendo un’opportuna allocazione del rischio sopraggiunto.[2] A tal proposito si presenta calzante una breve digressione sulle fonti della rinegoziazione in commento.[3] Autorevole dottrina rinviene nella prassi contrattuale tre distinte fonti del potere suddetto. In primis, il negozio di secondo grado può sorgere dalla libera e spontanea scelta delle parti di dar vita a nuove trattative, le quali dovranno informarsi alla general Klausel della treu und glauben fondante l’intero rapporto contrattuale (artt. 1175,1337,1338,1375,1460 co. 2 cc). Qui affiorerà il solito problema di conformità dell’assetto rivisitato all’ordinamento giuridico in termini concreti di liceità e meritevolezza e non di mera sovrapposizione ad un astratto schema legale di riferimento. In secundis, la fonte può essere di matrice legale. Trattasi di casi particolarmente circoscritti che vedono il legislatore costretto a muoversi cautamente tra il rispetto dell’autonomia contrattuale e la salvaguardia dell’equilibrio economico- giuridico del contratto. Ne consegue che lo stesso dovrà auto- limitare il proprio potere di intervento alle sole ipotesi in cui il concretarsi di eventi sopravvenuti e imprevedibili esuli dalla “normale” alea contrattuale, sortendo conseguenze che i paciscenti non avrebbero mai potuto prevedere secondo l’id quod plerumque accidit di quel dato assetto di interessi.[4] Si pensi alla portata dell’art. 1467 cc. che prevede, al co. 2, un limite allo scioglimento del vincolo contrattuale allorquando l’onerosità rientri <<nella normale alea>> dello stesso, costituendo un suo aspetto essenziale e determinante. La risoluzione, così come la rinegoziazione, può pertanto avere ad oggetto solo rapporti obbligatori colpiti dal cd. imprevisto, in caso contrario il rischio si paleserà quale ordinaria conseguenza del contratto non dovendo quest’ultimo sempre dar luogo ad una netta equivalenza economica e giuridica delle relative prestazioni (salvo naturalmente i casi espressamente sanciti dalla legge). Siffatto ordine di considerazioni è, poi, rintracciabile alla base di altre norme del codice civile quali l’art. 1450 che, in materia di rescissione, mira a rimuovere ab origine lo squilibrio nel rapporto globalmente inteso; oppure l’art. 1664 che, afferente al contratto di appalto, facoltizza le parti a rinegoziare il prezzo ove si concretino gli estremi di una difficoltà od onerosità nell’esecuzione del medesimo; o ancora l’art. 1710 in materia di modifiche del contratto di mandato al ricorrere di fatti imprevedibili ed eccezionali. Accanto alla su esplicitata fonte legale, è possibile rinvenire una terza ed ultima categoria rappresentata dalle cd. clausole di rinegoziazione. Tali clausole, anche note con la locuzione di hardship clauses, consentono alle parti di gestire e superare il deficit di equilibrio in esame mediante il loro inserimento a monte nello stesso sostrato contrattuale.[5] In tal modo è possibile ovviare ad una radicale crisi del regolamento di interessi che si traduca in un’inevitabile fine del rapporto obbligatorio a cui fa capo. La rinegoziazione delle difficoltà de quibus può, poi, essere meramente facoltativa non obbligando la clausola in commento nemmeno all’avvio delle relative trattative. Quest’ultima talvolta può , invece, costringere i paciscenti almeno ad intavolare la fase delle trattative, non ponendo l’accento sul buon fine della rinegoziazione. Tal’altra il potere regolamentare è saggiato dalla clausola di hardship quale vero e proprio obbligo, necessitante di criteri di adempimento volti ad attribuire il crisma della serietà alla stessa. L’assenza o l’assoluta indeterminatezza dei suddetti criteri può portare la previsione in oggetto verso le scure di una declaratoria di nullità (per indeterminatezza dell’oggetto ex artt. 1346- 1418 cc), così invalidando il tentativo delle parti di riequilibrare il contratto. Siffatte asserzioni inducono a considerare tale ultima categoria di clausole come una sorta di fattispecie mediana a me tà strada tra fonte convenzionale e fonte legale. Infatti con riferimento alla sua previsione ed inserimento in apposito contratto , essa vanta natura convenzionale poiché rimessa alla volontà libera e spontanea delle parti, mentre con riguardo alla sua ottemperanza palesa una dimensione legale traducendetesi nella cogenza del vincolo di rinegoziazione pena la sanzione più grave di nullità. Trattasi a ben vedere di clausole che rinvengono un’importante applicazione nella prassi contrattuale, soprattutto di tipo internazionale, così come dimostrato dalla disciplina contenuta nell’art. 6.2.3 dei Priciples of International Commercial Contracts (meglio noti con l’acronimo di convenzioni UNIDROIT) incentrata sugli effetti connessi all’impiego delle clausole suddette. Quanto sin qui asserito consente di sottolineare, prescindendo dalla relativa fonte, che intrapreso l’iter modificativo questo seguirà le normali sorti di qualsivoglia attività di stipulazione . Si potrà, così, giungere alla formazione del consenso mediante un semplice scambio di proposta e accettazione oppure attraverso una procedura complessa formantesi in via progressiva.[6] Ancora una delle parti potrebbe rendere irrevocabile la proposta secondo il disposto di cui all’art. 1329 cc. oppure ambedue potrebbero fissare la corresponsione di un prezzo per realizzare l’attività modificativa oggetto di analisi. Ciò risulta valevole sia quando si disquisisca di fattispecie contrattuali a struttura bilaterale (con due contrapposti centri di interesse) sia allorquando si tratti di negozi plurilaterali (ove i centri di interesse sono più di due ma vi è comunione di scopo). La principale categoria di tale ultima ipotesi è incarnata dai contratti associativi. Questi sorgono con la stipula di un atto costitutivo (soprattutto con riguardo alle società) teso a disciplinare la fase genetica della categoria de qua e di norma affiancato da uno statuto, invece, volto alla regolazione degli aspetti dinamici nonché  funzionali dell’esistenza delle  associazioni medesime. In tal modo la pluralità di persone, che aderiscono a tale vincolo associativo, confluisce nella creazione di una persona giuridica volta a realizzare un dato scopo comune, il quale a seconda delle singole ipotesi può rinvenirsi nell’intento di tutti i consociati di godere di determinati servizi (come nelle cooperative), oppure di creare un regolamento collettivo (come nelle ipotesi dei consorzi ) o infine di conseguire un certo lucro (come avviene nelle società).[7] La peculiare elasticità che permea i contratti associativi fa sì che eventuali modificazioni dello statuto, pur se involgenti elementi essenziali o strutturali dello stesso, non sortisca quale effetto quello di mutare la sua fisionomia o identità originaria come invece avviene con riguardo alla tradizionale ipotesi bilaterale. Pertanto, i soci potranno introdurre nuove clausole, eliminare alcune preesistenti oppure semplicemente innovarle. Nelle società di persone di solito è possibile arrecare delle modifiche al contratto sociale solo con il consenso palesato ad opera di tutti gli aderenti. A ben vedere lo stesso art. 2252 cc. prevede nell’inciso finale una clausola di salvaguardia <<se non è convenuto diversamente>> che consente di adattare alle esigenze del singolo caso concreto la disciplina in commento. Così i soci potranno inserire nello statuto una clausola che, in previsione di eventuali interventi modificativi, saggiando il principio maggioritario renda possibile l’adozione delle suddette modifiche al raggiungimento di una semplice maggioranza, in loco della talvolta invalidante unanimità. Il su riferito principio è, poi, presente anche con riferimento alle società di capitali. Le modifiche allo statuto di quest’ultime sono saggiate agli artt. 2436 ss. cc., imperniate su un profondo rigore formale il quale si esplica nell’adempimento di una serie di oneri pubblicitari di natura costitutiva, come la relativa iscrizione nel registro delle imprese a tutela dei terzi e il successivo controllo di legalità della deliberazione assembleare (con cui si realizza la modifica) effettuato dal notaio verbalizzante. Alcune delle modifiche de quibus sono da autorevole dottrina qualificate come essenziali poiché afferenti a profili non solo strutturali ma di particolare importanza e traducentesi nel trasferimento (alcuni sostengono che l’istituzione e la soppressione delle sedi secondarie costituisca modifica statutaria) della sede legale all’estero, nel significativo cambiamento dell’attività svolta in via principale dalla società, nella revoca dello stato di liquidazione o ancora nella proroga di durata del termine pattuito (di cui si considera inammissibile l’ipotesi fattuale scevra dei formalismi su indicati).[8] Una particolare disciplina, a tal proposito, si riscontra in tema di aumento del capitale sociale di cui all’art, 2348 cc. la norma in questione segna la chiara voluntas legis a favore di una chiave di lettura che propende per la configurazione dell’integrale liberazione delle azioni emesse in precedenza quale mera condizione di procedibilità delle deliberazioni di aumento. Originariamente la norma si applica tanto alle ipotesi di aumento a “pagamento” tanto di quelle “gratuite” poiché realizzate mediante l’emissione di nuove azioni. Solo in seguito alla riforma l’ambito è stato circoscritto alla prima delle due ipotesi indicate. Siffatto divieto di modifica mira a scongiurare un pericoloso intreccio tra nuove azioni e perdite pregresse, a danno non solo della compagine sociale ma dei terzi creditori che con la stessa vanta poste attive di credito. In tal senso alcuni interpreti asseriscono quale fondamentale e propedeutico passaggio, all’aumento del capitale, la riduzione del medesimo nella misura corrispondente alla perdita ex art. 2446 cc. in materia di ripianamento delle perdite.[9] Secondo un differente e contrario orientamento  l’aumento de quo sarebbe sempre possibile purché si resti nell’alveo di quegli <<opportuni provvedimenti>> di cui parla lo stesso art. 2446 al co. 1 cc.[10] I provvedimenti dell’assemblea per poter essere considerati opportuni devono essere collegati alla perdita e alla sua copertura. Secondo un’interpretazione di gran luna prevalente si tratterebbe di atti dallo spiccato profilo gestorio volti ad enucleare tanto casi di aumento del capitale con contestuale riduzione dello stesso o nelle più intraprendenti soluzioni della diretta emissione di nuove azioni senza il previo ripianamento. È opportuno, poi, sottolineare che in seguito alla trasgressione del divieto in esame l’art. 2438 al co. 2 cc. saggia la responsabilità solidale degli amministratori per i danni arrecati ai soci ed ai terzi. Trattasi di una responsabilità di tipo extracontrattuale volta a compensare i soggetti lesi da un danno ingiusto, in quanto realizzato non iure e contra ius ossia in assenza di una disposizione normativa che lo facoltizzi e contro il dettato della nostra Grundnorm.  Affinché il danno sia risarcito e liquidato è necessario che il soggetto leso non solo alleghi ma provi gli elementi costitutivi del fatto (ex art. ), quali la fonte da cui la lesione si è originata e la relativa imputabilità agli amministratori suddetti nonché gli estremi del pregiudizio in questione. Siffatto titolo di responsabilità è, poi, estensibile anche ai sindaci in ragione dell’operatività del disposto di cui all’art. 2407 co. 2 cc., quivi è sancita la solidarietà tra sindaci ed amministratori per i fatti o le omissioni di quest’ultimi, laddove <<il danno non si sarebbe prodotto se avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica>>. Da un’attenta lettura affiora la ridondanza e superfluità della previsione di cui all’art. 2438 co. 2 cc. , infatti trattandosi di un obbligo imposto agli amministratori ex lege  la responsabilità si sarebbe potuta affermare anche in assenza della medesima. Emerge da siffatta analisi la natura squisitamente legale del divieto di aumento del capitale sociale la cui trasgressione può condurre, pertanto alla declaratoria di nullità secondo quanto previsto dall’art. 1418 cc. ove lo stesso si consideri come assoluto e, a cui si affianca (od opera in via esclusiva) l’actio damni di cui all’art. 2043 cc., comprensivo di deminutio patrimonii e lucro cessante (ex art. 1223 cc.). Alla luce di quanto fin ora analizzato è d’uopo puntualizzare che ove si sia al cospetto di obblighi di rinegoziazione di fonte legale sorge il problema circa l’ammissibilità dell’intervento giudiziale sull’assetto di interessi in caso di patologia dello stesso. Secondo la dottrina, che fonda la categoria degli obblighi in questione sul meccanismo di cui all’art. 1467 cc., sarebbe riconosciuto al giudice un ampio potere di ingerenza sul merito del contratto, al fine di riequilibrarlo facendo salva la tendenziale equivalenza tra i contrapposti centri di interesse. In tal modo, l’operatore giuridico potrebbe con l’equità travalicare le cinta della cittadella della volontà contrattuale, sostituendo pro parte il suo giudizio a quanto divisato in origine tra le parti. In tal caso, sarà necessario rintracciare i criteri a cui l’intervento giudiziale dovrà attenersi per garantire la sostituzione di cui sopra, ove manchi un accordo tra i paciscenti. Ciò risulterebbe corroborato dal dettato dell’art. 1349 cc.  che consente al giudice di intervenire  in caso di mancata determinazione dell’oggetto contrattuale ad opera del terzo. Allo stesso modo si ritiene, in virtù di un vero e proprio parallelismo, tale via percorribile allorquando i contraenti, dopo essersi vincolati a rinegoziare, non portino a buon fine le trattative. Risulta, pertanto, lapalissiano che l’intervento del giudice sul contenuto contrattuale sia ammissibile solo nei casi espressamente sanciti dalla legge, diversamente si riconoscerebbe cittadinanza ad indebite ingerenze volte a comprimere e frustare la stessa autonomia contrattuale. Rispetto alle ipotesi su riferite le clausole di rinegoziazione di fonte contrattuale pongono il problema circa la relativa coercibilità nei casi in cui le stesse siano disattese. In primo luogo bisogna richiamare la tripartizione impiegata nella presente analisi e volta a differenziare le varie ipotesi a seconda dell’intensità del vincolo su cui sono modellate. In prima battuta al cospetto di clausole che non vincolano le parti nemmeno ad intavolare le trattative non sorge alcun tipo di problema dato che le stesse difettano di rilevanza giuridica. Diverso risulta il discorso in esame con riguardo a quelle clausole che fanno cadere la vincolatività dell’obbligo sulle trattative de quibus, ma che nulla avanzano con riferimento all’accordo rinegoziativo. In tale ordine di ipotesi un prevalente orientamento dottrinario propende per la configurabilità  dell’efficacia reale della medesima atta ad essere concretizzata in executivis mediante il meccanismo di cui all’art. 2932 cc. Quivi la buona fede attuativa del regolamento contrattuale consentirebbe al giudice di vagliare la legittimità del fallimento del tentativo modificativo così da poter intervenire in caso di esito negativo.  Un simile risultato a ben vedere si configurerebbe solo se la clausola pur prevedendo l’obbligo di rinegoziazione non fornisca alcun criterio o direttiva in materia. Infatti ove vi sia una puntuale e dettagliata disciplina dei criteri in parola, la parte interessata (poiché colpita dall’asimmetria negoziale) potrebbe ottenere una vera e propria sentenza costitutiva idonea a produrre i medesimi effetti che la corretta esecuzione della clausola avrebbe sortito.[11] Ciò, naturaliter, vanta delle rilevanti ricadute in materia risarcitoria. Alla luce dell’ultima fattispecie esaminata la presenza di criteri dettagliati non solo riducono lo spazio di discrezionalità che fa capo ai contraenti (facoltizzando il sub ingresso dell’integrazione giudiziale) ma al contempo consentono una più pronta individuazione dell’an del risarcimento danni ed una più agevole determinazione del quantum. Contrariamente la previsione di criteri vaghi o eccessivamente elastici o la loro totale assenza non solo rende più difficoltoso l’accertamento di eventuali inadempienze ma si ripercuote negativamente sullo stessa constatazione e liquidazione del danno patito da una delle parti. Da quanto precede risulta chiaro che l’autonomia contrattuale è libera, ma nel rispetto dei limiti fissati dalla legge che tendono ad attribuire rilevanza giuridica a tutte quelle fattispecie, seppur atipiche, meritevoli di essere salvaguardate. In tal senso, allorquando i contraenti non abbiamo fatto buon uso di una simile facoltà trasgredendo alla buona fede in executivis il legislatore consente al giudice di intervenire salvando il regolamento contrattuale dalle scure della declaratoria di nullità (in ottemperanza al noto corollario di conservazione degli strumenti giuridici).



[1]Torrente A. – Schlesinger P. , Manuale di diritto privato, Milano, 2004, 480;

[2]Gallo P., Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Padova, CEDAM, 1992, 95;

[3]Gentili A., La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, in Contr. Impr. 2003, 809;

[4]Boselli A. , Alea, in Nss. Dig. It., I, 1957, 475- 476;

[5]Cirielli S. E., Clausola di hardship e adattamento nel contratto commerciale internazionale, in Contr. Impr. Eur., 1998, 758;

[6]Ricciuto V., La formazione progressiva del contratto ed obblighi a contrarre, in Trattato di diritto privato, diretto da p. Rescigno, IX, Torino, UTET, 2006, 151;

[7]Campobasso C., Diritto commerciale, II, Diritto delle società, Torino, UTET, 2002,471;

[8]Ferri G., Le società, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, XIII, Torino, UTET, 1987, 858;

[9]Trib. Verona, 22-11-1988, Soc. 89, 288;

[10]Trib. Roma, 10-9-1984, Soc. 85, 606;

[11]Gentili A., La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, cit., 821.

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